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Andrew Hill punto e a capo: un'intervista inedita

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La maggior parte della gente muore e non lascia niente dietro di sé. La vita è limitata per tutti ma puoi durare o resistere più a lungo se hai un approccio sano
Effettuata nei giorni di "Verona Jazz '89", quest'intervista con Andrew Hill vede la luce solo ora, dopo diciotto anni di letargo tra le spire di una vecchia cassetta Basf. È quindi completamente inedita ed è un piacere renderla disponibile al pubblico di All About Jazz.

Ricordo bene quando avvenne. Andrew Hill veniva a Verona Jazz per la terza volta, invitato da Nicola Tessitore, il direttore artistico del festival, che aveva approntato - come sempre in quegli anni - un cartellone da sogno. Dal 23 al 26 giugno si alternarono sul palco del Teatro Romano la Special Edition di Jack DeJohnette, il quartetto di Stan Getz, il duo Roach-Braxton, il Sextett di Threadgill, l'Art Ensemble Of Chicago, il quintetto storico di Chico Hamilton appena ricostituito, il quartetto di Amina Myers, la band di Allen Toussaint ed appunto Andrew Hill, che si presentò in duo con Lee Konitz.

L'intervista ebbe luogo in quei giorni con un pianista disponibile e sereno, fiducioso riguardo le possibilità di sviluppo della sua musica. Il 30 e 31 gennaio di quell'anno era tornato a incidere per la Blue Note con un nuovo gruppo e da qualche tempo la sua musica trovava l'attenzione e i riconoscimenti dovuti.

Entrando nel merito dell'intervista, io ritenevo - come tutti allora - che Hill fosse di origini haitiane e dalla risposta di Andrew è chiaro il tentativo di distanziarsi da qualcosa che egli aveva accreditato agli inizi di carriera e che ormai riteneva ingombrante. L'anno seguente, in un colloquio con Elliott Bratton di Coda Magazine, chiarirà espressamente di non aver alcun legame con Haiti.

La qualità tecnica dell'intervista era precaria ed il tempo aveva reso difficile la comprensione di vari punti del nastro. Ringrazio quindi Frank Kimbrough e Luigi Santosuosso per il gran lavoro svolto per la trascrizione e traduzione dell'intervista.

All About Jazz: Sei da poco tornato alla Blue Note, che sta per pubblicare un tuo nuovo album. [il disco uscì poco dopo col titolo Eternal Spirit, N.d.R].

Andrew Hill: Esatto. Ci sono Greg Osby al sax, Bobby Hutcherson al vibrafono, Rufus Reid al contrabbasso e Ben Riley alla batteria... Dovrebbero pubblicarlo in agosto. Come sai Jack [DeJohnette, N.d.R.] ha un vero talento nello scoprire giovani promesse. Greg è veramente eccellente, così come del resto Gary Thomas che suona spesso con lui.

AAJ: Negli ultimi tempi c'è un rinnovato interesse nei confronti della tua musica...

A.H.: Effettivamente nell'ultimo anno negli Stati Uniti sembrerebbe proprio così. Abbiamo registrato il disco di cui ti parlavo dopo diversi concerti in club newyorchesi. Erano anni che non ci suonavo e, d'improvviso, c'era la fila fuori ai club. Quindi è un buon periodo a livello lavorativo. Nonostante abbia suonato qualche concerto in solo, la maggior parte di questi concerti sono con la mia band, e questo mi piace. Inoltre ho fatto diversi concerti in duo con vari musicisti.

AAJ: Ora risiedi a New York?

A.H.: No. A Pittsburg, in California. Sono ormai 13 anni che ci vivo e mi ci trovo bene.

AAJ: Qualcuno ha detto che la tua musica da drammatica è diventata melodica e lirica. Sei d'accordo?

A.H.: Sai, molti musicisti che, come me, hanno fatto parte delle avanguardie degli anni '50 e '60 sono poi entrati man mano a far parte del nucleo centrale della 'società musicale'. Le loro idee, che magari all'inizio a molti sembravano asimmetriche, col tempo sono state assorbite da musiche più popolari. Per questo, penso che io possa ora apparire più melodico solo perchè la gente si è abituata alla mia musica. Quello che una volta sembrava strano ora forse non lo è più.

AAJ: Hai scritto diverse composizioni per quartetto d'archi.

A.H.: Ne ho incluse alcune nell'album One for One ma la maggior parte sono state suonate solo dal vivo.

AAJ: Ritieni che sia ancora difficile per un musicista nero negli Stati Uniti sviluppare questo tipo di musica?

