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Tiziana Ghiglioni: trent'anni di carriera guardando avanti

Si può essere cantanti di jazz senza saper improvvisare ma francamente non vedo che divertimento ci sia
All About Jazz Italia: Tiziana, quest'intervista nasce per parlare del tuo presente ma anche per celebrare i trent'anni della tua attività artistica. Sei stata la prima jazz singer italiana di livello internazionale e ricordo ancora l'entusiasmo di Arrigo Polillo. Quando hai avuto la piena consapevolezza di questo traguardo?

Tiziana Ghiglioni: Sicuramente dopo alcuni anni. Avevo iniziato qualcosa avendo come riferimento solo le grandi figure dell'Olimpo americano del jazz e in realtà non sapevo bene dove andavo a parare. Quei primi anni di carriera furono un periodo di studio e ricerca che mi vedeva esplorare cose diverse. Avevo iniziato ascoltando Archie Shepp, l'incontro con Tania Maria mi aveva indirizzato su questa strada ma i primi studi di canto li ho svolti con Gabriella Ravazzi, che era un'insegnante lirica. Per l'album d'esordio avevo scelto pezzi di Ornette, Mingus, Monk e sono andata avanti su questa prospettiva. Devo dire che nel tempo non ho cambiato le mie direttive. Il lavoro su Tenco è stata una parentesi inaspettata anche se l'ho accettata volentieri, anticipando una tendenza verso la canzone d'autore italiana, che ha poi avuto ampi sviluppi.

AAJ: Molte canzone italiane sono diventate così degli standard...

T.G.: Secondo me non è stata una brutta idea. Forse funziona meglio dal punto di vista strumentale che non da quello vocale anche se ha aperto la strada a un sacco di gente che in realtà è più vicina alla musica leggera che al jazz...

AAJ: Poi di questo ne parliamo...

T.G.: Non voglio essere polemica ma preferirei fare un altro mestiere piuttosto di diventare una di quelle che "jazzeggiano" anche se capisco che è una tendenza internazionale incrementata dal marketing delle case discografiche per fini di vendita.

AAJ: Nel 2011 hai inciso due dischi molto belli: uno è Songs, realizzato in quintetto con Alberto Tacchini, comprendente vostre composizioni originali, e l'altro è Figli, nato per celebrare la figura di Federico Ceratti. Ne vogliamo parlare?

T.G.: Sono soddisfatta di entrambi ma amo in particolare Songs, che evidenzia il mio lungo rapporto musicale con Tacchini. Con Alberto ci siamo conosciuti alla fine degli anni ottanta al CPM di Milano dove s'era appena diplomato ai corsi di Franco D'Andrea. Poi abbiamo collaborato assieme nei corsi, lavorando dieci ore per tre giorni a settimana, ed è nata un'intesa proficua che s'è sviluppata negli anni con alterne vicende. Il titolo del disco è ironico in quanto i pezzi non sono proprio dei song. Sono brani strumentali con un testo e questa cosa per me rappresenta un punto d'arrivo.

AAJ: In che senso?

T.G.: Nel senso che ci ho messo molti anni a capire cosa m'interessava fare davvero e il pallino di scrivere i testi l'ho sempre avuto, ad esempio adattando la grande letteratura entro una cornice jazz come ho fatto in Streams. Certamente non è una cosa che ho inventato io. La vicinanza tra jazz e poesia risale a molto tempo fa ed ha esempi illustri come quelli legati alla Beat Generation ma oggi non sono cose molto battute e credo d'aver trovato un percorso abbastanza originale.

AAJ: E per quanto riguarda Figli?

T.G.: Non è stato un lavoro facile. Federico Ceratti aveva lasciato alcune registrazioni con le sue canzoni ma erano poco più di un abbozzo. Con Alberto Tacchini, che ha scritto gli arrangiamenti, e la collaborazioni di altri bravi musicisti abbiamo dato forma ai pezzi secondo la nostra sensibilità.

AAJ: I tuoi riferimenti espressivi sono mutati negli anni?

T.G.: Credo che il jazz sia legato ad una tradizione americana che io in qualche modo condivido e prediligo. Mi piacciono Jay Clayton, Sheila Jordan e il loro modo di fare musica improvvisata senza andare a finire nella musica contemporanea. Io rimango legata fortemente al jazz e alla sua matrice nera. È la mia storia e ci tengo a mantenerla perché trovo che ci siano ancora possibilità di sviluppo e ricerca.

