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Un ricordo di Giorgio Gaslini

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Nel 1995, mentre si esibiva al Festival monacense "Big Band Meeting -Jazz & More" Giorgio Gaslini, concesse un'intervista a Marcus A. Woelfle. La ECM aveva appena pubblicato Skies of Europe dell'Italian Instabile Orchestra con l'omonima suite di Gaslini che diede lo spunto all'intervista. Per ricordare il pianista da poco scomparso, All About Jazz Italia ripropone questa intervista pubblicata all'epoca dalla rivista tedesca Jazzthetik ma disponibile in Italiano per la prima volta.

Marcus Woelfle: Come si scrive per un'orchestra piena d'individualisti dei caratteri e stili del tutto diversi e originali? Quali sono i vantaggi e quali svantaggi di una situazione del genere?

Giorgio Gaslini: È stata una cosa molto stimolante per me come compositore, perché l'Instabile è un orchestra molto speciale, e giustamente come ha detto Lei, è un orchestra di fuoriclasse: sono 18 cavalli vincenti, 18 campioni e ognuno di loro ha una storia e un virtuosismo speciale e una tendenza di formazione diversa dagli altri. C'è chi si è formato solamente nel Jazz, chi si formato nella musica sperimentale, chi ha invece una visione totale della musica. In quel senso è chiaro che il problema si è posto subito, a partire dalla prima composizione "Pierot solaire": come convogliare le energie di questi grandi improvvisatori? Non potevo costringere al silenzio gli improvvisatori ma non potevo neanche lasciargli spazio assoluto. Quindi ho dovuto svillupare un rapporto virtuoso tra la pagina scritta e la pagina improvvisata. La pagina scritta è nata addirittura pensando a quei musicisti, cioè l'ho scritta su misura per ognuno di loro.

M.W. Come facevano Ellington e Mingus...

G.G.: Esatto. A questo punto è uscito "Pierot solaire" che è stato accolto come un esempio di equilibrio di questi due elementi ovvero della composizione e dell'improvvisazione. Poi con "Skies of Europe" avendo una durata maggiore da occupare, ossia 45 minuti anziché 12 minuti, imponeva un terzo problema che era quello di articolare una suite in vari momenti contrapposti tra loro in modo che nell'ascolto globale non si creasse stanchezza per troppa musica scritta o troppa improvvisazione. Quindi ho tentato di evitare uniformità, scrivendo movimenti molto differenziati. Ho scelto blocchi orchestrali scritti nel primo movimento, e ho fatto seguire un secondo movimento per duetto, un terzo movimento d'orchestra, poi un movimento per quattro sassofoni e due tromboni, uno per tre archi e un pianoforte e l'orchestra che chiude con i due ultimi movimenti. Nell'economia generale della Suite ci sono praticamente su sette movimenti quattro di grande orchestra dove suonano tutti e tre per piccoli gruppi. Se la eseguiamo da capo a fondo si sente questo equilibrio. Ho scritto "Skies of Europe" tenendo presente la forma di concerto dove non sempre si può suonare una suite di 45 minuti. Quindi è l'ho strutturata in modo scomponibile per avere modo di estrarre alcuni movimenti e ricomporli in una composizione più breve.

M.W. Difatti in questo concerto eseguite "Marlene e gli ospiti misteriosi" e "Fellini Song." Il movimento "Masse d'urto" è dedicato a Michelangelo Antonioni. Ciò ci riporta al Suo stretto rapporto con il cinema.

G.G.: Ho collaborato alla produzione di 42 film e sono stato molto fortunato essendo entrato nel mondo del cinema dalla porta principale. Fu proprio Antonioni a invitarmi a scrivere le musiche per "La notte," il suo film leggendario, negli anni 60. Fu Marcello Mastroianni che gli portò un mio disco che si chiamava Tempo e relazione. Avevo regalato questo disco a Mastroianni dicendogli: "Guardi Mastroianni, questo è un disco di estrema avanguardia. Non so se Le piacerà. Glielo regalo lo stesso perché è uscito adesso." Lui lo diede ad Antonioni la sera stessa mentre stava girando le prime scene del film "La notte." Antonioni stava cercando un pianista-compositore per la colonna sonora di quel film a cui poco a poco (ma non me lo aveva detto) chiedere i brani del film mentre il suo gruppo era sul set. Ascoltò il disco e disse: "Questo è il musicista che sto cercando." Mi chiamò e mi scritturò per un mese, ogni giorno dovevo essere col mio quartetto sul set dalle 9 di sera alle 6 del mattino. Ma non mi disse mai: "Dovrai comporre la musica per il file." Invece mi chiese: "Dovrai essere attore con il tuo quartetto nella scena." Però ogni notte mi chiedeva un nuovo brano per il giorno dopo. Alla fine di un mese avevo scritto la colonna sonora. "La notte" e proprio nelle stesse settimane "L'ascensore al patibolo" di Louis Malle con Miles Davis sono stati i primi due film dove è entrato il Jazz per piccoli gruppi. Prima i film si facevano con l'orchestra sinfonica... La grande novità era che quella colonna era fatta da quattro strumenti che erano già sulla scena. Per me si è trattata di una occasione straordinaria, lavorare per molte settimane fianco a fianco con questi grandi attori e questa grande atmosfera. Poi da lì mi hanno invitato un po' tutti a scrivere musica per il cinema. Devo dire che il cinema è stato una bellissima esperienza ma la considero un aspetto collaterale della mia attività. Sono sempre stato sopratutto un autore, un pianista e un direttore d'orchestra. Il cinema avuto un suo spazio nel mio lavoro, ma io non sono un musicista da film.

