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Vite straordinarie: intervista a Dado Moroni

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Ha da poco inciso Live in Beverly Hills (Resonance Records) in trio con Marco Panascia e Peter Erskine; è uno dei pianisti italiani più apprezzati nel mondo; è un musicista che si è forgiato sul campo, attraverso esperienze di vita che hanno influenzato il suo suono e approccio al jazz. Punto della situazione con Dado Moroni, che ci racconta le emozioni del suo presente, qualche snodo importante del suo passato e regala qualche consiglio per chi ha voglia di mettersi in viaggio.

All About Jazz Italia: Una volta hai dichiarato: «la vera avanguardia è vivere il presente al cento per cento, guardandoti attorno, capendo quello che sta succedendo, ascoltando gli stimoli che ti arrivano, rimanendo fermamente ancorato al passato e cercando nuove strade per il futuro». Da questa dichiarazione sono passati cinque anni, sei ancora della stessa idea?

Dado Moroni: Vorrei innanzitutto precisare che l'ispirazione per questa dichiarazione l'ho ricevuta dopo avere letto un'intervista con Mulgrew Miller, pianista favoloso e grande didatta. Ero d'accordo con lui allora e lo sono ancor di più adesso, soprattutto dopo avere iniziato a insegnare pianoforte jazz al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, perchè posso immediatamente verificare l'effetto di questi concetti sul miglioramento e la maturazione degli studenti.

AAJ: Nel tuo presente c'è l'incisione del clamoroso Live in Beverly Hills (Resonance Records) in trio con Marco Panascia e Peter Erkine. Le otto tracce proposte nascono dalla registrazione di due live set. Ci racconti l'atmosfera che c'era sul palco?

D.M.: Un'atmosfera bellissima e quasi festosa. Non avevo mai suonato con Peter Erskine e, prima delle prove, mi chiedevo se l'alchimia tra Peter, Marco e me avrebbe funzionato. Oltre ad essere due musicisti fantastici, i miei due partners sono anche due veri gentlemen... e la componente umana per me è fondamentale. Sono bastate poche battute per entusiasmarmi e credo che la musica di questo CD esprima proprio questa gioia. Avevamo voglia di suonare, il pubblico era caldo, i suoni ottimi e penso effettivamente che ciò si percepisca dall'ascolto. Il produttore George Klabin poi, è riuscito a creare una sensazione di "benvenuto" eccezionale e ciò ha reso le cose ancor più facili.

AAJ: Nella track-list spunta il tradizionale "Vitti na crozza". Come è nata l'idea di suonarlo?

D.M.: Quando ero bambino mia sorella maggiore Monica mi cantava spesso questa canzone, anche prima di addormentarmi. Il fatto strano è che la mia famiglia non è siciliana però per qualche motivo Monica l'aveva imparata foneticamente, perchè il dialetto siciliano è molto diverso dal ligure, da una versione della cantautrice Rosa Balistreri e, come Rosa, si accompagnava alla chitarra. E poi per varie ragioni durante la mia vita la Sicilia è stata sempre presente attraverso amicizie straordinarie ed esperienze bellissime. In più Marco Panascia è catanese, così mi è venuta l'idea di arrangiare "Vitti na crozza" senza però snaturare la semplicità e bellezza della melodia originale.

AAJ: Che rapporto hai con la musica popolare in genere?

D.M.: Non credo di aver un rapporto particolare con la musica popolare in genere. Dato che ascolto comunque molta musica oltre al jazz, mi piace giocare con ciò che colpisce la mia immaginazione, senza preconcetti.

AAJ: Tre sono gli originali a tua firma: "Ghanian Village," "Nose Off," "Jamal". Ce ne descrivi brevemente la genesi e i significati.

D.M.: "Ghanian Village" è solo un quadro di una mia esperienza vissuta per l'appunto in un villaggio del Ghana, in cui suoni, colori, profumi, persone e umanità mi colpirono particolarmente. "Nose Off" deriva da un morso di un cane esattamente sul mio naso. Io che mi vanto di aver un rapporto particolare e privilegiato con gli animali, anni fa iniziai a giocare con un quasi-pastore tedesco dal carattere un po' imprevedibile. Nonostante gli avvertimenti della padrona continuai e il povero tormentato mi chiese di smettere, ma non avendo nè le mani nè la parola l'unica cosa fu di mordermi sul naso. Appena dopo esser tornato dal pronto soccorso buttai giù la melodia. "Jamal" è semplicemente il mio piccolo omaggio ad un grandissimo stilista, pianista e "pensatore" del jazz: Ahmad Jamal. Quanta ispirazione ho ricevuto da lui negli anni!