AAJ: Hai lavorato con grandi pianisti statunitensi come Kenny Drew, Mal Waldron, Paul Bley. Con chi hai sentito maggior sintonia?

T.G.: Ho avuto un gran bel rapporto con tutti, forse perché non erano rapporti giornalieri, con quelle vicinanze di gruppo che portano sempre a piccoli diverbi. Quando ho collaborato con Kenny Drew ero molto giovane ed è successo forse troppo presto. Con Mal ho avuto il rapporto più duraturo mentre con Paul Bley è stato come guidare su un'autostrada libera. Ero andata a sentirlo al Tangram e, quando Vittorio Franchini ci presentò, Bley mi disse che ascoltava sempre una mia cassetta in macchina. Mi sembrava piuttosto improbabile e non ci feci troppo caso finchè lui iniziò a snocciolarmi i titoli del mio album con Kenny Drew, Sounds Of Love. Poi aggiunse: "Quand'è che facciamo un disco assieme?". Io risposi scherzando: "Domani mattina". E lui serio: "No, domattina non posso ma torno ai primi di marzo...". E così è stato. Ci siamo incontrati alle 10, io sono arrivata con una lista di brani, lui ha segnato quelli che preferiva, non mi ha neanche chiesto le tonalità e siamo andati avanti di getto, come se fosse stato un concerto dal vivo. Non mi ha neanche lasciato riascoltare i pezzi. Dopodichè sono andata a casa con una cassetta della session e l'ho ascoltata a mezzanotte.

AAJ: Da qualche tempo non ti abbiamo più visto in collaborazioni con musicisti americani. C'è una ragione precisa?

T.G.: Si. A un cento momento della mia carriera ho deciso di limitarle al massimo perché mi piace lavorare con un gruppo, progettando con i tempi giusti, fare le prove, pensare le cose con una certa calma.

AAJ: Nelle scorse settimane hai varato un nuovo progetto debuttando in concerto a Milano, ce ne vuoi parlare?

T.G.: È un trio formato da voce, chitarra e violino che mi vede assieme a Simone Massaron ed Emanuele Parrini. Sono anni che collaboriamo e la relazione si sviluppa con molta naturalezza. Abbiamo debuttato al Teatro Ariberto il 16 marzo trovando una splendida accoglienza di pubblico e stiamo cercando qualche promoter che sostenga il progetto anche perchè l'organico è agile e quindi non ci serve un pianoforte. Il repertorio è formato da originals e da pezzi di Pat Metheny, Ornette, Bill Frisell, Mal Waldron e altre cose, come un brano di Tom Waits. Simone ed Emanuele sono bravissimi; con loro ho trovato l'ambientazione ideale per esprimere il mio lavoro di questi anni sulle sfumature delle strumento voce.

AAJ: Chi apprezzi tra le le cantanti di jazz contemporanee?

T.G.: Credo proprio che Cassandra Wilson sia l'erede delle grandi jazz singer americane: ha un bellissimo timbro, una bella base di musica d'avanguardia alle spalle e il suo recupero del blues è originale. Per il resto della scena vocale faccio un po' fatica a trovare cose creative...

AAJ: Cosa dici della moltitudine di giovani cantanti che "jazzeggiano," come dici tu?

T.G.: Mah, non dico. Sono carine e alcune anche brave, come Norah Jones o Esperanza Spalding, ma nel complesso hanno a che fare con un struttura di mercato, più attenta alla vendita dei dischi che all'arte. È vero che c'è sempre stata nel jazz la tendenza ad ampliare la prospettiva verso la musica leggera ma è una questione di limiti e di buon gusto. Anche il mio progetto su Luigi Tenco può essere visto sotto questa luce, e per qualche anno ha funzionato, ma a un certo punto mi hano invitata al festival di Sanremo e allora sono scappata. Ho capito che sarebbe stato difficile tornare indietro, io ho sempre voluto fare la cantante di jazz non quella di musica leggera.

AAJ: Ho apprezzato molto la tua collaborazione con Renato Sellani. È stato difficile calarsi in canzoni d'anteguerra come "Tu musica divina" o "Anema e core"?

