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Suoni (e parole) di un decennio nato settimino – seconda parte
ByNeppure la Germania, in quanto a gruppi capaci di imporsi a livello internazionale, sta a guardare. Gli Amon Düül sono i primi, allorché, verso il 1972, iniziano a circolare Phallus Dei (uscito nel 1969) e Yeti (1970). Espressione di una comune, il gruppo varia nel tempo formazioni e, talora, approccio creativo, mantenendo peraltro, nelle sue prove migliori, un occhio proteso in avanti, fra rock e sperimentazione tout court. Nel 1970 si formano anche i Kraftwerk, che tuttavia imprimono la sterzata elettronica di cui sono i riconosciuti vessilliferi (nonché pionieri) a partire dal '73, giungendo a una prima rilevante affermazione a cavallo fra 1974 e '75, così come i Tangerine Dream (Phaedra, 1974), al crocevia fra post-psichedelia e - a loro volta - ampio ricorso all'elettronica. In Italia, per contro, le cose non stanno ancora in questi termini, anche se il progressive si afferma rapidamente, imponendo gruppi vecchi e nuovi. Fra i primi, una dimensione inedita assumono fin dal 1971 due vecchie conoscenze del beat appena precedente: Le Orme, con Collage (e subito a seguire Uomo di pezza), e i New Trolls, col celebre Concerto grosso. All'inizio dell'anno seguente escono invece due lavori destinati a ribaltare la fisionomia complessistica nostrana: Storia di un minuto della Premiata Forneria Marconi e il celebre "salvadanaio" del Banco del Mutuo Soccorso. Parallelamente, si affaccia sulla scena una colorata fauna di nuovi gruppi: i Delirium di Ivano Fossati (che peraltro ne uscirà presto) con Dolce acqua, gli Osanna (L'uomo, Preludio, tema, variazioni, canzona e Palepoli, tutti entro il '73), e poi ancora Quella Vecchia Locanda, Balletto di Bronzo, Rovescio della Medaglia, ecc. [Nota 1].
Il 1972 è anche l'anno in cui nasce la formazione probabilmente più significativa del progressive nostrano, nel caso specifico massicciamente imbevuto di suggestioni jazzistiche (e qui non possiamo non citare, in parallelo, il Perigeo di Giovanni Tommaso) e cantautoriali. Stiamo parlando degli Area, realtà, rispetto alle precedenti, senz'altro più "militante," come già, pur lungo altri itinerari, gli Stormy Six, attivi fin da metà anni Sessanta, con vari rimpasti di organico (vi passa anche quel Claudio Rocchi che, autonomamente, realizza nel '70/71 due lavori di rilievo quali Il viaggio e Volo magico n. 1, prima di intrupparsi negli "arancioni" di Hare Krishna). Degli Area, comunque, fa parte fin dall'inizio Demetrio Stratos, figura per più versi paradigmatica (in fondo proprio per la sua anomalia, nonché - come vedremo - per la sua stessa fine) di questi anni creativamente voraci e ricchi di fermenti. Greco di passaporto, egiziano di nascita e italiano d'adozione, artista poliedrico quanto coerente e ricercatore instancabile, da sempre attratto dalla vocalità pura, in parallelo alla militanza negli Area Stratos abbraccia ben presto una sperimentazione "assoluta," accostando la contemporaneità colta e venendo a interagire con musicisti dei versanti più disparati (da John Cage a Steve Lacy). Il suo, del resto, via via si precisa sempre più come un percorso essenzialmente individuale, verso la congiunzione assoluta con l'elemento phoné (tiene spesso concerti per voce sola). Fra i suoi album, vanno ricordati almeno Metrodora, del 1976, e Cantare la voce, del '78, poco prima che il filo si spezzi.