AAJ: Il tuo modo di comporre, nasce sempre da un incipit specifico, particolare?

D.M.: Mai! Può accadere guidando, perchè il suono dei giri del motore mi ricorda un armonico particolare o può accadere ascoltando i passi della gente per strada, cercando di isolare un ritmo o addirittura posso ispirarmi alle quasi note di un cigolìo di una porta. È generalmente difficile che mi sieda al piano e dica a me stesso: «Ok, adesso componiamo». Sarà successo forse due volte in tutta la mia vita.

AAJ: In "Where Is Love" dai fondo a una certa vena poetica che dà luogo a un applauso a scena aperta. Quanto è importante per te riuscire a emozionare chi viene ad ascoltarti dal vivo?

D.M.: Fondamentale! La cosa più bella che mi sia accaduta successe dopo un concerto a Genova, la mia città. Mi avvicinò una signora e mi prese la mano, raccontandomi di attraversare un momento difficilissimo della sua vita e che grazie alla mia musica era riuscita a rassenarsi anche se per solo due ore. Questa cosa mi toccò molto e la tengo sempre in mente ogni volta in cui vado a suonare. Purtroppo oggi vedo un po' di musicisti che salgono sul palco per altri motivi, chi per mero lavoro, con l'orologio sempre sotto l'occhio, e chi per "mostrarsi". Lo trovo molto triste e persino un po' offensivo nei confronti sia degli ascoltatori sia della musica stessa. Per contro vi sono ancora tanti che suonano perchè per loro si tratta di un esigenza mentale e fisica, lo fanno per passione e per trasmettere. Meno male.

AAJ: Dall'ascolto del CD traspare una voglia di far oscillare la musica da una certa tradizione jazzistica verso territori più liberi e senza punti di riferimento. Questo atteggiamento è dovuto al voler sfuggire ai soliti paragoni?

D.M.: Onestamente non saprei come rispondere. Cerco soltanto di suonare ciò che mi passa per la mente. L'unica regola che ho è quella di variare al massimo i moods dei vari pezzi: se inizio con un brano veloce, il prossimo dovrà essere completamente diverso sia come ritmo che come tonalità. Per non annoiare me stesso e tantomeno il pubblico.

AAJ: Quando suoni nel classico assetto di jazz-trio, quali sono le caratteristiche fondamentali che devono avere gli altri lati del triangolo?

D.M.: Non ho particolari richieste stilistiche circa basso e batteria, anzi amo confrontarmi con esperienze diverse perchè ne può sempre scaturire qualcosa di unico. L'importante è che i miei partners abbiano "swing" anche se si suona free, e orecchie aperte, siano altruisti e si preoccupino del suono della musica e non solo del proprio strumento.

AAJ: Tra cento anni, per quale tua peculiarità ti piacerebbe essere ricordato?

D.M.: Con la straordinaria evoluzione della medicina, chi l'ha detto che tra cento anni non sarò ancora in giro a suonare? (Ride, N.d.R.) Scherzi a parte, onestamente non ci ho mai pensato e se lo devo fare dico: «era un musicista libero, non ha mai suonato cose che non gli interessavano, aveva il suo suono ed era una persona per bene». Può bastare?

AAJ: Da giovanissimo hai iniziato a suonare all'estero grazie all'incontro con il contrabbassista Jimmy Woode. Da allora la tua palestra artistica è stata il suonare continuamente con tantissimi grandi nomi del panorama jazzistico in giro per il Mondo. Pro e contro di un cammino di questo tipo?

D.M.: A parte il fatto di essere stato lontano da casa, da alcuni affetti, vedo solo tanti pro: ho girato il mondo, ho conosciuto persone straordinarie, ho incontrato culture affascinanti, ho imparato a essere più tollerante, ho imparato qualche lingua, ho mangiato cose buonissime, ho suonato tanta musica, ho riso tantissimo, ho scoperto cose di me stesso e voglio credere di aver lasciato qualcosa di positivo a qualcuno. Non posso lamentarmi e rifarei tutto ciò che ho fatto.

AAJ: È stata una scelta dettata dall'istinto? Anche dal punto di vista caratteriale sei una persona che agisce all'improvviso?