M.W. Comunque ci sono molti riferimenti al cinema anche in questa Suite.

G.G.: Io ho voluto dedicare un movimento a Marlene Dietrich e uno ad Antonioni perché gli sono sempre riconoscente, anche dopo 30 anni. È molto anziano e ha questa malattia che gli impedisce di parlare, o di scrivere. Però mi ha fatto rispondere con una lettera dal suo assistente e mi ha ringraziato affettuosamente. Già negli anni '60, comunque, avevo avuto modo di dedicare una composizione a Fellini, che conoscevo personalmente. Si intitolava "Asa nisi masa" che è la formula magica nel film "La dolce vita." Quando gliel'ho dedicata, mi disse: "C'è una certa affinità tra noi." Lo incontravo spesso la mattina quando abitavo a Roma (sono Milanese, ma per sei anni ho abitato a Roma) e parlavamo simpaticamente. Quando stavo terminando la suite è arrivata la notizia che lui stava morendo è mi sono commosso è gli ho dedicato questo finale.

M.W. Immagino che non sia stato possibile scrivere musiche per i film di Fellini? Le colonne le faceva Nino Rota...

G.G.: Le faceva Nino Rota che era un grandissimo musicista, il suo compositore ideale. Ad un certo punto ci sarebbe forse stata l'occasione di collaborare con Fellini, ma in quel periodo avevo in mente altre cose e non ho curato questo contatto. Alla fin dei conti non credo di aver sbagliato perché sono contento di quello che poi è successo nella mia produzione. Non ho rimpianti. Perché fare il cinema significa stare a Roma, a disposizione 24 ore su 24 ore del regista.

M.W. Manca tutta la libertà...

G.G.: Non fai più niente. Praticamente un film con Fellini ti blocca sei mesi. Non puoi più fare concerti, non puoi più andare via. Non è solo stare vicino al regista, parlare con lui, andare a cena con lui, passare ore con lui, ma anche il fatto che tu componi, poi devi suonare, devi far sentire quello che hai composto. Poi devi stare sul set, devi andare a registrare... Lui è presente, poi devi montare, e poi mixare... passano mesi!

M.W. E che rapporto ha con Marlene Dietrich?

G.G.: Un rapporto culturale naturalmente, di cinema. La Marlene mia è più Fassbinder che anni trenta. Vedo una scena come Marlene di notte con un abito meraviglioso da sera, calze di seta senza scarpe, in casa con un bocchino, una sigaretta, che aspetta due ospiti misteriosi, che potrebbero essere due amanti, due amici. Non si sa chi sono. Arrivano questi due trombonisti...

M.W. Mi sembra di aver sentito un riferimento musicale alla Berlino di Brecht e Weill.

Gaslini; Esatto. Infatti, Eisler, Dessau e questo gruppo di musicisti che io conosco bene. In Italia ho diretto l'"Opera da tre soldi" in forma di concerto con coro e orchestra e cantanti. Conosco tutto il teatro di Brecht.

M.W. Lei lavora per tutta la suite con allusioni musicali.

G.G.: Si. C'è per esempio una citazione di "Hänsel e Gretel" di Humperdinck. [Canta] E perché c'era questa citazione? Perché me la cantava il mio papà quando ero bambino...

M.W. Deriva da una canzone per bambini tedesca. Suo padre era tedesco?

G.G.: No. Mio padre era stato un grande giornalista e un grande scrittore africanista. In casa c'erano strumenti africani. Da bambino -oltre al mio Beethoven -ho cominciato a improvvisare sulle percussioni africane. Il Jazz viene dall'Africa per me.

M.W. Immaginavo che per Lei venisse dal filone europeo.

G.G.: No, no. Dall'Africa. Quando ho fatto una tournée in Africa, ad Adis Abeba venne pubblicata una recensione del mio concerto e -con mia grande gioia e stupore -citavano mio padre, perché là era conosciuto come scritture di cose africane.