L'Europa del jazz si emancipa
Ma di questo parleremo a suo tempo. Per ora riprendiamo qualche filo pendente, tornando per un attimo all'Inghilterra, dove fra elettronica (specie agli inizi) e infiltrazioni jazzistiche si muovono i Soft Machine, gruppo di punta della cosiddetta "scuola di Canterbury". Formatosi nel 1966 attorno al tastierista Mike Ratledge e al batterista (e cantante) Robert Wyatt, un paio d'anni dopo il quartetto viene rinforzato - come mente pensante - dal bassista Hugh Hopper. Sono loro che danno all'ensemble la spinta decisa verso una sperimentazione senza frontiere, fra psichedelia, grumosi fondali elettronici, vocalità a volte beffarda (simil-zappiana, per certi versi) e, con l'ingresso dei sassofoni di Elton Dean, new jazz. E' questo l'humus che, dal '70 al '72, innerva il trittico di album-chiave della parabola creativa della "Macchina morbida" (dal titolo di un romanzo di Burroughs), Third, doppio LP di soli quattro brani, uno per facciata, Fourth, che ospita i fiati di Marc Charig, Nick Evans e Alan Skidmore e il contrabbasso di Roy Babbington, e Fifth, senza Wyatt, che, non del tutto convinto del nuovo indirizzo del gruppo, forma Matching Mole, appunto con l'intento di recuperare i tracciati primari dei Soft Machine (si noti, al proposito, l'omofonia col francese machine molle, cioè - appunto - macchina molle). In Six (1973), Ratledge e Hopper proseguono con Karl Jenkins (sostituto di Dean) e John Marshall alla batteria; in Seven ('74) anche Hopper esce, rimpiazzato da Babbington (e poi lo stesso Jenkins da Skidmore), col gruppo inserito ormai capillarmente in quel filone fusion che, sulla falsariga e in parallelo con Davis e seguaci, sposa jazz ed elettricità.
Qui il discorso si complica. E s'infittisce. Diversi membri delle varie Soft Machines bazzicano infatti altri gruppi e altri contesti, più o meno stilisticamente affini, a iniziare, come abbiamo visto, dagli stessi King Crimson, collante insostituibile fra universi in fondo paralleli. E' il caso dei Nucleus del trombettista Ian Carr (Solar Plexus, 1971; Belladonna, 1972), nonché dei gruppi del vari Keith Tippett, Mike Westbrook, Chris McGregor, tutti e tre mossi da ambizioni orchestrali. Così Tippett, oltre ad ensemble meno nutriti, nel '71 mette insieme una "truppa" di oltre cinquanta musicisti - Centipede, non a caso - che incide l'epocale Septober Energy, per poi proseguire l'attività; così Westbrook gli risponde con Metropolis (altri suoi album degni di nota del periodo sono Love Songs, del '70, e Citadel/Room 315, del '74); così McGregor, uomo-simbolo di quella colonia sudafricana che alimenta da par suo il british jazz dell'epoca, dà vita ai gloriosi Brotherhood of Breath. Lì dentro si muove un autentico esercito di notevoli strumentisti che, volendo sintetizzare, oltre a quasi tutti quanti i citati in questi ultimi capoversi, annovera anche i trombettisti Kenny Wheeler (canadese, che meriterebbe una trattazione a sé), Harold Beckett (antillano), Henry Lowther e Mongesi Feza, i trombonisti Malcolm Griffiths e Paul Rutherford, i sassofonisti (per lo più multistrumentisti) Brian Smith, Mike Osborne, John Surman, Dudu Pukwana e Gary Windo, i tastieristi Gordon Beck, Dave McRae e John Taylor, i chitarristi Allan Holdsworth e Gary Boyle, i bassisti Harry Miller e Johnny Dyani (entrambi sudafricani, come Feza, Windo, Pukwana e il batterista Louis Moholo), le voci Julie Driscoll Tippetts, Norma Winstone, Maggie Nicols e Phil Minton.
