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Viaggiare con la fantasia: intervista a Stefano D’Anna

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Sono fatalista, per tanti motivi, giusti o sbagliati che siano, ogni persona ha una propria collocazione.
Stefano D'Anna è uno di quei musicisti che si muovono lontani dalla luce dei riflettori. Lui lo fa con grande classe, dedizione e principio di continuità. È sulle scene jazzistiche da oltre un ventennio (miglior nuovo talento nel 1992 per la rivista Musica Jazz), ha collaborato con una nutrita serie di personaggi di rilievo, è venuto a contatto con icone della portata di Bob Brookmeyer e Carla Bley e continua a portare avanti diversi progetti che suscitano interesse da parte della critica e di un pubblico attento. Dal 2010 - a seguito dell'assegnazione triennale dalla cattedra di Jazz presso il Conservatorio Pier Luigi da Palestrina - risiede a Cagliari, in quella Sardegna così ricca di talenti e musicisti di valore.

All About Jazz Italia: Negli ultimi venti anni in cosa è maggiormente cambiato il modo di fare jazz in Italia?

Stefano D'Anna: È difficile rispondere in maniera esaustiva. Forse c'è un convergere sempre maggiore di risorse e intresse verso determinate persone. C'è un'ottima base di preparazione, di grande livello, però sono quasi sempre gli stessi a raccogliere l'attenzione. Venti anni fa non era così. C'erano più opportunità diffuse sul territorio per suonare rispetto a oggi. A freddo, questo è il primo aspetto che mi viene in mente.

AAJ: All'inizio della tua carriera eri considerato uno tra i migliori talenti della tua generazione. In seguito sei stato condizionato dal peso delle aspettative?

S.D.: Non ho mai sentito nessuna aspettativa su di me. In realtà, a parte il fatto di vincere alcuni referendum, non sono mai finito sulla bocca di tutti, quindi l'eventuale tensione dovuta a una grande esposizione mediatica non l'ho mai avvertita. I lavori che ho fatto hanno ricevuto delle buone recensioni, mi considero una persona ai margini della faccenda jazzistica in generale.

AAJ: Pensi che la tua figura meriterebbe più spazio nell'attuale panorama jazzistico?

S.D.: Non saprei. Sono siciliano di origine, sono fatalista. Per tanti motivi, giusti o sbagliati che siano, ogni persona ha una propria collocazione. Francamente non mi sento di rispondere in maniera affermativa; forse un giorno mi meriterò più visibilità o forse accadrà senza che me la meriti (ride, N.d.R.). Cerco solo di lavorare, nel senso della ricerca musicale; è bello fare, non è bello pensare di meritare di più.

AAJ: I tuoi soli sono spesso sottolineati nelle recensioni dei dischi in cui suoni. Dai molta importanza ai commenti della critica?

S.D.: I commenti sono più o meno acuti. Quella del musicista è un'attività fatta di riscontri. Quest'aspetto è importante per capire l'impatto che produce ciò che fai, il tipo di emozione che riesci a suscitare. In questo senso avere qualcuno che si occupa di quello che fai è molto utile. Capire quello che si pensa di me come musicista m'interessa molto, è importante.

AAJ: Hai suonato per diverso tempo in una Big Band. Le orchestre, anche per i tagli economici, sono in via di estinzione.

S.D.: In Italia tutto era legato alla presenza dell'orchestra in RAI, a Roma e anche a Milano. Questa eredità è stata raccolta nei tempi in cui le orchestre già s'iniziavano a sciogliere, quindi la scuola delle Big Band veniva meno. In qualche modo continua a essere presente, anche se in maniera sporadica, ma è molto difficile mantenere in piedi un'orchestra al giorno d'oggi. È una tradizione meno presente, mentre in altri paesi, come per esempio in Germania, ogni luogo e ogni ente ha la sua orchestra, fa parte della cultura e della scuola musicale di quei posti. Questo da noi si sta perdendo.

