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Bobby McFerrin
Bobby McFerrin è arrivato a Roma con alle spalle un'assenza discografica di otto anni, cosa insolita per un artista del suo calibro, ma Vocabularies è il frutto di una vasta esplorazione della voce umana, costituito dalla somma di ben 1.400 tracce, organizzate assieme a Roger Treece in modo da creare composizioni che confermano l'interesse del cantante per tutte le espressioni della black music, dall'Africa al continente americano.
La sua vocalità nasce tardiva, a 24 anni, con alle spalle una solida preparazione pianistica e un'ampia cultura musicale. In poco tempo si è imposto per l'eccezionalità del suo strumento, incredibile sul piano del virtuosismo e articolato in tre "sezioni" ben differenziate: una voce di tenore leggera, infantile, di grande elasticità e morbidezza, in grado di passare dalle parole al puro melisma; una profonda voce di basso, dalla risonanza maestosa, con la quale disegna senza esitazioni ritmi e armonie; una sezione di "effetti speciali," con la quale riproduce percussioni, rumori ambientali ecc. Alternando con sapienza melodia, accompagnamento e ritmo, ottiene un effetto polifonico e orchestrale, grazie al quale supera le limitazioni della voce sola.
Aggiungendo un moderato uso della body percussion abbiamo l'identità musicale di McFerrin, vissuta con passione, ironia e la capacità di evitare il funambolismo fine a se stesso. La sua musica è, infatti, una continua ricerca delle radici, simile a quelle di tanti altri musicisti di colore, emersi a cavallo del 1980, in un periodo di grave crisi per il jazz e le espressioni più alte della musica nera.
Certo McFerrin è anche altro: un provetto, ma sincero, uomo di spettacolo, magnetico dominatore del palco, che gioca col pubblico in modi diversi e coinvolgenti. Gestisce con sapienza una consolidata routine dal sapore televisivo, non quello umiliante delle nostre reti, ma certo molto consapevole dell'effetto sul pubblico.
Le due facce non sono separabili e la loro combinazione è il segreto di un successo ampio e durevole, confermato dalla tappa romana del tour per lanciare Vocabularies: presso il Parco della Musica di Roma, Mc Ferrin è stato ricevuto in una sala Santa Cecilia colma di pubblico adorante.
Qui McFerrin si è presentato in assoluta semplicità, una sedia, quattro monitor, occhio di bue al centro e luci avvolgenti sul fondale. Primo brano affascinante, una lunga improvvisazione in movimento fra Africa e Medio Oriente. Il funambolo e il compositore uniti e incantevoli. Poi un secondo brano ci ha portato nel mondo del soul e del blues, all'interno del quale abbiamo di seguito ascoltato "Opportunity" e "Blackbird". Dopo è toccato allo swing e al bop, col cantante nel ruolo di erede di Cab Calloway e del suo scat metropolitano, impegnato in un gioco ironico di call and response col pubblico. Infine una delicata, commovente versione di "Smile," eseguita senza parole. Si è così conclusa la prima parte del concerto, la più intensa, il seguito del quale ha visto prevalere l'animo più spettacolare del cantante.
Abbiamo ascoltato l'Ave Maria di Bach, con il pubblico a cantare il tema mentre McFerrin eseguiva l'accompagnamento strumentale, poi conduction più o meno improvvisate, con il pubblico diviso in due cori o impegnato a seguire l'atletico sessantenne che, saltando a destra o sinistra, disegnava l'andamento di una pentatonica maggiore, infine brevissimi duetti con numerosi volontari dalla platea, impegnati a ballare o cantare.
Questa seconda parte del concerto ha comportato una netta semplificazione del materiale ritmico e armonico, molta casualità nell'esito dei duetti e un rilevante calo della tensione.
Non vogliamo rifiutare la possibilità di coniugare arte e intrattenimento, come ci ha insegnato il genio di Louis Armstrong, ed è chiaro che un recital di sola voce, ai livelli dei primi brani, è sostenibile per un periodo di tempo molto limitato, ma...
Ma il calo di tensione artistica, il brusco passaggio dall'Arte al talk show, l'eccessiva durata di quest'ultimo, la brevità dell'improvvisazione che ha chiuso la fase "interattiva," il bis affidato a una specie di intervista pubblica dominata da domande quali "Mi vuoi sposare," "Cosa è per te l'amore" e salvata da un duetto con una timida cantante afroamericana dalla voce deliziosa, tutto questo ha creato uno stacco per noi eccessivo rispetto all'incanto dei primi brani e ci ha consegnato lunghi minuti di noia.
Queste sensazioni sono state condivise da un'esigua minoranze del pubblico, per il resto estasiato da qualunque cosa facesse Bobby McFerrin. E in fondo va benissimo così!
Foto di Thomas Schloemann
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