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Roland Kirk: un polistrumentista fra tradizione e rinnovamento.

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L'articolo che riproponiamo, per ricordare un protagonista del jazz oggi troppo trascurato, apparve sul mensile Musica Jazz nell'agosto 1987, in occasione del decennale della morte di Roland Kirk.

I giovani che si sono accostati al jazz negli anni Ottanta hanno avuto scarse occasioni per approfondire la musica di Rahsaan Roland Kirk. Dopo la sua morte infatti, avvenuta esattamente dieci anni fa, ben poco è stato scritto su di lui [Nota 1] e i suoi dischi, editi fin troppo copiosamente quando era in vita, sono andati via via scomparendo dal mercato. Eppure Kirk è stato un personaggio unico nella storia del jazz: strumentista originalissimo, proteso a conciliare una irrinunciabile aderenza alle radici della musica nero-americana ed una spiccata esigenza di rinnovamento, è stato un artista generoso e spontaneo, che ha sempre comunicato con estrema immediatezza il suo messaggio musicale ed umano e che forse è stato liquidato troppo frettolosamente dalla critica.

Ronald, questo era il suo vero nome di battesimo, venne al mondo a Columbus, nell'Ohio, il 7 agosto 1936. Cieco fin dalla nascita, studiò in una scuola statale per non vedenti e a 9 anni cominciò a suonare la tromba che, su consiglio medico, abbandonò presto per dedicarsi agli strumenti ad ancia. Dopo aver acquisito una certa dimestichezza, suonando fin dall'età di 11 anni in orchestrine studentesche di Rhythm & Blues, nel 1951 cominciò ad essere ingaggiato in orchestre professionali attive nel midwest, soprattutto in quella di Boyd Moore.

Significativa è la testimonianza del tenorista Frank Foster, che ha riferito di una fugace ed imprevista intromissione di Kirk fra i ranghi dell'orchestra di Count Basie, mentre questa si stava esibendo a El Paso nel 1953: già in quella occasione il diciassettenne Roland stupì gli altri musicisti e mandò in visibilio il pubblico suonando due sax contemporaneamente.

A parte il disco inciso nel 1956, che prenderemo in esame in seguito, ci mancano informazioni precise sulle sue esperienze professionali degli anni Cinquanta, ma l'aneddoto narrato da Foster e poche altre notizie ci fanno intuire che durante quel decennio, oltre a svolgere un'oscura attività, spesso di natura commerciale, nelle zone di provincia e prevalentemente nello stato natìo, egli ricercò tenacemente e con successo quella particolare tecnica strumentale, che lo avrebbe reso famoso negli anni successivi.

Introducing Roland Kirk, il disco che grazie all'interessamento di Ramsey Lewis riuscì ad incidere per la Cadet nel luglio 1960 dopo essersi trasferito a Chicago, ci mostra appunto uno strumentista ormai maturo stilisticamente e tecnicamente. Questo microsolco comunque, che ascoltato oggi risulta già paradigmatico di una visione musicale che Kirk svilupperà con coerenza fino alla morte, allora non mancò di suscitare polemiche fra gli esperti, contribuendo a lanciare il suo nome nel mondo del jazz statunitense.

Dopo aver inciso Kirk's Works per la Prestige, si legò a contratto con la Mercury, registrando nell'agosto 1961 We Free Kings, che fu il primo successo internazionale. Nello stesso anno fece parte per quattro mesi del gruppo di Charles Mingus, partecipando all'incisione di brani inclusi in Tonight at Noon e Oh Yeah.

Nel 1962 il suo nome rientrò per la prima volta fra i premiati del referendum di Down Beat e nell'anno successivo venne segnalato anche da parte dei lettori e dei critici dell'inglese Melody Maker: da allora fino agli ultimi anni di vita non passò anno senza che gli venisse attribuito un riconoscimento ufficiale da una rivista specializzata americana o europea, soprattutto nella categoria del flauto o in quella degli strumenti particolari.

Durante una lunga tournée europea, iniziata nel settembre del 1963, si esibì con grande successo prima al Ronnie Scott's di Londra, che l'ospitò per un mese, poi al Café Montmartre di Copenaghen, dove vennero registrati i brani inclusi nel LP Kirk in Copenhagen; successivamente si spostò in Svezia, Francia, Italia, Germania, Olanda e Belgio.

I primi anni Sessanta furono quindi di fondamentale importanza per la carriera di Roland Kirk: da allora fino alla morte la sua attività musicale si svolse in maniera piuttosto costante fra sedute d'incisione, esibizioni in club famosi e partecipazioni a festival internazionali, prevalentemente alla testa di suoi gruppi.

Se le notizie biografiche sul personaggio sono abbastanza scarne, a volte perfino immerse nella leggenda, vale la pena soffermarsi ad analizzare la complessità del suo linguaggio musicale: un linguaggio composito, formicolante di riferimenti e di stimoli, che getta un ponte fra la sponda del bop e quella del free, ma un bop sempre venato di blues e di gospel ed un free sempre rispettoso di una struttura formale, che a volte diviene convenzionale. La sua incondizionata ammirazione per il passato si rivolge soprattutto a Ellington, Fats Waller, Art Tatum ed ovviamente al contemporaneo Mingus, campione della travolgente persistenza delle radici nero-americane.

Fra i sassofonisti, i maestri da cui egli fu maggiormente influenzato sono Sidney Bechet e Don Byas, ma anche Charlie Parker e Sonny Stitt; le sue improvvisazioni lasciano inoltre scorgere riferimenti più o meno consapevoli, che a volte assumono il sapore della citazione, a sassofonisti della sua generazione, soprattutto Johnny Griffin, John Handy, Booker Ervin [Nota 2], John Coltrane [Nota 3], Eric Dolphy [Nota 4], Cannonball Adderley [Nota 5].