A.H.: È sempre difficile quando sei giovane e scegli deliberatamente di non appartenere ad un certo gruppo. Ma, col tempo, le cose diventano più semplici. Come dicevo, ora mi trovo a lavorare molto negli Stati Uniti, suonando in posti dove prima trovavi solo Dave Brubeck o Stan Getz. In pratica ora gli Stati Uniti mi offrono, dal punto di vista lavorativo, quello che molti altri musicisti trovano solo in Europa. Ma è ancora vero che ci sono molte porte che restano chiuse per i musicisti di colore.

AAJ: In generale com'è la tua vita ora?

A.H.: La vita ha sia cose buone che cattive da offrire. Alla fine dipende da cosa uno sceglie di perseguire. Non capisco perchè io non possa essere ricordato solo per il mio contributo artistico. La maggior parte della gente muore e non lascia niente dietro di sé. La vita è limitata per tutti, ma puoi durare o resistere più a lungo se hai un approccio sano. Quando l'eroina era molto diffusa nel giro dei jazzisti la situazione non era felice... Al giorno d'oggi si sta affermando una nuova generazione di musicisti che sono ancora migliori di quelli che li hanno preceduti e hanno un approccio alla vita più sano. Mi riferisco ad artisti come Wynton Marsalis, che - nonostante le critiche relative alla loro musica hanno il merito di attrarre una audience più giovane - o come Greg Osby e Gary Thomas. Non mi sento direttamente responsabile di questo fenomeno, ma persone come me, che non si sono distrutte per suonare il jazz, hanno rappresentato una alternativa alle tendenze che esistevano prima.

AAJ: Come ti sei avvicinato al mondo della musica?

A.H.: Devo dire che 'sentivo' la musica sin da quando ho mosso i primi passi, da quando ho iniziato a parlare. Essendo circondato da musicisti che erano molto gentili nei miei confronti capii presto che la cosa importante era creare delle solide basi tecniche al pianoforte. Ma la musica l'ho 'sentita' da sempre.

AAJ: Tuo fratello suonava musica classica...

A.H.: Era un buon violinista ma poi non ha continuato da adulto.

AAJ: Ti ritieni influenzato dalla musica tradizionale di Haiti?

A.H.: Si e no. Mi sento più vicino alla musica statunitense. Qualche tempo fa stavo parlando ad una signora di Haiti che si trovava di passaggio a New York. Mentre lei mi descriveva l'approccio alla vita degli Haitiani non potevo fare a meno di pensare "Come posso pretendere di essere come loro se sono cresciuto e ho passato la mia vita negli Stati Uniti? Magari ci sono degli aspetti ai quali mi sento vicino, ma, alla fine dei conti, le tradizioni di Haiti non mi appartengono. Non conosco il loro stile di vita visto che i miei ricordi di bambino sono molto vaghi". Sono un artista statunitense. Posso aver condiviso alcune esperienze musicali con chi ha vissuto ad Haiti avendo ascoltato gli stessi vecchi dischi... posso averne assorbito alcune influenze... magari inconsciamente... ma non è la stessa cosa

AAJ: Quali sono state le tue influenze pianistiche?

A.H.: A Chicago c'erano così tanti maestri del piano... come Earl "Fatha" Hines. Sono cresciuto in un epoca in cui c'erano tantissime band che passavano nei cinema e teatri. C'era un posto che si chiamava Regal Theatre dove potevi trovare Hot Lips Page o chiunque passasse per Chicago e in ogni band c'era un ottimo pianista. Quando ero un teenager la musica era ovunque, in ogni angolo del mio quartiere. Piccoli localini o bar in cui trovavi pianisti eccellenti ma sconosciuti. Gente come Willie Jones o Vernon Riddle. Quando ho iniziato a comprare dischi ho scoperto artisti come Bud Powell, ma c'erano così tanti pianisti incredibili tra cui scegliere...

AAJ: Per molti giovani pianisti d'oggi la situazione è diversa. Possono scoprire la musica solo attraverso i dischi...

A.H.: I giovani possono imparare quasi solo dai dischi. A meno che la famiglia gli possa dare qualche soldo per andare a qualche concerto 'serio'. Ma manca quella situazione in cui sono cresciuto io, dove la musica era ad ogni angolo. D'altro canto ora ci sono molti corsi in cui è possibile imparare la musica attraverso lo studio scolastico.

AAJ: Che ricordo hai di Roland Kirk?