Fra tutti i menzionati (ma inglesi sono anche Dave Holland e il già citato McLaughlin, ormai transfughi negli States alla corte di Miles Davis, e poi a loro volta brillanti leader), John Surman in particolare c'introduce alla tappa successiva, che verte sul nuovo jazz europeo, proprio negli anni Settanta (anzi dai tardi Sessanta) in grado di emanciparsi dall'imperante (e un po' ingombrante) modello a stelle e strisce. In qualche modo come già, fin dagli anni Trenta, il geniale chitarrista gitano Django Reinhardt in coppia col violinista Stephane Grappelli, Surman immette sul ceppo afroamericano, comunque presente, elementi tratti dalla tradizioni della propria terra, non disdegnando neppure rimandi di sponda classica. In ciò senz'altro favorito da un massiccio polistrumentismo, l'inglese ha nel francese Michel Portal un ideale frère d'adoption, l'uno più solenne (ma arguto), bucolico e pastorale, molto attratto dall'elettronica, l'altro più umorale, talora caustico, antigrazioso; entrambi attraversati da un lirismo e una danzabilità palpabili. I due, nel '70, incidono assieme Alors. Separatamente, Surman inizia il decennio in seno al glorioso The Trio, in cui, su tracciati più squisitamente jazzistici, gli sono compagni i transfughi americani Barre Phillips e Stu Martin, dopo di che, nel '72, registra il primo di una lunga serie di notevoli album solitari (in sovraincisione, ovviamente), Westering Home (il secondo, Upon Reflection, del '79, da noi sarà Premio della Critica Discografica), e nel '73 vara, con i colleghi Osborne e Skidmore, il primo gruppo in assoluto di soli sassofoni, SOS, che nel '75, poco prima di sciogliersi, incide il suo unico album (omonimo). Artista proteiforme (è ottimo interprete classico e affianca a clarinetti e sassofoni il bandoneon del tango), mercuriale, Portal guida per parte sua lo Unit, in cui raccoglie alcuni dei più bei nomi del nuovo jazz francese (Bernard Vitet, Beb Guérin, Pierre Favre, in verità svizzero, ecc.), con cui nel '72 incide per esempio uno scoppiettante Live at Chateauvallon, mentre nel '79 realizza il suo probabile capolavoro, Dejarme Solo!, proprio come Surman in totale solitudine (e overdubbing).
Non poco del nuovo jazz europeo passa, come già quello specificatamente inglese, per una serie di orchestre/laboratorio: sempre in Inghilterra, ma su un côté più vicino a una sperimentazione di marca free, agisce la London Jazz Composers Orchestra del bassista Barry Guy, in Germania la Globe Unity del pianista Alex von Schlippenbach, ancor più spinta in avanti (un suo disco del 1977, Improvisations, verte tutto attorno a un'improvvisazione collettiva e massicciamente cacofonica), in Olanda la ICP Orchestra di Misha Mengelberg (esule russo) e Han Bennink, rispettivamente pianista e batterista, e il Willem Breuker Kollektief. A parte quest'ultimo, un organico a sé stante che ha il merito di proporre, in anni piuttosto burrascosi, l'occhio divertito, talora quasi cabarettistico, dell'happening, tra le altre formazioni non mancano i travasi: il trombettista Manfred Schoof, i trombonisti Albert Mangelsdorff, Radu Malfatti, Connie Bauer e Günter Christmann, i sassofonisti Evan Parker, Lol Coxhill, Peter Brötzmann, Gerd Dudek, Gunter Hampel, Ernst-Ludwig Petrowsky, Rüdiger Carl, oltre agli americani Steve Lacy (trapiantato a Parigi dal '69) e Anthony Braxton, il chitarrista Derek Bailey, il cellista Tristan Honsinger, il bassista Peter Kowald, i batteristi Paul Lytton e Paul Lovens, oltre ad alcuni degli inglesi citati poc'anzi, sono tra i frequentatori più assidui dei diversi organici. Mangelsdorff, Parker, Bailey e Brötzmann, quanto meno, sono poi, per proprio conto, tra i principali artefici di questo rinascimento europeo in chiave jazzistica, col polacco Tomasz Stanko, il tedesco Joachim Kühn, il norvegese Jan Garbarek (su altre latitudini) e tanti altri (italiani esclusi: ne diremo poi) cui sarebbe troppo lungo anche solo accennare. Aggiungiamo almeno che a fine decennio, grazie a Leo Feigin, russo esule a Londra (dove nel '79 fonda la Leo Records, tuttora attiva), iniziano a circolare i primi nomi di jazzisti d'oltre cortina, i vari Ganelin Trio, Sergey Kuryokhin, Anatoly Vapirov, ecc.
