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Crisalidi e farfalle: intervista ad Emanuele Parrini
ByÈ capitato al sottoscritto di assistere il 16 giugno, a Bolzano, al concerto-evento dell’Italian Instabile Orchestra con Anthony Braxton. In quell’occasione, al cospetto di uno dei giganti dell’improvvisazione contemporanea e dei vari Minafra, Trovesi, Actis Dato e Colombo, ha catalizzato la mia attenzione e suscitato il mio entusiasmo il violino proteiforme di Emanuele Parrini: indemoniato, etereo, straziante, contorto, dadaista, sardonico, urticante, languido. L’intervista che segue è il tentativo di rimediare all’imperdonabile errore di non essermi accorto prima che la crisalide era vuota da un bel pezzo e la farfalla era già volata via.
All About Jazz: Vorrei iniziare la nostra chiacchierata dal concerto di Bolzano. L’impressione che ho avuto assistendo alla performance (che io ritengo di altissimo livello) è che ci fosse un generale entusiasmo ed una forte eccitazione tra i musicisti per quanto stava avvenendo. Inoltre, ho percepito una straordinaria concentrazione ed un feeling particolare tra Braxton e l’Italian Instabile, come se il maestro fosse riuscito a “indossare” l’orchestra (a differenza del concerto con Cecil Taylor - pubblicato dalla Enja col titolo The Owner of the River Bank - in cui il fascino della musica derivava in gran parte dalla lacerante tensione tra il solista e gli orchestrali). Raccontaci questa esperienza dal tuo punto di vista: il primo approccio, le tappe di avvicinamento, sensazioni, emozioni e quant’altro.
Emanuele Parrini: Il concerto di Bolzano: l’Italian Instabile Orchestra incontra Anthony Braxton. Detta in altre parole, una di quelle occasioni pazzesche che ogni musicista sogna di poter vivere. Braxton è uno dei Maestri assoluti della musica che amiamo e che suoniamo e l’emozione è naturale, ma posso anche parlare di eccitazione e curiosità. Rispetto al concerto con Cecil Taylor sicuramente un altro tipo di idea, di dinamiche, se vuoi anche di energia e di concentrazione; e poi per quanto mi riguarda anche un altro tipo di presupposti. Quando l’Orchestra ha tenuto il concerto a Sant’Anna Arresi nel 2003, le esperienze con Taylor erano già state due e c’era un disco. All’epoca sostituivo Renato Geremia e mi sono ritrovato, quasi dal nulla, sul palco, nell’occhio del ciclone! Concerto incredibile, esperienza fantastica!
Avevo invece conosciuto Braxton nell’aprile 2006, a Siena, in occasione di un workshop organizzato da Silvia Bolognesi e Alessandro Giachero in collaborazione con Franco Caroni. Quando poi ci siamo rincontrati a Prato a febbraio, per la Stagione di Metastasio Jazz, la tre giorni/concerto con l’Instabile era già fissata. Proprio in quell’occasione abbiamo avuto una lunga conversazione sull’Orchestra, sulle persone che avrebbe ritrovato e sull’entusiasmo da parte di entrambi che questa opportunità di suonare si concretizzasse. Insomma, mi sembrava di percepire da parte sua un’emozione molto forte. E’ con questo clima elettrizzante che abbiamo cominciato a lavorare.
Questa musica, come nessun’altra, è fatta di sentimenti, di fiducia, complicità oltre che di note e note scritte. Abbiamo avuto l’impressione che si sentisse parte del gruppo, nonostante avesse la responsabilità di guidarci nelle sua musica.
AAJ: Scendendo più nel dettaglio musicale, un’altra mia curiosità riguarda il modo estremamente fisico di condurre di Braxton (il maestro si dimenava a più non posso, esponendo cartelli e grondando sudore come un maratoneta all’ultimo chilometro). Potresti svelarci qualche segreto a tal proposito? Che rapporto intercorre in una performance del genere tra la conduzione, l’improvvisazione e la pagina scritta?
E.P.: Braxton per questo concerto ha portato diverse sue composizioni, alcune suonate con la “Creative Orchestra”, comunque nessuna nuova o scritta per l’occasione: musica molto bella e tutto materiale molto impegnativo. I brani scelti sono diventati la struttura in cui muoversi tra improvvisazione e conduzione. Ci ha guidati nel suo mondo con il linguaggio dei segni e con i cartelli: lo ha fatto con una dedizione e concentrazione fuori dal comune.
