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Zakarya
ByE' davvero una grande soddisfazione quando l'essenza di un concerto e delle sensazioni da esso suscitate si possono racchiudere in una sola parola: bello!
E' stato questo il caso dell'esibizione all'Area Sismica dei Zakarya, gruppo francese che ha all'attivo tre CD per la Tzadik (unica formazione d'oltralpe a figurare sinora nel catalogo dell'etichetta zorniana). E se non fosse stato per una seconda parte un po' meno intensa e varia della prima, per quanto mi riguarda si sarebbe sicuramente trattato di uno dei concerti migliori degli ultimi anni.
Sì, perché non capita tutti i giorni di trovare una band che sappia coniugare allo stesso modo e nella stessa misura energia e padronanza tecnica, complessità musicale e immediatezza d'impatto, varietà stilistica e impronta personale, doti individuali e coesione sonora di gruppo. E la dimensione live si è dimostrata particolarmente felice per la band, che ha confermato le capacità musicali e compositive già messe in luce su disco, ma ha regalato un'esuberanza espressiva, un calore comunicativo e anche una dose di humour ben superiori a quelli che emergono ad esempio dal più recente lavoro in studio 413 A (che risulta invece un po' più freddino...).
Yves Weyh (fondatore e leader del gruppo) è un fisarmonicista di notevole spessore e dallo stile sicuro e maturo, con una personalità ben definita. Ancora più sorprendente è la sua maturità compositiva, che dà luogo a un repertorio di brani molto diversificati, eppure con una chiara impronta personale, e sa fondere bellezza, complessità, energia e varietà stilistica anche all'interno dello stesso pezzo.
Paradigmatico in questo senso è stato il brano d'apertura del concerto, Tentative d'epuisement d'une melodie yiddish, una sorta di concentrato delle capacità compositive di Weyh e di saggio dell'ampiezza della sua tavolozza stilistica, nonché delle doti musicali e strumentali degli altri membri del gruppo. In quello che a mio parere è stato il brano migliore della serata, si passava con disinvoltura dal klezmer ad echi di musica circense reminiscenti delle colonne sonore di Nino Rota, da crescendo di sapore rossiniano a passaggi in stile avant-rock.
Con un solo brano, Weyh ha dimostrato in modo convincente di saper padroneggiare l'arte del pastiche postmoderno e citazionista, come neanche John Zorn (eletto unanimemente a padre putativo di questa forma) forse sa fare, perché nelle sue mani tutto scorre in modo più fluido e naturale, senza il senso di artificiosità (e a volte di gratuità) che questo esercizio spesso comporta. Inoltre gli accostamenti di stili eterogenei e distanti suonano sempre naturali e mai forzati, oppure muovono al sorriso, quando l'intento è scopertamente di tipo caricaturale e parodistico. A suggellare il tutto, infatti, vi è una grande dose di umorismo e sorniona ironia, che - come detto sopra - nella dimensione del concerto emergono molto più chiaramente che su disco, e contribuiscono a stabilire un clima di “complicità” fra i musicisti e il pubblico.
Tutta la prima parte del concerto è stata una sorta di saggio dell'ampiezza della gamma stilistica del gruppo, nonché della sua esuberanza espressiva. Le composizioni infatti erano altamente elaborate e complesse (con un forte senso dell'equilibrio e dell'interazione fra i quattro musicisti e col ruolo di solista distribuito equamente fra la fisarmonica di Weyh e la chitarra di Alexandre Wimmer); ma allo stesso tempo lasciavano ampi spazi di libertà sia ai singoli, sia al collettivo. Ed è nella dimensione dell'improvvisazione di gruppo che i musicisti, per quanto tutti singolarmente dotati, sono apparsi più efficaci e convincenti.
Così, ad esempio, il terzo brano presentava un tema spigoloso e aspro, su ritmo asimmetrico e con un fondale armonico di tensione (sulle orme del rock sperimentale europeo di ascendenza "Rock In Opposition"), che poi si scioglieva in una sorta di "libero per tutti", in cui il quartetto s'immergeva in un'improvvisazione free-form che sfociava imprevedibilmente in un rock-blues scanzonatamente stereotipato, per poi ritornare al tema.
Oppure il successivo Charleston, in cui lo sberleffo e il citazionismo ironico dell'atmosfera démodé del tema facevano da cornice a una cavalcata improvvisata della ritmica (il basso di Vincent Posty e la batteria di Pascal Gully), che passava allegramente dal twist al reggae.
413 A era giocato sul felice contrasto fra il tema, basato su un riff aggressivo e dal sound molto “heavy” (la chitarra di Wimmer è centrale nel caratterizzare il suono generalmente aggressivo e rock del gruppo), e l'improvvisazione solista di Weyh da esso incorniciata, che richiamava invece in modo efficace le esperienze della fisarmonica in campo contemporaneo, da Jean Pacalet soprattutto a Guy Klucevsek.
Se per 413 A la formula dell'improvvisazione solitaria incorniciata da un breve tema è risultata azzeccata, in altri brani è invece parsa più meccanica e forzata e purtroppo ha teso a prevalere nella seconda metà del concerto, spegnendo un po' l'entusiasmo suscitato dalla freschezza, originalità e varietà che aveva felicemente caratterizato la prima parte. Complici anche le improvvisazioni degli altri musicisti che - ad eccezione di Weyh e in parte del batterista Gully -, per quanto energici, esuberanti e tecnicamente ineccepibili, nella dimensione solista sono parsi un po' carenti nella capacità di focalizzare un “discorso” musicale compiuto e veramente coinvolgente.
Così ad esempio in Kids, dove fra il tema d'apertura e di chiusura in stile avant-rock si apriva un'ampia finestra per l'improvvisazione in solo di Wimmer che, per quanto “pensata” e costruita su un graduale crescendo sonoro di saturazione con finale ad effetto, è parsa alla fin fine un po' vuota di contenuto e non tanto fluidamente integrata nel “corpo” del brano. Ancora meno imprescindibile è stato il momento solista di Posty al basso. Sicuramente i Zakarya danno il meglio di sé nella dimensione collettiva, che si tratti d'improvvisare o di dar voce alla penna sapiente di Weyh.
Altri momenti salienti del concerto sono stati una ballad delicata e malinconica, con la fisarmonica a sgocciolare la semplice e intensa melodia, evocativa e nostalgica, che poteva ricordare vagamente le composizioni più down-tempo e intimiste di Richard Galliano; oppure il ciclo di pezzi brevi Character, altro saggio del talento compositivo di Weyh, piccoli bozzetti che spaziavano dalla semplicità di Character II (rielaborazione dell'identità tradizionale della fisarmonica con una melodia accorata e di sapore folk) alla piacevole complessità di Character I, basato su un arpeggio che si sviluppava in una serie di variazioni e distribuito a mo' di contrappunto fra i diversi strumenti.
La band ha riservato per il finale un altro dei pezzi forti del concerto, una cavalcata trascinante su una rielaborazione degli stilemi melodici del klezmer, che ancora una volta ha fatto da contenitore per un'escursione solitaria, questa volta di Gully, che però è stata più convincente di altre, grazie alla sua esuberanza e alla forte dose d'ironia, sottolineata dal supporto dei consueti “accessori” dei batteristi sperimentali (sonagli, pentole, buste di plastica e altri oggetti).
Un gruppo che è già una solida realtà della musica attuale, i Zakarya, se riusciranno ulteriormente a evolversi, potranno senz'altro diventare uno dei nomi più importanti del futuro.
Foto di Claudio Casanova Altre immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini
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