Gli USA fra diaspora davisiana, scuola di Chicago e ritorno all'Africa
Passando l'Atlantico, sempre molto per sommi capi, negli Stati Uniti troviamo una situazione in rapida - e abbastanza centrifuga - evoluzione. Alla rivoluzione davisiana e sue conseguenze abbiamo accennato: dopo Bitches Brew, il grande trombettista inanella una serie di album (e di performance) che se da un lato ne ampliano il plafond di fruitori, dall'altro sono per lo più stigmatizzati dalla critica, che legge spesso nella sua svolta elettrica - appunto - intenti meramente commerciali. Davis, sia quel che sia, nel '75 si ritira dalle scene, per farvi ritorno solo nel decennio seguente. Tra i giovani di belle (e spesso mantenute) speranze, quello che più si stacca dall'ovile è senz'altro Keith Jarrett (in parte lo stesso Chick Corea, che accanto al Return to Forever abbraccia esperienze di diverso tenore, a iniziare dal notevole Circle, con Braxton, Holland e Barry Altschul, che nel '71 incide il doppio Paris Concert). Nei Seventies, il pianista di Allentown, non ancora piombato nel neoclassicismo dei decenni a venire, dirige simultaneamente due quartetti speculari (sax, piano, basso e batteria), uno americano, con Dewey Redman, Charlie Haden e Paul Motian (cui talora si aggiunge un percussionista), e uno europeo, con gli scandinavi Jan Garbarek, Palle Danielsson e Jon Christensen. Fra i dischi del primo (in cui Jarrett suona regolarmente anche il sax soprano), ricordiamo Expectations, articolato doppio LP del '71 in cui compaiono anche chitarra e sezioni d'archi e ottoni, Forth Jawuh (1973) e Bop-Be ('77); del secondo almeno l'iniziale Belonging, del 1974). A tali titoli, vanno aggiunti come minimo i solitari Facing You ('71) e The Köln Concert ('75, fortunatissimo) e Ruta and Daitya ('72), in duo con Jack DeJohnette (che sarà poi nel celebratissimo Standards Trio, il cui antefatto data già 1977, con l'LP Tales Of Another, a nome di Gary Peacock).
A sua volta pianista di uno dei leader più carismatici del nuovo jazz, nel suo caso John Coltrane, dopo anni un po' nebulosi seguiti all'uscita dal leggendario quartetto (fine '65) anche McCoy Tyner inizia ad abbeverare il suo pan-modalismo a nuove fonti, africaneggianti (fenomeno su cui torneremo), in Sahara (1972) e soprattutto - per gli esiti ottenuti - nel doppio live (a Montreux '73) Enlightenment, finendo per scivolare poi in un neomanierismo da cui non è più uscito. Se Coltrane è scomparso nel '67 e Davis passa anni tribolati, l'altro leader maximo del jazz anni Sessanta, Ornette Coleman, sbarca a sua volta sul pianeta elettrico, dapprima con Science Fiction (1971), quindi formando il Prime Time, che gli regalerà (s)favori critici analoghi a quelli toccati al trombettista. E trombettista (della prima ora colemaniana) è lo stesso Don Cherry, che ormai si vede poco accanto a Ornette (proprio in Science Fiction, per esempio), preferendo vie personali (ciò fin dai tardi anni Sessanta, in opere di notevole spessore quali Eternal Rhythm e Mu) che mischiano jazz, Africa e folklore del mondo intero (se la famigerata world music ha dei padri nobili, Cherry è certo fra questi). Album quali Relativity Suite (1973) e il primo Codona (1978) del trio omonimo, che vede la sua trombetta tascabile, i suoi flautini e tutti i suoi ninnoli colorati accanto al sitar di Collin Walcott e alle percussioni aromatiche di Nanà Vasconcelos (già con Gato Barbieri). In Old and New Dreams, infine, Cherry ritrova, a cavallo fra anni Settanta e Ottanta, i vecchi partner (colemaniani) Dewey Redman, Charlie Haden e Ed Blackwell.
Haden, bassista dal lirismo scuro e lacerato, è un altro protagonista del decennio, di cui incarna fra l'altro le diffuse implicazioni extramusicali. Ciò soprattutto con la Liberation Music Orchestra (l'omonimo, leggendario album del '69 recupera i canti della guerra civile di Spagna), che s'incrocia con la Jazz Composer's Orchestra e con le sue due anime, Carla Bley e Mike Mantler. E anche qui siamo di fronte ad autentiche orchestre/laboratorio nelle cui fila passano molti dei più bei nomi dell'avanguardia jazzistica: Cherry (che qui realizza la citata Relativity Suite), Redman, Barbieri, Roswell Rudd (Numatik Swing Band), Perry Robinson, Jack Bruce (sì, quello dei Cream), Paul Motian, Howard Johnson, Leroy Jenkins, il nostro Rava (del resto coinvolto anche nella Globe Unity), Clifford Thornton, Grachan Moncur III, e una moltitudine di altri. Summa di tutto ciò è in primo luogo il triplo Escalator Over the Hill, del 1971.
