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Art Ensemble of Chicago
ByTeatro President - Piacenza - 25.03.2006
Chi pensava di assistere ad un sorta di autocelebrazione del mito o a qualche sortita ad effetto per ingraziarsi facilmente le simpatie del pubblico sarà rimasto spiazzato. La straordinaria forza dell'Art Ensemble of Chicago risiede infatti nella ferma volontà di suonare liberamente la propria musica, di seguire il flusso della propria creatività, incurante di assecondare le aspettative della platea o le esigenze del business festivaliero.
Assistere ad un concerto degli Art Ensemble of Chicago è quindi un esperienza nella quale è necessario abbandonarsi completamente al corso della musica, senza preconcetti, pena il rischio di rimanere ai margini, se non esclusi, da una celebrazione ad un tempo primitiva e complessa, mistica e profana, dionisiaca e controllata. I concerti dell'AEoC sono una sorpresa continua, mai uguali a se stessi con scalette all'ultimo istante stravolte e direzioni musicali prese in tempo reale, assecondando gli umori del momento.
L'inizio del concerto, in un Teatro President esaurito, è una lunga introduzione nella quale a vibrare nell'aria sono le onde sonore prodotte da ogni tipo di campanelli e piccole percussioni, dove il silenzio riempie i vuoti, dove qualche nota accennata dalla tromba o piccoli respiri del flauto fanno parte di un rito sciamanico, che porta a liberare la mente e a preparala ad un ascolto libero e senza pregiudizi.
Poi lentamente la materia sonora si addensa con l'entrata a pieno organico dei fiati, che aggirano piccole cellule melodiche e si agganciano a labili centri tonali per trasformarsi nelle furiose improvvisazioni collettive che hanno reso leggendario il gruppo. La musica diventa magma incandescente che stordisce lo spettatore, con i fiati che urlano e corrono impazziti sfidando regole e codici grammaticali, perchè l'urgenza espressiva possa arrivare senza ostacoli alla mente, al cuore e allo stomaco dello spettatore. E quando l'ascoltatore sembra sprofondare irreparabilmente in un vortice senza fine, quasi soffocato da un'apnea non proprio irreale, ecco arrivare improvvisa una gioiosa e scanzonata onda funky che lo riporta in superficie, lo riconcilia con accomodanti e riconoscibili riferimenti, traghettandolo in porti sicuri, lontani dalle tempeste.
Roscoe Mitchell, eminenza grigia della formazione prossimo alle settanta primavere, dirige con piccoli cenni del capo e costruisce assoli di una veemenza terrificante che sembrano abbattere il muro del suono, Joseph Jarman si inserisce con idee melodiche ora ai flauti ora al sax tenore; Corey Wilkes costituisce la mina vagante della formazione: con la sua tromba elettrificata esegue delle vere e proprie scorribande sonore, alternando effetti wah wah a grappoli di note tenute sospese in prolungata souplesse attraverso la tecnica della respirazione circolare. Jaribu Shahid è strepitoso nell'assicurare con il contrabbasso una spinta continua, poderosa e stimolante mentre Don Moye fornisce da par suo la giusta densità ritmica e l'ideale coloritura ad una musica dal respiro universale.
Foto di Roberto Cifarelli [ulteriori immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini]
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