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"A Multitude of Angels" di Keith Jarrett Secondo Stefano Battaglia

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Naturalmente questo accende l'ulteriore desiderio di musica del pubblico genovese e allora Jarrett, evidentemente in una serata generosa, suona loro la canzone americana per eccellenza: quella "Over the Raimbow" di Harold Arlen, votata canzone del XX secolo e vincitrice di un Grammy Hall of Fame ma che, per chi non lo sapesse, arriva dritta dritta dall'intermezzo noto come "Sogno di Ratcliff" dal Guglielmo Ratcliff di Mascagni.

Quindi, come per Danny Boy, una di quelle melodie che risuonano nei secoli, cambiando vestito, nome, ma non identità. E la scelta di suonare -e risuonare-queste "song of songs" del mondo è prassi virtuosa, specie se c'è un tale rispetto per il contenuto della canzone stessa. E Jarrett ci ha insegnato in questi ultimi trent'anni di attività col Trio di essere tra quelli che sa suonare una canzone, senza appoggiarci sopra il proprio carico da novanta. La suona pura e semplice, il suono, i colori sono belli, le orchestrazioni sono magnificamente trasparenti. Tutto funziona. Io preferirò sempre Jarrett che esplora e scopre, rischia, si perde e si ritrova inventando ore ed ore di nuova musica, navigando, percorrendo il mistero della musica! Detto ciò, non sono esente dal fascino della canzone, anzi: quando si sente una bella canzone suonata bene, inevitabilmente siamo tutti d'accordo, felici e "toccati," è una specie di grande comune denominatore delle civiltà, un inno del mondo.

Quasi tutti i musicisti del pianeta suonano queste cose prima o poi, almeno una volta nella vita. Molti le suonano tutta la vita, sempre. Spesso accadono due cose: o l'effetto intrattenimento, che cerca un consenso dato dalla mera complicità, diciamo da cover più o meno sofisticata. L'altra è il suo opposto, e al contrario il performer ha bisogno di un pretesto (pre-testo!) per illuminare il sé, ponendosi egoticamente al centro della narrazione, e raccontando di sé anziché della canzone. Jarrett riesce quasi sempre a sottrarsi a queste due facili derive e, a parer mio, dimostra di saperle suonare veramente, che non dipende esclusivamente da una conoscenza e da una volontà, ma dall'amore e il rispetto, la sacralità (dunque ancora la devozione!) nei confronti di questo materiale. Presuppone la capacità di celebrare queste melodie sottraendosi ad esse, dunque mettere loro al centro in piena luce, compiendo l'esercizio assai difficile di rinunciare al sé egotico, spesso irrinunciabile per ogni performer.

Jarrett ci ha dimostrato con più di trentanni di rapporto esclusivo di amare questo repertorio ed essere realmente devoto ad esso, tanto da rinunciare dolorosamente alla composizione (per me e molti altri che amano i suoi brani certamente, immagino anche lo sia stato anche per lui), che sino al momento in cui è cominciato il suo rapporto profondo con l'interpretazione delle songs, era una parte significativa del suo bagaglio espressivo.

Considerazioni finali

Concludo aggiungendo che tutto questo mio fiume di parole se le porta via il vento.

Sono un musicista, e un pianista, e mi occupo di improvvisazione da sempre, per questo ne parlo in modo tanto appassionato.

Per questo so che poi bisogna sedersi davanti uno strumento e essere attraverso il fare, perchè senza concretizzare idee ed emozioni, concetti e sentimenti, l'artista non è. E dunque qualsiasi tipo di riflessione e consapevolezza ha bisogno poi del confronto con l'oggetto in questione, e che non esiste creazione senza il frutto, senza un frutto. La musica bisogna  farla.

Tutte le cose, intelligenti o meno, che lucidamente si possono dire col senno di poi, stando seduti in poltrona ad ascoltare, sono qualcosa che forse può descrivere l'esperienza in sé della creazione, ma, come per tutti i tipi di creazione, mai e poi mai ne potranno cogliere il nucleo universale e misterioso, e dunque sostanza e fascino.

Per un pianista parlare di un altro pianista è sempre spinoso. Specie se il pianista in questione è un mito e, ancor peggio, un mito vivente.

Quando parlo di mito intendo indicare quel tipo di figura che, avendo raggiunto in ciò che fa livelli sublimi tali da essere ampiamente riconosciuto, studiato, e giudicato per ciò che è, attraverso cioè gli oggetti che lascia sul pianeta, oltre ad essere straordinariamente celebrato e straordinariamente criticato viene accompagnato, circondato mi vien da dire, da una quantità (di nuovo) extra-ordinaria di considerazioni al di là dell'oggetto musicale: storie, supposizioni, verità nascoste e/o inventate, (leggende, appunto), tavole rotonde, fans club, ecc ecc.

Mi era già capitato in passato quando mi avevano chiesto di parlare di un altro mito del pianoforte, collaborando ad un'ampia riflessione su Glenn Gould, ma certamente quando si ha a che fare solo con il passato sembra tutto più dimensionato, fermo. L'oggetto che si guarda non si muove e la psicologia che sta dietro alle parole sembra a sua volta più forte e cristallizzata in analisi più ponderate, confortate dalle certezze della storicizzazione.

Curiosamente Gould alimentò il suo mito ritirandosi dalle scene e concentrandosi sul lavoro in sala d'incisione, Jarrett al contrario ha scelto di documentare la sua vita di improvvisatore esclusivamente attraverso la performance live ed escludendo lo studio, sia in solo che in Trio.

Sottraendosi dunque al classico percorso produttivo discografico, che vede al centro lo studio di registrazione, con i suoi tempi e tutte le sue possibilità di protezione, equalizzazione e potenziale manipolazione del suono e della creazione, anche nelle forme.

Che io sappia solo le sue incursioni nell'interpretazione classica (Bach, Scarlatti, Shostakovich, ecc) sono il frutto di sedute in studio. E la cosa naturalmente ha un senso, essendo l'improvvisazione legata al qui ed ora, mentre l'interpretazione, almeno da quando esiste il disco, ha segnato la vita degli interpreti pilotando la qualità della concentrazione su di un piano di rappresentazione ed imprescindibile precisione esecutiva.

Inoltre ci si trova di fronte ad un'opera ampia e ambiziosa: ancora una volta, mi vien da dire, dato che non è la prima volta che il sodalizio Jarrett-Eicher fissa su disco un percorso musicale così esaustivo ed articolato, proponendo un tipo di ascolto di tipo meditativo e rituale, totalmente controtendenza rispetto allo svilimento delle nuove piattaforme digitali.

E così mi è tornato in mente con quanto bramoso desiderio e quanta soddisfazione per aver raggiunto faticosamente la somma dovuta, mi presentai tredicenne da Buscemi dischi a Milano per acquistare il leggendario cofanetto di 10 LP Sun Bear Concerts.

Era il 1978 e l'album conteneva l'integrale di cinque concerti di Jarrett in Giappone. Possedevo già Facing You, che era stato il primo album in piano solo di musica altra che avevo ascoltato al di fuori dei recital di musica classica. Con quelle meditazioni, che allora non ero in grado di cogliere come tali, e i lunghi pomeriggi spesi insieme alla musica di Jarrett, quasi fosse un viaggio, la mia percezione della musica cambiò.

Ho la certezza, e comunque nutro la speranza, che questo nuovo album nei prossimi mesi compirà lo stesso incantesimo nel cuore, nella mente e nello spirito di qualche ragazzo o ragazza, in qualche parte del mondo.

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