L'altro grande ceppo è quello chicagoano, riunito fin dal '65 attorno all'AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians) e a figure quali Muhal (cioè il primo, il capo) Richard Abrams, Roscoe Mitchell, Leo Smith, Henry Threadgill, Anthony Braxton, Leroy Jenkins, Lester Bowie, Joseph Jarman, Malachi Favors. Da qui nasce anzitutto l'Art Ensemble of Chicago, ma anche il Revolutionary Ensemble, l'Ethnic Heritage Ensemble, ecc. L'AEOC, in particolare, è tra i protagonisti di quella sorta di diaspora che nell'estate '69 porta a Parigi (per alcuni con passaggio anche dal Festival Panafricano di Algeri) molti dei più bei nomi della seconda generazione free (ma anche della prima, se è per questo, partendo da Archie Shepp, che vi fissa uno dei suoi capolavori, Blasé, cui seguiranno, fra gli altri, Attica Blues nel '72, i due volumi da Montreux '75, e Force, duo con Max Roach dell'anno seguente, e poi ancora Jimmy Lyons, Sonny Murray, Alan Silva, Paul Bley, ecc.), i quali incidono copiosamente (specie su etichetta Byg Actuel, benemerita) e spesso decidono di fermarsi per un po,' agendo da molla fondamentale per la presa di coscienza delle nuove istanze jazzistiche (non ultima quella componente teatrale e rituale di cui proprio l'Art Ensemble, in un anelito di ricongiungimento con la tribalità primigenia africana, è maestro indiscusso) da parte dei colleghi europei. L'AEOC è comunque la band "a partecipazione collettiva" più illustre del decennio, come testimoniano album quali Les Stances à Sophie (1970), soundtrack dell'omonimo film di Moshe Mizrahi, Fanfare for the Warriors ('73) e Nice Guys ('78), soprattutto. In seno al gruppo convivono peraltro personalità alquanto eterogenee (ma evidentemente complementari), quali in particolare Lester Bowie, il cui festoso ritualismo confluirà più tardi nella Brass Fantasy, e Roscoe Mitchell, per contro assai cerebrale, concettuale, in quel suo indugiare attorno a snodi tortuosi, scabri, anticonsolatori. Emblematico di tale percorso, esemplare, è il doppio Nonaah (1976/77), opera tutta ruotante attorno al sax contralto a tratti quasi crudele, condotta in solo, duo, trio e quartetto (di tutti sax alti, per l'appunto).
Di luce assolutamente propria brilla poi Anthony Braxton, uomo-simbolo - se ce n'è uno - del decennio. Partito anch'egli dal sax alto solo (fin dal 1968, con frequenti riprese successive), Braxton è in realtà - come Mitchell - un vorace multistrumentista dalle atouts ispirative pressoché illimitate, e conseguentemente elefantiaco dispensatore di incisioni, organici e progetti vari. Nel decennio in questione, realizza, fra i molti, album quali New York, Fall 1974, in cui per la prima volta si ascolta quello che sarà il nucleo del futuro World Saxophone Quartet, For Trio (1977), in cui la formula - nello specifico ridotta di un'unità - trova sviluppi ancor più larghi e radicali [Nota 2], e poi ancora i due album-chiave (1975/76) del quartetto che (col veterano Kenny Wheeler o il giovane trombonista George Lewis, a sua volta chicagoano) ne segnerà a lungo l'iter creativo, vale a dire Five Pieces e il doppio live The Montreux Berlin Concerts. Senza dimenticare le svariate prove - ancora una volta - solitarie e, per contro, orchestrali (anche multiple, come nel faraonico For Four Orchestras, del 1978), nonché gli svariati duetti, con Abrams, Lewis, soprattutto Max Roach (Birth and Rebirth, in studio, del 1978, e One In Two - Two In One, live del '79).