AAJ: Attualmente insegni a Cagliari, presso il Conservatorio Pier Luigi da Palestrina. La Sardegna ha da sempre sfornato talenti in ambito jazzistico, hai da darci qualche nome da segnare sul taccuino?

S.D.: Sicuramente Francesco Lento, un trombettista giovanissimo, molto bravo, che ora vive a Roma. In Sardegna ci sono tanti bravi musicisti, come Gianrico Manca. È un posto dove il rapporto talento e densità abitativa è molto alto.

AAJ: Gli studenti affrontano la materia di studio con umiltà e pazienza?

S.D.: Vedo un po' di tutto, senza poter generalizzare. Mi capita di incontrare persone molto coscienziose e altre più superficiali che cercano scorciatoie, che poi non troveranno (ride, N.d.R.). Rispetto a quando ero ragazzo, c'è meno consapevolezza della storia delle cose. Una volta si leggevano le copertine dei dischi, ci si appuntava dei nomi, si creavano dei riferimenti sui quali basare ulteriori ricerche. Oggi questo si è un po' perso. I ragazzi vedono qualcosa su You Tube, ma non approfondiscono le informazioni: chi ha prodotto il disco, chi ci ha suonato e via dicendo; ma questo avviene un po' in tutti i campi, non solo in quello musicale.

AAJ: Riguardo a un'incisione di Joe Lovano, Live at The Village Vanguard (Blue Note, 1996), hai dichiarato che si tratta di "Una dimostrazione esemplare di come si suona il jazz". Sei ancora dello stesso avviso?

S.D.: Sì, è un disco ormai storico. È una grande dimostrazione del far vivere un certo spirito, con una grande compiutezza linguistica. Joe Lovano è storia. Continuo a pensarla così.

AAJ: Obliquity e Soundscape sono i tuoi progetti attuali. Ti sei prefissato un obiettivo da raggiungere con loro?

S.D.: Obliquity sostanzialmente è una collaborazione con il batterista cagliaritano Gianrico Manca, con il quale c'è un tentativo di perseguire una sintesi contemporanea di sonorità che si rifanno ad alcune tendenze attuali. Soundscape è un mio progetto mutevole, che può essere in quartetto o in trio, con il quale ho collaborato con Greg Hutchinson, ma poi, per vari motivi, non è stato più possibile continuare. Ci sono delle contingenze che rendono il tutto un po' in salita. Ora sto lavorando con Roberto Migoni e Massimo Tore, stiamo provando con l'obiettivo di incidere, forse con l'aggiunta di un chitarrista, ma per il momento è solo un'idea.

AAJ: Cosa c'è scritto nella tua agenda musicale?

S.D.: Spero di riprendere presto il discorso di Soundscape, che tra l'altro è stato molto apprezzato dal vivo e a noi è piaciuto molto. Vorrei fare un qualcosa di strettamente mio, magari con il trio di cui ti parlavo. Poi ho diverse collaborazioni sparse, anche qui in Sardegna, come quelle con Francesca Corrias e Paolo Carrus, e altre cose in corso. Tengo molto anche all'aspetto dell'insegnamento, che spero di portare avanti nella maniera migliore, anche perché mi arricchisce molto a livello di conoscenza e perché riesco con il tempo a trasmettere alle persone qualcosa di positivo.

AAJ: Oltre alla musica hai altri interessi artistici?

S.D.: Mi piace molto il cinema, anche se alla fine sono talmente preso dalla musica che ho poco tempo a disposizione. Vedo il cinema contemporaneo, ma anche qualcosa del passato, degli anni Cinquanta o anche telefilm in bianco e nero. Il mondo del bianco e nero m'interessa molto, è una dimensione così lontana dal presente che ci puoi viaggiare dentro e costruire percorsi a tuo piacimento, a tua misura. Amo viaggiare con la fantasia ad ampio raggio.


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