T.G.: No, per niente. Sono canzoni che ho nel sangue, che sentivo cantare in casa quand'ero bambina. Quando abbiamo pensato al repertorio io ho scelto quelle che piacevano a mia nonna, ai miei zii, quella che sapevo era la canzone di mio padre e mia madre... C'è poi "Domenica è sempre domenica" perché la domenica mattina era sempre trasmessa in radio e m'è rimasta nel cuore. Per noi italiani quelle canzoni sono come "Night And Day" per gli americani. Lavorare con Sellani - abbiamo inciso tre dischi in due giorni - è stato un piacere perchè lui è un maestro nel prendere un brano qualsiasi e farlo diventare una piccola gemma, colorando sempre la musica con raffinatezza. Inoltre è un persona riservata e piacevole, un musicista di gran classe.

AAJ: Ci sono dischi della storia del jazz che ascolti anche oggi e sono ancora fonte d'emozioni?

T.G.: Stranamente ascolto più musica strumentale che vocale. Ascolto sempre Bill Evans, ascolto molto Sun Ra, in Ornette trovo sempre delle novità e Duke Ellington resta una fonte inesauribile. Miles mi piace sempre ma non mi fermo ai classici. Ascolto anche le novità, stranieri ed italiani...io sono una di quella che va ne negozi di libri e dischi usati e trovo sempre cose splendide... ad esempio uno dei primi dischi di Paul Bley, quando aveva vent'anni, al prezzo di sei euro. Mi piacciono anche certe cose di jazz europeo ma non impazzisco.

AAJ: Quanto conta la tecnica vocale nel jazz?

T.G.: Molto. Per me ha voluto dire molto e vorrebbe dire molto ancora, perché un'insegnante seria ti aiuta a usare la voce nel modo più opportuno. Io sono ricordata per il pionierismo della voce jazz in Italia ma vorrei esserlo soprattutto per il mio taglio di voce, una cosa che io ho coltivato molto, anche se non ho un timbro particolare. Le doti ritmiche e improvvisative le ho acquisite nel tempo con lo studio... ora mia figlia s'è messa a cantare, fa la cantante di jazz tanto quanto sua madre. E fa delle cose assolutamente difficili, pezzi di Wayne Shorter e Maria Schneider... studiava filosofia ma ha cambiato strada, deve aver sentito il richiamo della foresta. Essendo figlia mia e di Stefano (Battaglia n.d.r.) certe cose le ha sempre ascoltate. Ha già inciso un disco di standard per la Philology accompagnata da Renato Sellani, Luciano Milanese e Stefano Bagnoli.

AAJ: Qual'è il ruolo, secondo te, più efficace di un cantante jazz all'interno di una formazione?

T.G.: Credo che Norma Winstone, quando era con Kenny Wheeler e John Taylor, sia stata un esempio significativo. Il suo ruolo si svolgeva all'interno di un discorso musicale ed è questo che bisogna cercare; un taglio di discorso musicale che avvicini il modo di usare la voce di un cantante al modo di suonare degli strumentisti. Mettere una voce a livello otto su una base musicale non è quello che conta ma piuttosto tessere una trama di discorso con gli altri musicisti e mantenerla per anni. Il trio con Massaron e Parrini, ad esempio, nasce da una lunga frequentazione musicali e alla fine ci si capisce al volo. Nella musica improvvista questo è essenziale.

AAJ: Quali sono i consigli che dai ai tuoi allievi? Ovvero le cose per te fondamentali che un cantante jazz deve apprendere?

T.G.: Come dicevo, è fondamentale avere la padronanza dello strumento vocale, che s'acquisisce provando tantissimo con gli altri fino a sviluppare una capacità d'ascolto fulminante. Questo è essenziale per poter improvvisare. Forse si può essere cantanti di jazz senza saper improvvisare ma francamente non vedo che divertimento ci sia. Infine bisogna rendersi conto che il ruolo del cantante nel jazz è comunque di secondo piano. Chi porta avanti il linguaggio del jazz sono gli strumentisti e un cantante può crescere solo in contatto con loro.

AAJ: Hai allievi che ti hanno dato soddisfazioni?

T.G.: Si, una davvero brava è Simona Severini e sta andando bene. Ha inciso due ottimi dischi e realizzato un significativo progetto su Fauré.

Foto di Sergio Cimmino (la prima), Giorgio Alto (la terza) e Claudio Casanova (tutte le altre).

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