Detto che il succitato World Saxophone Quartet si costituisce ufficialmente nel 1977, col poco più che ventenne Dave Murray in luogo di Braxton (gli altri sono Julius Hemphill, vera mente del quartetto [Nota 3], Oliver Lake e Hamiett Bluiett, uscito dai gruppi mingusiani), col contraltare bianco (e californiano) Rova, e che inizia a farsi sempre più nitida la stella Steve Lacy, che attraverso lavori quali i solitari Lapis (1971) e Straws ('76), Saxophone Special ('74), in cui si misura a sua volta (in "Sops") col quartetto only saxes (nello specifico soprani), Trickles, in cui ritrova Roswell Rudd, e Trio Live, col nostro Andrea Centazzo e Kent Carter, entrambi ancora del '76, si affaccia su quegli anni Ottanta di cui sarà un po' l'uomo-simbolo, resta da spendere qualche parola su un'altra figura-chiave del decennio di cui ci stiamo occupando. Si tratta ancora di un polistrumentista, Sam Rivers, pontefice massimo del cosiddetto loft jazz, il quale giunge alla notorietà ormai cinquantenne, visto un po' come l'uomo capace di far quadrare il cerchio, in quel suo recuperare l'esperienza afroamericana nella sua globalità. Ci sono le intemperanze del free, certo, da cui Rivers proviene (ha suonato fra gli altri con Cecil Taylor), però stemperate in un lirismo palpabile, poggiante su un beat quasi danzante, certo defaticante, e c'è quell'anelito al ricongiungimento con la Grande Madre Africa che all'epoca seduce non pochi jazzmen (a iniziare da quel Dollar Brand che del resto arriva dal Sudafrica, e che in quegli stessi anni s'impone con LP quali i solitari African Piano e Ancient Africa e l'orchestrale African Space Program, in cui figura anche il nostro Enrico Rava) e che in lui assume i contorni di una tribalità quasi solenne, espressa anzitutto nei brani al flauto, cui alterna vocalizzi fra l'urlo, la nenia e il lamento. Su flauto, appunto, e poi sax tenore, soprano e piano, si snocciolano le sue performance, veri e propri riti collettivi di grosso impatto. E' non a caso un album live (a Montreux '73), Streams, a dare la stura alla sua grande (e forse solo troppo breve) stagione, corroborata via via da altri pezzi da novanta quali The Quest, del trio (con Dave Holland e Barry Altshul) trionfatore a Bergamo nel marzo '76, e i tre Essence di quel Tuba Trio che, appunto con una tuba al posto del basso a corde, lo accompagna, sempre nel '76 (luglio), nelle memorabili esibizioni a Umbria Jazz (Perugia e Villalago) documentate su altrettanti LP doppi.
"Orfani del rock" e nuovo jazz italiano
E' il periodo in cui il jazz, come momento aggregativo, è entrato nel cuore (in maniera talora un po' posticcia, in verità) dei cosiddetti "orfani del rock" [Nota 4],frustrati dal brusco veto posto ai loro festival di settore. Sono infatti gli anni dei cosiddetti "autoriduttori," che allo slogan "la musica è nostra" rivendicano ingressi gratuiti ai concerti (i cui biglietti, preventivamente, sono spesso ridotti in modo drastico, ma non basta), pena veementi contestazioni e atti d'intemperanza varia. Sono gli anni di Villa Pamphili e Parco Lambro, le Woodstock nostrane, di tutta una serie di situazioni che inducono chi può, per le famigerate "ragioni di ordine pubblico," a vietare i grandi raduni rock. Rimane il jazz, appunto, dove ora si riversano frotte di nuovi adepti. Il clima, peraltro, è quello. Morale: anche Umbria Jazz, dopo l'edizione '78, chiude per un po' i battenti (riprenderà nell'82, su tutt'altre coordinate). Dal '73, quando è nata, la rassegna ha comunque avuto modo di ospitare alcuni dei più grandi jazzisti in attività, figure ormai storiche (Hampton, Basie, Blakey, Gillespie, Mulligan. Bill Evans...), alcuni dei padri del nuovo jazz (da Mingus, che si presenta con un gruppo nuovo di zecca, col ribollente sax tenore di George Adams e il fluente pianoforte di Don Pullen [Nota 5], a Carla Bley, da Jarrett a Sun Ra, fino al guru del pianismo free, Cecil Taylor, fresco di due sorprendenti album in solo, Indent e Silent Tongues, attraversati da scampoli di un lirismo quasi impensabile). Qualcuno degli "anziani" viene sonoramente contestato, talora si arriva a dargli senza mezzi termini del fascista (a Pescara, del resto, Woody Herman viene accolto al grido "Fanfani! Fanfani!").
