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Susie Ibarra Trio

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Area Sismica - Forlì - 24.03.2007

Il Susie Ibarra Trio, con Craig Taborn e Jennifer Choi, è attivo dal 2000 ed è pertanto una formazione ampiamente consolidata.

Tutti e tre i componenti del gruppo vantano una solida preparazione musicale accademica, sono fra i protagonisti di spicco del jazz attuale e della nuova musica in ambiente newyorkese, e hanno un curriculum che - spinto dalla loro insaziabile passione e curiosità per ogni forma di espressione musicale - spazia un po’ in tutti i campi e in tutte le direzioni, dall’elettronica, alla musica tradizionale ed etnica del sud-est asiatico.

Da tutta questa pluralità d’interessi e ambiti musicali che i musicisti si portano nel loro bagaglio di esperienze, ci si sarebbe potuti attendere (o temere, a seconda dei punti di vista) un concerto e una musica piena di sfaccettature eterogenee, d’influenze multiformi, ma col rischio della mancanza di un’identità precisa, di un centro unificante, e di un senso dell’equilibrio e delle proporzioni fra le diverse componenti.

Ciò che è scaturito da questo incontro, al contrario, è stato proprio un concerto all’insegna della misura e dell’equilibrio, oserei dire della grazia.

Una grazia che emana pienamente dall’approccio percussivo della Ibarra: il suo tocco è preciso, ma c’è un che di ovattato nel suo suono, una morbidezza del gesto: fa uso soprattutto delle pelli del drum-kit, che donano alle sue figurazioni ritmiche un andamento rotolante. C’è anche una certa insistenza sui tom più gravi e sul timpano, quasi un’evocazione dell’elemento terra, della dimensione primordiale dell’espressione musicale (sia pur filtrata attraverso una perfetta padronanza tecnica e una sensibilità post-moderna), degli ensemble di percussioni etniche che fanno parte del suo bagaglio musicale e culturale; e c’è sempre un gusto per l’equilibrio, la proporzione e l’armonia a guidare il tutto.

Anche i temi melodici dei brani proposti sembrano rispecchiare questa scelta stilistica: sembrano ricercare una semplicità quasi primordiale, l’ingenuità della purezza; al posto delle involuzioni intellettualistiche (più o meno esibite e compiaciute) che spesso caratterizzano le composizioni dell’avanguardia, si basano su piccole e condensate cellule melodiche, cariche di ispirazione emotiva, che arrivano all’ascoltatore senza bisogno di tante mediazioni mentali. Ciò nonostante non rinunciano a una dimensione di vaghezza e sospensione che allontana il rischio della banalità e della scontatezza, e che impedisce di farle ricadere in uno degli stereotipi stilistici cristallizzati (ethno-jazz, world music ecc.).

Taborn e la Choi non mancano di fare apprezzare le loro grandi capacità d’inventiva solistica nelle digressioni improvvisative che si aprono all’interno dei brani, ma sembra che la ricerca e il rispetto dell’equilibrio siano la preoccupazione primaria e comune di questo progetto: l’apporto del singolo è necessario per ampliare l’orizzonte della creazione collettiva, fornirle un contributo di unicità e mantenerla viva e in movimento; ma sembra che si vogliano evitare fughe troppo individualistiche e incentrate sul singolo, che rischierebbero appunto di snaturare la misura e l’armonia generale del suono.

Vengono comunque concessi due brani in solo alla violinista e al pianista. Quello dedicato alla Choi si avvale di discreti suoni di sottofondo, costituiti essenzialmente da field recordings, soprattutto suoni naturali e canti di uccelli. Qui la violinista dà sfoggio dell’ampiezza e completezza del suo vocabolario musicale, oltre che della sua tecnica, giustapponendo e miscelando stilemi etnici e concezioni armonico-melodiche prettamente classico-contemporanee, con grande naturalezza, continuità d’ispirazione e senza forzature.

Il pezzo in solo di Taborn, curiosamente, sembra in un certo senso applicare al piano acustico alcuni stratagemmi e stilemi che ha utilizzato di recente nei suoi lavori più densi di elettronica (in particolare Junk Magic): anziché sviluppare un’improvvisazione ricca di stratificazioni armoniche e di note fluenti, come fa di solito nei contesti acustici, ha insistito su brevi cellule e frasi melodiche circolari e ripetitive, variamente ampliate e rielaborate, ma che sono rimaste il tappeto costante del brano, conferendogli una fisionomia fortemente ipnotica. Si può dire in un certo senso che Taborn abbia intelligentemente sfruttato a fini espressivi le limitazioni oggettive che gli venivano dal trasporre sul pianoforte acustico le modalità di lavoro e di costruzione dell’architettura sonora che utilizza in ambito elettronico (per es. l’impossibilità di creare una struttura di loop mediante la sovrapposizione multitraccia su laptop...). La sensazione di “svuotamento” che ne è derivata ha contribuito in definitiva a quell’effetto di essenzialità e di parco equilibrio complessivo che è sembrata la cifra stilistica generale del trio.

Forse, l’essere tutti e tre i musicisti il prodotto di una fusione fra cultura (musicale) americana e culture “altre” è un dato biografico e strutturale che ha, se non altro, favorito questo tipo di approccio alla musica e al suono e l’ha reso credibile e vincente.

Foto di Claudio Casanova. Ulteriori immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini

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