In una vecchia intervista sul “New Time” rilasciata a Robert Palmer, Braxton diceva: “La mia è una ricerca estetica composita, una sintesi tra il principio dell’improvvisazione jazzistica e la raffinata complessità della musica classica contemporanea. […] Il mio lavoro è un’estensione della tradizione della musica creativa, dall’estetica nera al contemporaneo. Sono un compositore e un improvvisatore: mi sto sforzando di allargare gli spazi entro i quali il musicista creativo può muoversi. Fondamentalmente sono uno strutturalista che si sforza di operare nel maggior numero di “realtà funzionali” che la musica oggi consente. […] Sono passato attraverso tutte le scuole: Parker, Tristano, Konitz, Desmond, Coltrane, Dolphy, Davis, Taylor. Nello stesso periodo nel quale io progredivo in campo jazzistico da Desmond a Coleman e Ayler, ho scoperto i dischi di Schönberg, Stockhausen e Cage nell’area della musica contemporanea: e tutto questo simultaneamente. La mia concezione della musica deriva da questa interpretazione binaria. […] Utilizzo elementi matematici come un mezzo per strutturare empiricamente certi elementi della musica.” Sono affermazioni che trovo ancora attuali e che rispecchiano l’esperienza appena fatta.
AAJ: Tra i tanti che hanno brillato quella sera, credo che il tuo violino sia stato lo strumento che ha maggiormente caratterizzato il suono complessivo dell’ensemble. A giudicare dal numero di volte in cui sei stato chiamato in causa e dall’eroico furore con cui hai affrontato la performance (ad un certo punto ho temuto che il tuo strumento prendesse fuoco), sembrava che ci fosse un’intesa speciale tra te e Braxton. Era previsto questo tuo ruolo di primo piano o è semplicemente accaduto?
E.P.: Non so se il mio sia stato un ruolo di primo piano o così caratterizzante del concerto, ti posso dire che ero molto concentrato e partecipe della musica, così come il resto dell’Instabile che ha dato una splendida prova di sé. Credo sia stato un incontro particolarmente felice e proficuo tra “due” interlocutori che ci si augura si incontrino ancora.
AAJ: Cosa rimane a Emanuele Parrini di questa esperienza?
E.P.: Cosa mi rimane? Tutto! Dalla musica splendida all’averla condivisa con una grande formazione fatta di compagni eccezionali. Poi naturalmente Braxton: l’aver avuto la possibilità di approfondire un mondo musicale così complesso e affascinante e di conoscere l’uomo, una persona dolce, generosa e di eccezionale disponibilità.
AAJ: Un’ultima cosa su Bolzano prima di passare ad altro. Tenendo conto del fatto che l’Italian Instabile soffre di una preoccupante mancanza di sostegno economico e discografico, c’è la volontà e la possibilità che il concerto venga pubblicato?
E.P.: Questa tre giorni Braxton/Instabile, organizzata con grandi sacrifici, è una prova tangibile di quanto l’Orchestra sia viva e in salute, nonostante tutte le difficoltà che purtroppo ci sono e che sono state spiegate in conferenza stampa (nella quale è stato anche presentato il nuovo CD London Hymns).
Il concerto è stato registrato, quindi si vedrà.
AAJ: Veniamo a te e alla tua storia. Visto lo status non proprio jazzistico del tuo strumento, immagino che tu abbia iniziato con gli studi classici. Come ti sei avvicinato al jazz? C’è stato un evento epifanico (un concerto, un disco, un amico, un musicista) che ti ha portato ad accostarti all’improvvisazione?
E.P.: L’evento c’è! Ho frequentato per anni la scuola di musica del mio paese (Orbetello - GR) che aveva un’orchestrina che si avvaleva della collaborazione di Giulio Libano, musicista, arrangiatore (ad es. Chet Baker in Milan del ’59) e amico di vecchia data di alcuni dei personaggi della formazione. Così ho conosciuto qualche standard jazz che sono andato poi a ricercare in quell’Enciclopedia della Fabbri che i miei, quasi inspiegabilmente, avevano comprato alla fine degli anni ‘70. La passione scoppiò un giorno, grazie a mio cugino, con la scoperta di uno dei dischi di quella collana dedicato a Stephane Grappelli. Un colpo di fulmine dal quale non mi sono più ripreso.