M.W. Sono curioso. Torniamo all'epoca della Sua formazione.

G.G.: A sei anni ho cominciato a studiare il pianoforte. Dopo tre anni mi hanno messo davanti al pubblico a suonare un piccolo Beethoven. Ero terrorizato dalla paura. Poi durante la guerra, mio papà era in guerra. Io vivevo in campagna fuori Milano, dove mio padre ci portò dopo cinque bombardamenti su Milano. Là ho passato tutta la guerra. Andavo in bicicletta a studiare a Lecco sul lago e poi tornavo su su questa montagna alle tre del pomeriggio e suonavo tutto il giorno il pianoforte e studiavo i classici. Nella zona c'era un'orchestra di 40 elementi -tipo Glenn Miller ma un po' camuffata perché in quel periodo il Jazz era proibito, quindi era un Glenn Miller tranquillo.... I musicisti non avevano un direttore, perché tutti i maestri erano in guerra o erano morti poverini. Allora sono venuti da me e mi hanno detto: "Tu devi esser il nostro direttore." Io avevo i calzoncini corti e avevo dodici o tredici anni. Mi hanno messo davanti all'orchestra e io non sapevo far niente... allora ho cominciato a dire qualcosa e poi a scrivere. E ho fatto vari concerti con loro. Quando finì la guerra avevo quindi accumulato varie esperienze, di piano solo e di orchestra. Poi sono diventato professionista subito perché a Milano non c'era più lavoro. Mio padre, tornato dalla guerra, era disoccupato. Allora sono andato a offrirmi nei cinema come pianista, perché il sindacato voleva che negli intervalli tra un film e l'altro i musicisti suonassero. Ma mi rispondevano sempre: "Sei troppo giovane." Per reazione decisi di creare un mio quintetto col quale avuto successo. È poi stata la volta della radio, come solista, poi i primi festival.... Il primo festival europeo in assoluto è stato il festival di Firenze del 1947. C'era Charles Delaunay, il critico francese, che mi fa: "Dejà au Bebop!" Avevo 16 anni...

M.W. Torniamo qualche anno indietro. Era difficile suonare jazz durante il fascismo?

G.G.: No, perché ero bambino e suonavo Jazz solo a casa mia. Ma io non sapevo che era Jazz e improvvisazioni ispirate dall'Africa. Poi alla fine della guerra qualcuno mi disse: "Guarda che quella cosa che tu fai si chiama Jazz." Io vengo dall'Africa, i ritmi, le frasi...

M.W. Ma per Lei poi è stata importantissima anche la musica colta europea, la dodecafonia, la serialità.

G.G.: Nel '49 avevo poco meno di 20 anni, ma ero già molto conosciuto in Italia come pianista di Jazz, perché mi sentivano alla radio, nei concerti. Mi sono presentatato al conservatorio e ho detto: "Voglio studiare composizione." Mi hanno detto: "Ma cosa ci fai tu qui che ti sentiamo alla radio. Il conservatorio non è per te." Ma io insistetti finché mi fecero l'esame di ammissione, e iniziai con i corsi del quinto anno. Mi hanno fatto saltare cinque anni, perché io scrivevo già per orchestre; avevo imparato da solo. Conclusi i miei corsi con sei diplomi, studiando con grandi compagni scuola, musicisti del livello di Luciano Berio e Claudio Abbado (che era nella mia classe).

M.W. In quell'epoca ancora non c'erano i corsi di Jazz al conservatorio.

G.G.: Sono stato io a fondare il primo corso di Jazz in Italia nel 1957, a Milano in una scuola privata. Ebbi 80 studenti in due anni. Poi abbiamo dovuto aspettare fino al '72 quando il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma mi diede la prima cattedra di Jazz, per due anni. Lì è venuta fuori una generazione nuovissima di studenti. Nell'Instabile ci sono Eugenio Colombo e Bruno Tommaso che erano in quel corso. Poi ho avuto la cattedra a Milano e là si sono presentati mille inscritti. Lì è venuta fuori la nuova generazione; i più bravi musicisti italiani sono emersi da questi corsi. Adesso però sono riuscito a far passare dal ministero la decisione a introdurre il Jazz in tutti i conservatori d'Italia, che sono 52. Al momento abbiamo già venti cattedre di Jazz attive.

M.W. All'inizio della Sua attività il Jazz era considerato con sospetto nei conservatori.

G.G.: Una guerra. Quando studiavo al conservatorio, fui costretto a sospendere l'attività jazzistica per poter studiare. L'ho ripresa dopo essermi diplomato. Quando ho insegnato a Santa Cecilia la guerra è ricominciata, per esempio con i "vecchi" professori. Sono stato solo a combattere per due anni. Invece a Milano dopo qualche anno la situazione è stata trionfale, perché il direttore Marcello Abbado, il fratello di Claudio, proteggeva il mio corso avendo visto il suo successo enorme. Adesso il Jazz al conservatorio è una cosa normale.