D.M.: L'ho fatto e basta. Si è presentata l'occasione di fare ciò che mi dava più gioia e far di ciò un lavoro e non ho avuto dubbi. Non sono una persona che agisce all'improvviso, anzi tendo a valutare bene tutte le opzioni, poi, d'improvviso, prendo una decisione.

AAJ: C'è qualcosa che avresti voluto realizzare, ma non hai trovato il modo proprio per aver agito in questo modo?

D.M.: Tante cose e allo stesso tempo nessuna. Non sono una persona frettolosa. Ho da sempre tante idee nei cassetti e piano piano metto su i mattoni. In totale tranquillità.

AAJ: Quale è stato il momento decisivo della tua carriera - un episodio, una persona - che ha determiinato la tua attuale visione di fare jazz?

D.M.: Sicuramente all'inizio i miei genitori, che grazie alla scelta inconscia dei dischi che suonavano in casa, hanno indirizzato il mio gusto. Poi tanti musicisti e amici meravigliosi che hanno creduto in me fin dall'inizio: da Franco Cerri a Gianni Basso, da Franco Ambrosetti a Dizzy Gillespie e Jimmy Woode, da Julius Farmer a Luciano Milanese, James Moody, Alvin Queen, Bert Joris, George Robert e Tom Harrell, e molti altri nomi che potrebbero riempire pagine e pagine. Ognuno di loro ha contribuito ad aiutarmi nell'avere una visione sia professionale che estetica del fare musica. Ho imparato una sorta di "galateo" e ne faccio tesoro ogni giorno.

AAJ: Nel dicembre '91 ti sei trasferito a New York. Quali sono i cambiamenti sostanziali che hai notato in questi anni nella scena americana e come è cambiato il punto di vista dei musicisti americani verso il jazz europeo?

D.M.: Qualsiasi cosa succeda, New York è sempre un'incredibile centrale delle idee, un fulcro imprescindibile da cui nascono continuamente situazioni, proposte e innovazioni. Personalmente l'ho amata dal primo instante in cui vi ho messo piede e l'amore continua ancora forte come sempre. Come in tutto il resto del mondo anche a New York si sentono le varie crisi, ma resta sempre la città del jazz, almeno per me. Certamente anche in America si sono susseguite varie epoche in cui sembrava diminuita l'attività musicale, poi le cose cambiavano in meglio e così via. Sicuramente, mentre fino alla fine degli anni 90 erano abbastanza in pochi i musicisti europei in attività negli States, ora, grazie anche a internet, quindi all'immediatezza delle informazioni, l'abbassamento dei costi dei voli e l'indubbia forza dell'euro sul dollaro, sono sempre di più i musicisti europei che si trasferiscono negli States o almeno vi passano lunghi periodi, confrontandosi con gli artisti locali e scambiandosi idee. Grazie a questo credo che ormai tanti musicisti americani non abbiano più troppo timore nel venire in Europa ed esibirsi con musicisti locali. Anni fa non era così, i musicisti statunitensi spesso avevano una "lista" di europei con cui si poteva suonare, e la scambiavano con gli amici che di volta in volta effettuavano tournèe. "Vai tranquillo Joe! Quel batterista può suonare veloce e ha swing! E il pianista conosce abbastanza standards da non metterti in difficoltà!" Era così che andava.

AAJ: Un consiglio a un giovane jazzista italiano in fila al check in con un biglietto di sola andata per New York?

D.M.: Sii educato, rispettoso ma sappi farti valere umanamente. Musicalmente sii umile, apri le orecchie e ricordati che per quanto tu possa essere preparato c'è sempre qualcuno dietro l'angolo che potrebbe esserlo più di te. Studia, suona e alla domenica va in chiesa, per pregare, se credi, e per immergerti nel suono degli Spirituals e dei Gospels, che sono alla base di tutto. Se vuoi avvicinarti all'assoluto con la musica, là lo puoi fare! Da là arrivi al Blues, al Jazz e puoi fare tutto. Senza tutto questo è molto difficile.

AAJ: Tornando all'ultima parte della citazione iniziale. Quali sono le nuove strade che stai cercando per il futuro?

D.M.: Tornare indietro per vedere come si chiama la strada che ho preso. Non ho mica il navigatore!

Foto di Roberto Cifarelli (la prima e la terza), Giorgio Ricci (la seconda) e Dragan Tasic (la quinta).

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