AAJ: Si discute spesso del rapporto difficile tra il mondo accademico e il jazz. Come hai vissuto questo passaggio? Credi che la formazione accademica in Italia ostacoli l’approccio all’improvvisazione o pensi che la presunta intransigenza dell’educazione classica sia soltanto una mistificazione?
E.P.: In realtà è un passaggio che ho vissuto solo in parte, in quanto non ho mai frequentato un Conservatorio o istituzioni simili, se non la scuola di musica di cui parlavo e in seguito Siena Jazz. Ti potrei raccontare di tutte quelle che sono state le difficoltà avute nel cercare di acquisire un linguaggio particolarmente ostico per il tipo di strumento, ma tutto è avvenuto in completa autonomia. Fondamentalmente quello accademico è un mondo che non conosco. L’opinione che posso esprimere si riferisce alle persone: se incontri quelle giuste, gli insegnanti giusti, riesci ad appassionarti; ma questo vale un po’ per tutte le discipline.
AAJ: Tra le tue numerose esperienze formative, ho notato la partecipazione ai corsi di Siena e ad un seminario con Steve Lacy. Che ricordo hai di questi episodi?
E.P.: Se quello con Steve Lacy è stato un incontro breve, ma significativo, l’esperienza di Siena rimane indimenticabile. Bella perché è stato un periodo bello della vita, perché i compagni divennero in breve tempo tutti amici. Eravamo lì per fare musica, eravamo calati in un ambiente ed in una dimensione pieni di stimoli, e questo anche grazie ai nostri insegnanti. Ricordo il gruppo di musica d’insieme diretto da Furio Di Castri come una delle prime esperienze veramente formative.
Ma in questo discorso sarebbe ingiusto dimenticare quello che poi in realtà è stato il mio Maestro, e cioè Tony Scott. Con lui ho imparato tantissimo, mi ha voluto con sé, nei suoi gruppi, mi ha aiutato a crescere, mi ha fatto sentire quello che è il jazz. Tony rappresenta una sorta di progenitore di quello che suoniamo ed è stato uno dei pionieri di una musica senza confini e condizionamenti: la sua presenza nella musica e nella vita è stata illuminante. E’ stato, con la sua arte e i suoi racconti, il tramite di un mondo fantastico fatto di musicisti come Charlie Parker, Ellington, Billie Holiday e infiniti altri. Mi ha reso partecipe di quella storia del jazz che lui ha vissuto e di cui è stato uno dei protagonisti, ma senza rimpianti, lui guardava sempre al futuro. Mi ha trattato come un figlio. Tony si è spento il 28 marzo 2007, mi manca e mi mancherà, credo che senza di lui sarebbe stato tutto diverso. Grazie.
AAJ: Dopo lo “sdoganamento” operato dai moderni pionieri dell’archetto come Billy Bang, Leroy Jenkins e, per citare anche un europeo, Philipp Wachsmann, il violino (ma potremmo includere nella riflessione anche il violoncello e la viola) sembra vivere in questi ultimi anni una fruttuosa riscoperta. Mat Maneri, Eyvind Kang, Mark Feldman, Erik Friedlander, Fred Lonberg-Holm e, uscendo per un attimo dall’ambito strettamente jazzistico, Warren Ellis dei Dirty Three, sono solo alcuni dei nomi che mi vengono in mente. Che ne pensi del fenomeno? A cosa si può attribuire questo improvviso ritorno degli strumenti ad arco?
E.P.: Ci sono dei periodi, più che altri, in cui si parla di “riscoperta” o, per lo meno, in cui il violino e i violinisti sono più esposti alle luci della ribalta.
Già J. E. Berendt nel suo “Il nuovo libro del jazz” (ed. Vallardi) scriveva: “Quanto è accaduto per il flauto negli anni Cinquanta avvenne per il violino nella seconda metà degli anni Sessanta. Tutt’a un tratto esso si trovò al centro dell’interesse: si parlò dell’ondata del violino. Quest’ondata appare tanto più paradossale se si considera il ruolo subordinato del violino in tutta la storia del jazz. Anche se il violino non è una novità per il jazz - ha la stessa anzianità della cornetta nel jazz New Orleans - il suo suono morbido gli ha impedito a lungo di partecipare con eguali diritti al fianco di tromboni, trombe e sassofoni. Agli inizi le bands di New Orleans avevano un violinista ma, in fondo, solo per il motivo che si era abituati dalla musica del XIX secolo ad avere un violino. Il violinista delle vecchie orchestre New Orleans ha la funzione del violinista “in piedi” nella musica dei caffé viennesi. Fino agli anni Cinquanta questa tradizione getta la sua ombra sul destino dei violinisti jazz. Non appena passavano di moda andavano a finire nel posto da dove erano venuti, o meglio, da dove veniva il loro strumento: nei caffé o comunque nella musica leggera”.