Ci sono poi, pur sempre, i Festival dell'Unità, che nel nome di un'idea (un miraggio?) di "cultura popolare" mai risolta abbinano spesso i vari Gaslini, Schiano, Area, o i cantautori più schiettamente "politici" (Della Mea, Marini, Pietrangeli) con oleografiche, innocue orchestrine di liscio, realtà che tanti giovani hanno a sorpresa riscoperto (e sdoganato). Sono in buona parte quegli stessi giovani che, forti della loro divisa Ray-Ban/Lacoste/scarpe-a-punta, figli della buona borghesia ma anche di un proletariato ormai "svezzato" (anche economicamente), alle Politiche del '76 decreteranno lo storico sorpasso sfiorato del PCI sulla balena bianca DC. Gli stessi - molti, almeno - che vent'anni dopo, "avveduti" quarantenni, declineranno l'incipit dell'epopea berlusconiana. "Quando è moda è moda" e "Polli di allevamento" di Gaber sono del '78; "Il sociale" di Guccini addirittura dei primi Sessanta... [Nota 6].
Creativamente, sia pur tra non pochi equivoci, questi sono del resto anni fecondissimi. Il jazz italiano inizia a trovare una propria via; i suoi alfieri diventano piuttosto familiari al pubblico che affolla concerti e kermesse varie. I primi nomi da fare sono in tal senso quelli di Mario Schiano e Giorgio Gaslini. Il sassofonista napoletano (ormai romano d'adozione) è fin da metà anni Sessanta il padre riconosciuto del free jazz made in Italy (data 1966 la nascita del Gruppo Romano Free Jazz, con Marcello Melis e Franco Pecori) e ora si fa in qualche misura "chioccia" di una nuova generazione di musicisti prossimi al suo linguaggio. Senz'altro più composita la figura di Gaslini, che, pluridiplomato in conservatorio, fin dal '57, con "Tempo e relazione," ha sovrapposto idioma jazzistico e avanguardia accademica, non derogando mai da una ricerca assolutamente personale che ce lo fa vedere come una delle figure-chiave del jazz europeo tout court.
(2 - continua) [per leggere la terza parte clicca qui]
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1. Si noterà la nuova "linea" dei nomi, rigorosamente in italiano e decisamente omogenei fra loro, nonché anomali rispetto al recente passato. Ciò sta evidentemente a indicare una precisa volontà, anche programmatica, di "segnare" un nuovo territorio stilistico-espressivo. 2. Il disco, polistrumentalmente alquanto rocambolesco, vede di fatto all'opera due diversi trii, con Braxton affiancato ora (lato A) dalle due ance dell'AEOC, Mitchell e Jarman, ora (lato B) da Douglas Ewart e da quell'Henry Threadgill che all'epoca si distingue anche in seno al trio Air (con Fred Hopkins e Steve McCall: tutti chicagoani, dunque) e sarà poi tra le figure-guida del jazz a cavallo fra anni Ottanta e Novanta. 3. Fra i lavori in proprio più significativi del decennio, di Hemphill vanno ricordati almeno Roy Boyé, del 1977, e i duetti col violoncellista Abdul Wadud (Live in New York) e con lo stesso Oliver Lake (Buster Bee), rispettivamente del 1976 e '78. 4. La definizione è di Arrigo Polillo, direttore di "Musica Jazz" per tutto il decennio (in realtà dal '65 all'84), con ampi contrasti con quanti lo accusano di veterocultura e anacronismo. In realtà si tratta uno dei massimi scrittori di jazz. Il suo Stasera Jazz (Mondadori, 1978) ne è un eloquente dimostrazione. Sul jazz degli anni Settanta in senso lato, è invece imperdibile l'omonimo volume di Cerchiari, Piras, Gualberto e Piacentino edito nel 1980 da Gammalibri. 5. Con questo gruppo (più o meno allargato), Mingus ha inciso nel '73 Mingus Moves e l'anno dopo i due Changes. Del '77 è invece l'orchestrale Cumbia & Jazz Fusion, LP contenente sul lato A la suite omonima, di quasi mezz'ora, sul retro, poco più breve, la colonna sonora composta per Todo Modo di Elio Petri e rimasta poi inutilizzata. 6. Il brano specifico, col suo pendant "L'antisociale," esce nel '67 in Folk Beat n. 1, ma risale verosimilmente a vari anni prima, forse addirittura al '61. Recita fra l'altro: "la lotta delle classi sol mi va/ per far bella figura in società".
Foto di Philippe Coqueux (Portal), Guy Fonck (D.Cherry), Gerd Jordan (Braxton/Holland), Tom Marcello (Rivers/ Daley) e Bruno Bostica (Umbria Jazz 1975).
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