M.W. A Lei dobbiamo anche un nuovo rapporto tra dodecafonia, musica seriale e Jazz.

G.G.: Il primo esempio mondiale fù il mio "Tempo e relazione" del '57, che era sul disco che regalai a Mastroianni.

M.W. La libertà improvvsativa deve essere molto difficile da conciliare con un sistema rigido.

G.G.: Infatti, quella partitura era completamente scritta, anche gli assoli. Dopo con il mio quartetto sono riuscito a trovare un sistema per cui davo ai solisti, soprattutto al sassofonista una serie di suoni su una pagina. Allora improvvisando ogni tanto attingevano a queste serie di suoni. Nell'improvvisazione la dodecafonia diventa quindi molto libera, però c'è...

M.W. Lei ha anticipato quello che Gunther Schuller ha chiamato Third stream.

G.G.: Soprattutto mi pare di aver fatto una cosa: mi sono reso subito autonomo dall'America. Ho sempre pensato dal primo momento che noi europei dovevamo fare un innesto sulla nostra cultura e non fare gli americani, l'ho pensato pur amando moltissimo il Jazz americano e sopratutto quello nero americano, essendo stato vicino a Duke Ellington, e avendo grandi amici come Max Roach, Ornette Coleman...

M.W. Qualche momento fa qualche membro dell'Instabile stava intonando "Lonely Woman" di Ornette Coleman. Poco tempo fa è morto Don Cherry con cui Lei ha suonato nel '66...

G.G.: Ho appena scritto un articolo ricordando il mio incontro con Don Cherry. Eravamo grandi amici e lui era un genio musicale. Aveva il senso della musica totale e pur non essendo musicista accademico lui la totalità l'ha trovata facendo grandi esperienze in Africa, in India, come una sorta di ambasciatore della cultura e di assorbitore delle culture dal vivo nella pratica. È stato un grandissimo. Purtroppo l'ultima volta che l'ho visto dal vivo, con Ornette, proprio non riusciva più a suonare.

M.W. Lei ha spesso usato il suo termine "musica totale" a cui ha anche dedicato un libro. Potrebbe descriverla in poche parole?

G.G.: Credo che il musicista del futuro sarà un musicista aperto a 360 gradi su tutte le musiche del passato e del presente senza preclusioni di nessun tipo. Oggi i musicisti che escono dai conservatori diciamo più tradizionali hanno la sensazione di essere loro i padroni della musica. In verità non sono padroni di niente perché la musica appartiene al mondo e quindi il musicista oggi deve essere aperto. Per essere aperto deve conoscere -senza necessariamente suonarli -il Jazz o il Rock, però il compositore deve amare il Jazz, deve conoscerlo, deve amare il Rock, deve conoscerlo, deve amare la musica etnica, deve conoscerla... Poi, sicuramente, quando si mette a scrivere, la sua sarà una musica di sintesi. E -ci tengo a precisare -non eclettismo, ma sintesi.

M.W. Potrei immaginarmi che esistono tipi di musica contro cui Lei ha una avversione o che vorrebbe escludere.

G.G.: Sicuramente la musica commerciale. Però anche da quella c'è da imparare. Per esempio all'inizio degli anni sessanta, per due o tre anni, ho fatto molta musica per pubblicità, per finanziare le mie ricerche musicali, e ho imparato molto. Io non disdegno niente, ma non faccio il musicista commerciale. Molte volte si impara di più da un organetto di strada che non da un' orchestra sinfonica. Quindi non bisogna disprezzare niente. L'importante è poi fare le proprie scelte.

M.W. E le ultime mode? Che ne pensa del Techno?

G.G.: Troppo meccanica. Posso citare la Techno in dieci battute, ma [preferisco] non farlo. Se per esempio in una sequenza voglio dare l'idea di una cultura metropolitana in decadenza, posso decidere di citare la Techno.

M.W. Non abbiamo accennato ancora che la musica folclorica italiana ha avuto un notevole influsso sulla Sua produzione.

G.G.: Si, molto. A un certo punto della mia vita ho sentito venir fuori questa cosa e mi sono chiesto perché. Evidentemente era anche una curiosità culturale di musica totale, ma mi sono ricordato che sono stato allevato da una balia emiliana che cullandomi mi cantava tutte le canzoni popolari dell'Emilia-Romagna. Allora sono entrate nel sangue e poi sono venute fuori.

M.W. Stranamente la musica folclorica italiana è poco conosciuta nel mondo. Si conoscono la musica lirica e qualche canzone tipo "O sole mio."

G.G.: Quando in America ho suonato la musica etnica italiana il pubblico si commuoveva...

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