A.H.: Era una brava persona. Mi lasciava esterefatto ogni volta che suonava. Per un certo periodo sono stato in tour con lui. Era uno per il quale non era importante quanto bravi fossero i musicisti con cui suonava. Poteva suonare bene con chiunque e in qualsiasi situazione, tanta era la sua bravura. Essere in grado di suonare bene con chiunque era una cosa più comune a quell'epoca. È così che sono cresciuto a Chicago. Quando avevo 9 o 10 anni c'erano queste jam sessions che si tenevano la mattina del lunedì e ci trovavi Ike Day alla batteria! Uno al quale gente come Buddy Rich o Max Roach devono molto dal punto di vista stilistico. Spesso c'era anche Oscar Pettiford al contrabbasso e io ogni tanto mi presentavo. A quell'età non avevo certo dimestichezza con scale ed accordi... ma la musica potevo già 'sentirla'. Quei musicisti erano così aperti e gentili da suonare anche con uno come me, con tutte le limitazioni che avevo all'epoca. È questa la mentalità in cui mi sono formato.

Ora che incido per la Blue Note cerco di avere nella mia band oltre a musicsti stagionati anche qualche giovane. Questo perchè, indipendentemente da quanto bravo e promettente un giovane jazzista possa essere, ci sono certe cose che potrà scoprire solo a fianco di musicisti navigati, i quali possono esporlo a influenze diverse. In cambio, i giovani musicisti portano un livello di energia ed entusiasmo, a volte addirittura un approccio diverso, di cui i musicisti più esperti possono beneficiare grandemente. A New York puoi trovare una sana competizione tra i musicisti affermati, che suonano regolarmente, e quelli più giovani che cercano di mettersi in luce. È una cosa molto positiva.

AAJ: Che ne pensi della parola "jazz"?

A.H.: All'inizio ero molto critico nei confronti di questa parola, così come tanti altri. Ma con il tempo ho imparato ad apprezzarla. La parola 'jazz' ha sempre significato un certo tipo di personalità, basata sul ritmo, l'emozione, il feeling che deriva dalla personalità di ogni singolo musicista. Quando si è cercato di abbandonare questo termine ho notato che la musica è diventata più tecnica, più fredda. Quando si ignora l'evoluzione di una tradizione e il progresso che si è raggiunto al suo interno si finisce per avere qualcosa che perde di significato. Si tratta solo di un esperimento, in quanto non ha nulla da comunicare alla gente. Mi sono così reso conto che c'è un nesso positivo tra la parola jazz e la musica che essa rappresenta.

AAJ: Diversi titoli di tue composizioni hanno uno sfondo religioso: "New Monastery" o "Revelations" per esempio. Ti ritieni una persona religiosa?

A.H.: Sono sempre stato religioso a metà. Intorno ai vent'anni ho avuto una fase buddhista. Mi attraeva la distanza dall'egoismo che il buddhismo predica. Ma poi mi resi conto di essere ipocrita, perchè dal punto di vista musicale avevo chiare aspirazioni. Non necessariamente di diventare famoso ma certamente di affermarmi, per lo meno in una certa 'nicchia' artistica. Con l'avanzare dell'età, mentre ti avvicini alla morte, sei portato a cercare l'infinito. Mi sono trovato in alcune situazioni in cui solo la fede in un miracolo mi ha aiutato ad andare avanti. Quindi con il passare del tempo sono diventato più religioso.

AAJ: Che ricordi hai della sessione di registrazione di Point of Departure?

A.H.: Ah! Che sessione! All'inizio il sassofonista doveva essere Charles Lloyd. Ma voleva assolutamente includere nella sessione alcune sue composizioni... cose con una forte componente orientale. Certamente belle ed interessanti ma fuori luogo in quel contesto. Così decidemmo di avere Joe Henderson ed Eric Dolphy. Fu una grande sessione. Ma c'era una strana tristezza nell'aria. Ero completamente concentrato sulla registrazione e quindi non ci prestai attenzione. Non riuscivo a capire quest'alone di tristezza. Eric sarebbe morto di lì a poco, dopo il tour in Europa con Charles Mingus e Kenny Dorham sarebbe morto uno o due anni dopo.

AAJ: Tra le sessioni di registrazioni che hai fatto per la Blue Note, quali sono le tue preferite?

A.H.: Per la verità non ho preferenze perchè ho avuto la fortuna di poter affrontare ogni seduta con un approccio differente. Fino a che c'era Alfred Lion avevo la libertà di fare qualunque cosa volessi. Non ero obbligato a ripetere le cose che erano venute bene.

Trascrizione di Luigi Santosuosso e Frank Kimbrough

Traduzione di Luigi Santosuosso

Foto di Roberto Cifarelli (seconda e quinta), Claudio Casanova (quarta), Angelo Leonardi (ultima)

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