Credo che il discorso vada però focalizzato su un’altra questione, e cioè la musica piuttosto che gli strumentisti: vale a dire che quelli citati, e andando anche più indietro (Venuti, Grappelli, Stuff Smith, Ponty, ecc...), erano, e sono, soprattutto dei grandi musicisti, con un ruolo attivo nello sviluppo del jazz e del suo linguaggio. Certo, l’abilità tecnica è importante, e si sta parlando di grandi interpreti dello strumento, ma poi quello che conta veramente sono le idee.
AAJ: Un tratto comune tra i giovani violinisti è il tentativo di ampliare le possibilità timbriche attraverso un approccio non convenzionale o l’uso dell’elettronica. Vedendoti in azione, non si può non intuire il continuo sforzo di sperimentazione che sta alle spalle anche del tuo modo di suonare lo strumento classico per eccellenza (cigolii, sfregamenti, brusii, note improbabili e grida laceranti). Com’è cambiato il violino jazz (scusami la banale definizione, ma non me ne veniva un’altra) negli ultimi tempi? Da simbolo per antonomasia dell’eleganza e della grazia a brutale terrorista del suono?
E.P. Se una volta ci poteva essere il problema della reperibilità dello strumento, di studi accademici rigidi e poco favorevoli allo swing, e, nella pratica, di udibilità, oggi è possibile trovare spartiti, dischi e video con più facilità. Nei conservatori ci sono cattedre di jazz e comunque scuole ovunque; e poi, con microfoni, pick up e amplificatori, la questione del volume (sottolineo "volume" e non "qualità del suono amplificato"!) è risolta.
Insomma con una più massiccia quantità di informazioni e con il progresso della tecnica un po’ di cose sono cambiate ed è quasi inevitabile lo “scontro-incontro” con l’elettronica che sicuramente amplia le possibilità di avere sonorità differenti e combinarle tra loro. Credo che alla base di tutto ci dovrebbe essere curiosità, studio e ricerca, utilizzare tutto il materiale a disposizione, filtrarlo con la propria personalità e sensibilità per farsi venire idee nuove, raggiungere un suono originale.
AAJ: Uno dei tuoi sodalizi più fruttuosi e duraturi è quello con la cantante Tiziana Ghiglioni (ad esempio nell’eccellente Rotella Variations). Raccontaci qualcosa di questa collaborazione: com’è confrontarsi direttamente con una voce?
E.P.: La presenza di un cantante in un gruppo pone subito delle questioni: innanzitutto la scelta della tonalità dei brani, che deve essere adatta al tipo di voce e alle sue possibilità fisiche, e poi un uso delle dinamiche e degli spazi opportuno. Non devi suonare troppo forte e non puoi suonare troppo addosso all’esposizione di un tema, ma stargli intorno. E ancora, potenza della parola, soprattutto in alcuni casi, quando il cantante si fa portavoce di messaggi anche duri, ad esempio “Strange Fruit” di Billie Holiday. Si dice che l’obiettivo di uno strumentista sia quello di avvicinarsi il più possibile all’espressività della voce, con Tiziana questo è stato possibile: è una di quelle persone da cui ho imparato moltissimo. Ha una voce fantastica e riesce ad usarla con una naturalezza disarmante, indipendentemente dal materiale affrontato rimane sempre la sua voce senza forzature. Ha un grande amore per il jazz e questa sua passionalità è veramente coinvolgente, abbiamo suonato molto e molte cose differenti. E’ bello suonare con lei, è una grande.
AAJ: Un altro tuo compagno fisso è il vulcanico ed eclettico sassofonista Dimitri Grechi Espinoza. Com’è nata la vostra amicizia? Con Dimitri condividete dal 2003 anche l’esperienza del collettivo musicale Axè a Livorno. Come funziona e come si muove la vostra associazione?
