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Bergamo Jazz Festival 2022 Parte seconda: la Città Bassa

Bergamo Jazz Festival 2022 Parte seconda: la Città Bassa

Courtesy Luciano Rossetti (Phocus Agency)

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Bergamo
Varie sedi
17-20.3.2022

Il ricco palinsesto di Bergamo Jazz 2022 ha distribuito proposte non meno interessanti e variate negli spazi della Città Bassa. I due concerti all'Auditorium di Piazza della Libertà hanno racchiuso i progetti di due formazioni europee, entrambi attuali e rilevanti. Sarebbe semplicistico sostenere che la musica del chitarrista danese Jakob Bro, affiancato dai sodali Arve Henriksen alla tromba ed elettronica e Jorge Rossy alla batteria, incarni uno spirito nordico, un'atmosfera scandinava silenziosa e dilatata. È vero piuttosto che essa si muove tra "artificio e natura." Come già messo in evidenza dal fondamentale testo di Gillo Dorfles pubblicato nel 1968, tutto nella nostra percezione quotidiana, nella nostra esperienza, razionale e consapevole oppure emotiva, inconscia, onirica, ruota attorno e dipende dal rapporto dialettico fra questi due poli. Artificio e natura non sono necessariamente contrapposti fra loro, anzi spesso si compenetrano e si completano a vicenda, confluiscono l'uno verso l'altro, si scambiano i ruoli, tanto più nella nostra era del web. Tutto ciò era percepibile nella performance del trio: nell'intimismo poetico della tromba di Henriksen, a cui si sovrapponeva il suo raddoppio elettronico, nel controllo (artificiale o naturale?) dei crescendo del collettivo, nei cangianti effetti sonori somministrati da Bro, nella meditata gestualità del drumming di Rossy.
Fra l'altro l'intreccio fra artificio e natura, anche nel comportamento della memoria o dell'emotività, è talmente persistente nell'esperienza estetica che, sotto traccia, questo è l'oggetto anche dell'interessante mostra Dancing Plague, visibile fino al 29 maggio alla Galleria d'Arte Modena e Contemporanea di fronte all'Accademia Carrara. Nelle opere e nei brevi film in esposizione il tema, fra risvolti storici e sociali, viene trattato nelle sue manifestazioni contrapposte, ora astratte ora teatrali.

Considerazioni non molto diverse si potrebbero fare in merito al concerto del quintetto cosmopolita del violinista francese Régis Huby , che il pomeriggio successivo ha presentato la suite "Inner Hidden" tesa ad esplorare, come afferma Huby, ..."mondi interiori nascosti, privati, quasi segreti... Queste dolci solitudini che vorremmo poter condividere... Le nostre musiche interiori." In questo caso il ricorso all'elettronica da parte di quattro degli elementi che compongono la formazione era ben più consistente: un uso maturo e orgoglioso, non volutamente mimetico, eppure in grado di evocare paesaggi dell'anima o di una natura corrotta dall'uomo. Una componente portante di questa proposta si è rivelata l'intima fusione fra i tre strumenti a corda: il contrabbasso scuro di Claude Tchamichian e la chitarra evanescente del norvegese Eivind Aarset, oltre al violino del leader. Michele Rabbia ha gestito i suoi interventi percussivi con avvedutezza, ora minuti, quasi reticenti, ora improvvisamente debordanti. L'unico strumento non "deformato" dall'elettronica era la tromba dell'inglese Tom Arthurs, pregevole nel timbro e nel fraseggio, a tratti impegnata nell'esposizione di tortuosi temi melodici all'unisono con il violino. L'ambiziosa suite, retta da un attento impianto compositivo, ha dimostrato una parabola strutturale e narrativa di qualità, ricca di situazioni immaginifiche.

Come sottolineato nell'introduzione della prima parte della recensione, il capiente Teatro Donizetti ha accolto i concerti serali di maggior richiamo. Il Fred Hersch Trio, con Enrico Rava come ospite speciale, ha messo in scena la poesia del jazz. Il pianista americano, per la prima volta a Bergamo Jazz, ha profuso fantasia e leggerezza nel tramare merletti di note e sulla stessa linea hanno proceduto Drew Gress e Joey Baron, delineando un delicato contesto di sottofondo. Sull'incedere del trio, raffinatissimo ma molto omogeneo, si è inserito il flicorno di Rava, costituendo per certi versi la voce critica e scardinante. Il sound morbido e un po' spento dello strumento, screziato da un'intonazione non sempre ineccepibile, ma affiancato da un timing perfetto, con opportune sospensioni, è stato in grado di aggiungere imprevedibili impennate, enfasi, deviazioni dinamiche e alterazioni melodiche, oltre che un tocco di ironia. Insomma, è stato lui a incrementare il grado di creatività di una performance che altrimenti sarebbe stata di grande equilibrio e di eleganza estrema, ma forse un po' troppo seriosa, trattenuta, autocompiaciuta. Verosimilmente l'esperienza e la personalità dell'ottantaduenne trombettista italiano hanno ottenuto anche la funzione di stimolo nei confronti dei partner; nei brani finali infatti Hersch ha prodotto un'audace serie di accordi, mentre sussulti eccentrici hanno caratterizzato il drumming di Baron.

