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Wadada Leo Smith & Organic
Teatro Manzoni - Milano - 27.03.2011
Era il 1998 e con Yo Miles! Leo Smith palesava al mondo la fatale attrazione per il Davis elettrico. I più rimasero spiazzati; qualcuno si affrettò a liquidare il disco (co-intestato al chitarrista Henry Kaiser) come uno sfizioso fuori-programma; in pochi, per la verità, intuirono che tutto era perfettamente coerente e che il trombettista rastafari faceva sul serio.
Tredici anni, qualche decina di concerti e una manciata di dischi dopo, la riflessione(interiorizzazione) sul(del) Miles Sessanta-Settanta è giunta a incarnarsi compiutamente nel progetto Organic, che delle cogitazioni davisiane condotte da Wadada rappresenta il vertice assoluto: meno calligrafico e molto più personale rispetto al pur pregevole filone inaugurato da Yo Miles!; nettamente più a fuoco dello zoppicante omaggio a Jack Johnson portato a spasso qualche tempo fa (chi scrive ebbe modo di ascoltarlo a Saalfelden nel 2008). Dopo aver consumato Spiritual Dimensions, uscito su Cuneiform e per metà occupato da un live del gruppo Organic, c'era grande curiosità di trovarsi faccia a faccia con l'ultima creatura di Smith. Ci ha pensato Aperitivo in Concerto a portare in Italia la band, ospite al Manzoni per l'ultimo appuntamento dell'edizione 2010-2011.
Sul palco del teatro milanese la stessa formazione immortalata su disco meno Nels Cline (l'unico, piccolo, cruccio), rimpiazzato da Josh Gerowitz. Per il resto gli stessi di Spiritual Dimensions: Michael Gregory, Brandon Ross e Lamar Smith, oltre a Gerowitz, alle chitarre elettriche, John Lindberg al contrabbasso, Okkyung Lee al violoncello, Skuli Sverrisson al basso elettrico, Pheeroan AkLaff alla batteria e Smith, ovviamente, alla tromba. E alla direzione. Onnipresente, impegnato dal primo all'ultimo dei 105 minuti della torrenziale esibizione a suggerire sviluppi e trame, zittire e sollecitare, scomporre e ricomporre il nonetto in gruppi e sotto-gruppi. Quasi una conduction la sua. Alla maniera di Butch più che alla maniera di Miles. Anche perché Organic, ora ne siamo certi, è tanto Smith e poco Davis. La rilettura stavolta è deliberato tradimento che si fa consapevole appropriazione, un andare oltre per tornare a se stessi.
Lo si capisce subito. L'invocazione iniziale di AkLaff in solo batteria, tra Ed Blackwell e Don Moye, lascia presto spazio a una disarticolata sequenza di accordi dissonanti grattugiati dalle chitarre, un gioco di specchi sul quale si innesta la prima sortita della tromba, pregna di quel lirismo tremolante che è il marchio di fabbrica di Smith, un lirismo nel quale non contano le note "giuste," ma la tensione, la luce, gli abbagli. L'improvviso emergere di una pulsazione funk è una liberazione. Tocca al basso elettrico e alla batteria innervare il flusso di una metrica black che più black non si può: forse rubata a Sly & the Family Stone, o presa in prestito da un brano di Erykah Badu. Il beat è travolgente, ma sempre affermato e negato allo stesso tempo, reso precario e dissimulato dai canti e controcanti delle chitarre. È musica che vibra, tumultuosa e vitale, brulicante della materia organica evocata dal nome della band (e in questo c'è molto Threadgill). Musica che si ramifica per poi diventare pulviscolo, in un gioco di allontanamento e ritorno al beat. Un gioco che si potrebbe immaginare prevedibile, ma che la conduction di Wadada riesce sempre a rendere cangiante, spiazzante. Perché qui spunta un duetto tromba-batteria che fa tanto AACM; là emerge un solo di basso elettrico dal gusto folk; oppure il contrabbasso e il violoncello vengono invitati a stendere con l'archetto un oscuro tappeto sul quale si posano i feed-back gracchianti delle chitarre.
C'è una sorgente segreta che da sempre alimenta il grande fiume della musica black. In pochi sanno la strada per arrivarci. Leo Smith è uno di quei pochi.
Foto di Roberto Cifarelli
Ulteriori immagini di questo concerto sono disponibili nella galleria immagini.
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