E.P.: Dimitri è il mio alter ego e la nostra collaborazione comincia con la nascita del Dinamitri Jazz Folklore. Da esperienza musicale si è trasformata in esperienza di vita: il gruppo, con tutti i suoi cambiamenti, nel tempo è diventato una famiglia: è casa. Dinamitri è probabilmente la formazione in cui sono cresciuto di più, un terreno di cultura per i più svariati esperimenti.
Nel 2003, come già anticipavi, dopo l’esperienza di Folklore in Black (nostro secondo CD) e la collaborazione con il percussionista e musico-teraperuta congolese Goma Parfait Ludovic, abbiamo deciso di costituirci in associazione - Axè - per approfondire quel percorso. Il senso di quello che dico si può leggere esplicitamente nel nostro manifesto in cui si riconosce all'Africa un ruolo di riferimento centrale; riferimento nel richiamo all'indissolubilità dei legami tra le diverse espressioni dell'arte; riferimento nell'affrontare come comunità l'evento musicale (artistico) e il solismo come voce ed espressione della comunità stessa; riferimento nell'attribuire spiritualità e sacralità all'Arte attraverso la quale preservare i valori in cui tutto il gruppo si riconosce. Come associazione ci siamo poi accorti di non essere soli e, per dare più forza alle nostre convinzioni, ci siamo uniti a realtà simili alla nostra ed è nato Map of Moods, tramite il quale sono stati messi in piedi concerti ed incontri, con grandi sacrifici e grazie alla buona volontà di tutte le persone che hanno suonato e che hanno organizzato gli appuntamenti.
Viviamo in un mondo dove la superficialità regna sovrana e anche la musica non sfugge a questa logica: molta apparenza e poca sostanza, si guarda poco alle vera essenza delle cose. Fortunatamente ci sono alcune voci fuori dal coro che sono in grande fermento e gridano per farsi sentire. Dal punto di vista istituzionale, poi, non si muove un dito perché si progredisca culturalmente e la possibilità che queste voci si riesca a sentirle si riduce drasticamente. Spero vivamente che ci si svegli da questo torpore e che si creino gli spazi perché ognuno riesca ad esprimere il proprio punto di vista.
AAJ: Restiamo in tema collaborazioni. Ultimamente hai preso parte al progetto Ornettians di Tiziano Tononi (di cui è stato recentemente pubblicato il secondo episodio) e al disco Spirits Up Above firmato da Daniele Cavallanti e dallo stesso Tononi, con la partecipazione, è proprio il caso di dire, straordinaria di William Parker. Come sei entrato nel giro Nexus?
E.P.: Tiziano Tononi è per me un grande esempio da seguire: oltre ad essere un grande batterista, è un musicista con delle grandi idee che porta avanti con amore e determinazione. Conosciuto grazie a Tiziana per la registrazione di Rotella Variations, nel tempo è divenuto uno dei miei punti di riferimento e i gruppi di Tiziana stessa, l’Instabile, i concerti, i dischi registrati insieme (compreso il mio 1974 Io so) hanno cementato questo rapporto. Quello che lui e Daniele Cavallanti hanno fatto, sia con Nexus che con i progetti personali, come anche gli Ornettians e Spirits Up Above, rappresenta un lavoro enorme, la dimostrazione di come la lezione dei grandi Maestri sia stata appresa, interiorizzata e riproposta in una nuova veste e con idee originali.
AAJ: L’ultima domanda riguarda i tuoi progetti futuri. Cosa bolle nella pentola di Emanuele Parrini?
E.P.: Ho la fortuna di lavorare e condividere la musica con le persone con cui sto bene e che hanno una visione delle cose che mi interessa e mi è vicina, quindi continuerò sicuramente il percorso con loro. Abbiamo appena detto della recente uscita del secondo volume degli Ornettians, prossimamente verrà pubblicato il disco che arricchisce di un nuovo capitolo la collaborazione con William Parker, in trio con Tiziano. A novembre dovremmo registrare il nuovo CD Dinamitri; poi usciranno il disco di Nicola Vernuccio e quello di Roberto Ottaviano con il quartetto d’archi. Per quanto riguarda me, in prima persona, sto lavorando ad una cosa nuova: ci sono delle idee. Nella pentola bollono molte cose, speriamo non si bruci nulla!
Foto di Claudio Casanova
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