Spesso i pianisti, in particolare a mio parere Brad Mehldau, sono preferibili in solo che in trio, perché in questa dimensione sono più liberi e più profondi nell'affrontare il repertorio scelto a vantaggio della prassi improvvisativa. A Bergamo Mehldau ha accompagnato per mano il pubblico, dando una sua visione decantata, classica e intima del jazz, non tanto nella scelta di un programma molto possibilista, che ha spaziato dai Police ai Radiohead, da Cole Porter ai Beatles, da Chico Buarque a propri original, quanto piuttosto nel modo sognante e descrittivo di rivisitarlo, direi quasi di accarezzarlo. Evidentemente questi sono i mondi e i modi che oggi il pianista americano intende esplorare, deliziando i suoi fan. Un approccio alla tastiera del tutto diverso da quando, ben oltre un decennio fa, mi era capitato di ascoltarlo in improvvisazioni tortuose, percussive, di una drammatica potenza espressiva, più vicina al mondo lisztiano che al jazz o al pop. Non a caso la conduzione del suo concerto al Donizetti, sempre su tempi medi, sempre su un volume trattenuto, quasi inoltrandosi in un sospeso mondo interiore, ha portato a un bis conseguente, in cui sono stati reinterpretati "Life on Mars?" di David Bowie e "Golden Lady" di Stevie Wonder.

L'ultima serata del maggiore e più prestigioso teatro bergamasco ha chiuso il festival nel segno della festa, della musica più ottimistica e comunicativa. Il messaggio di Michael Mayo, nome nuovo della vocalità statunitense formatosi in famose istituzioni, si muove totalmente, nei contenuti come nelle forme espressive e nella presenza scenica, all'interno della cultura pop, senza per altro riuscire a dire gran che di particolarmente originale. Lo sappiamo, gli strateghi del mercato sono sempre alla ricerca spasmodica di cantanti da imporre su scala internazionale, ma, escluso il caso luminoso e consistente di Cecile McLorin Salvant, i risultati sono per lo più deludenti. Le cose sono andate decisamente meglio con lo spettacolo "Viento y Tiempo," proposto dall'ottetto cubano pilotato da Gonzalo Rubalcaba e Aymée Nuviola, amici d'infanzia. Ci si è trovati coinvolti, direi investiti da una cultura autentica, quella cubana, volta ad esaltare valori collettivi come la vita, la danza, la solidarietà, il dinamismo... A parte alcuni sprazzi di pianismo poderoso, esaltante da parte di Rubalcaba, la scena era monopolizzata dalla presenza della cantante, di esuberanza debordante sotto ogni punto di vista. Sarà anche mestiere, perché no, ma le modulazioni vocali e il radioso sorriso della Nuviola, sostenuta dalla compatta e infallibile professionalità dei partner, hanno propagato una gioia e una vitalità contagiose, ubriacanti. Immancabile e opportuna la sorpresa finale che ha visto duettare la cantante cubana con la direttrice del festival Maria Pia De Vito, sorrette egregiamente dal pianista, in una convincente interpretazione di "Quando" di Pino Daniele.

Fra i concerti della sezione Scintille di Jazz a cura di Tino Tracanna, dislocati in circoli e club anche periferici, sono riuscito a seguire solamente Federico Calcagno & the Dolphians. L'impronta jazzistica della formazione, guidata dal vincitore del Top Jazz 2020 nella categoria nuovi talenti, è chiara fin dalla sua denominazione. Nell'accogliente e vasta sala del Daste, oltre a un paio di brani di Dolphy sono stati eseguiti original del leader, in parte già su disco in parte recenti e inediti, che attingono a fonti varie; ma soprattutto sono stati gli arrangiamenti a fornire una griglia granitica entro cui arginare l'ardito interplay e gli spazi solistici: luminosi i colori del vibrafono di Andrea Mellace, articolato e scabro il drumming di Stefano Grasso, sicuro e asciutto l'ancoraggio fornito dal contrabbasso di Stefano Zambon, mentre le ance della front line (Calcagno ai clarinetti, Gianluca Zanello al contralto e Luca Ceribelli al tenore) hanno fatto appello con autocontrollo e consapevolezza, con tecnica smaliziata e la giusta emotività, alla pronuncia del free storico, opportunamente attualizzata. Indubbiamente ci troviamo di fronte ad uno dei gruppi più organizzati e combattivi del giovane jazz italiano.

Per finire, fra le iniziative collaterali di Bergamo Jazz 2022 non si può tralasciare la mostra "Closed Session," curata da Luciano Rossetti e Marco Pierini e allestita nella Ex Chiesa della Maddalena, in cui le strepitose foto di Jimmy Katz penetrano con particolare capacità d'indagine nel mondo espressivo e privato di alcuni esponenti del jazz degli ultimi trent'anni.

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