A livello contenutistico, nella musica di Kirk prevale un tono di convinto misticismo, o quanto meno di misterioso occultismo, con frequenti riferimenti alla cultura africana, come nostalgica reminiscenza di una purezza e di un equilibrio ormai perduti. Il suo impegno politico si esprime nella consapevole aderenza alle matrici socio-culturali degli afro-americani e nella orgogliosa proclamazione di tale scelta, senza sfociare nell'aperta denuncia razziale, come avviene in alcuni esponenti del free.

Il suo modo di concepire la musica (la composizione, l'arrangiamento, il rapporto con i collaboratori...) è caratterizzato da un'espressionistica deformazione delle forme canoniche del jazz, in cui di volta in volta si evidenziano tumultuose scansioni ritmiche, linee melodiche accattivanti e una predilezione per il grottesco, per lo sberleffo improvviso, per le tinte accese; non mancano però momenti in cui emergono la tendenza a una malinconica compostezza o l'evidente aspirazione a un classico equilibrio.

Soprattutto negli anni Settanta egli sembra aver esaurito la sua vena più trasgressiva ed innovativa, rifugiandosi sempre più di frequente in una pacata rimeditazione della "Black Classical Music," cioè del jazz delle origini, del boogie, del blues, dello swing. Anche dal punto di vista più prettamente tecnico il momento di più proficuo sperimentalismo, in cui fra l'altro fa un moderato uso dell'elettronica e di intelligenti effetti rumoristici, si concentra fra la metà e la fine degli anni Sessanta.

Merita a questo punto spendere alcune parole sulla sua tecnica strumentale: infatti, pur mantenendosi, come abbiamo visto, in sintonia con lo spirito del suo tempo, Kirk non può essere considerato un innovatore in senso stilistico-musicale, come lo è stato sicuramente per quanto riguarda la tecnica degli strumenti ad ancia e del flauto.

Innanzi tutto Kirk è stato un polistrumentista, nel senso più completo e creativo del termine. Senza voler stabilire inutili primati in tal senso (sembra che ammontino a 45 gli strumenti da lui utilizzati), va ricordata la varietà e la singolarità di questa strumentazione. In primo luogo vari tipi di flauti, dritti e traversi, di legno e metallici, e l'intera gamma degli strumenti ad ancia, dal clarino all'oboe, dal sax soprano a quello baritono; all'interno di quest'ultima famiglia Kirk si è distinto particolarmente, oltre che al sax tenore, nell'uso costante dello stritch, un'antica variante del contralto in Mi, e del manzello, un prototipo del soprano in Si, utilizzato soprattutto nelle bande spagnole di paso doble.

Inoltre ha sperimentato il lyricon, ha ripreso la tromba negli ultimi anni di vita, ha utilizzato occasionalmente la celesta, l'organo, l'armonica a bocca e una varietà di strumenti a percussione, di carillon, di sirene e fischietti, con l'intento di ottenere effetti coloristici e di accentuazione ritmica. Infine sono da menzionare le "black mistery pipes," strumenti a fiato autocostruiti in bamboo e forniti di una campana metallica.

Kirk ha alternato spesso vari strumenti all'interno dei singoli brani, conferendo così timbriche diverse al medesimo sviluppo solistico; ma ancor più personale e sorprendente è il suo uso simultaneo di due o tre sassofoni, ottenendo impasti armonici di grande effetto. Questa tecnica, perfezionata nel corso degli anni Cinquanta con la determinazione di mettere in pratica una visione ricevuta in sogno da adolescente, raggiunge il massimo del virtuosismo quando vengono suonati contemporaneamente strumenti dall'imboccatura differente, quali l'oboe e il sax.

Egli comunque non è stato il primo ad utilizzare questo tipo di tecnica; l'espediente era già noto all'inizio del secolo ai clarinettisti del vaudeville che lo praticavano con fini spettacolari e, per quanto possa sembrare strano, anche l'austero pianista Lennie Tristano, all'inizio della sua carriera, si divertiva a suonare due sax contemporaneamente. Kirk però è stato sicuramente l'unico ad applicare con coerenza questa possibilità espressiva, fino a conferirgli un senso musicale compiuto, superando quindi il livello di mera curiosità effettistica.

D'altra parte egli è stato un vero inventore di tecniche strumentali anomale: per quanto riguarda il flauto, per esempio, è stato un caposcuola riconosciuto, raggiungendo risultati di sicura suggestione. Mi riferisco ovviamente non tanto all'uso sporadico del cosiddetto "flauto da naso," che non è altro che un normalissimo flauto diritto in legno, suonato però con le narici secondo l'usanza rituale di certe popolazioni delle isole polinesiane e melanesiane, quanto al suo personalissimo modo di suonare il classico flauto traverso.

Soffiando con intensità superiore al normale, egli produce suoni sforzati e raddoppi d'ottava, mentre, con interventi vocali, introduce un'ulteriore complicazione armonica o particolari sottolineature ritmiche; con l'uso di growl, di giochi sulle chiavi dello strumento, di sovracuti e di altri accorgimenti, ottiene una pronuncia di grande dinamismo e di grande varietà coloristica, in cui furiose impennate si alternano a momenti di struggente delicatezza.

Altro aspetto della sua ricchezza espressiva e del suo virtuosismo tecnico è l'uso della respirazione circolare, soprattutto al sax tenore e moderatamente al flauto. Anche in questo caso non v'è dubbio che egli sia stato fra i primi in assoluto, in ambito jazzistico, ad esplorare questo procedimento, perfezionandolo nella prima metà degli anni Sessanta, e soprattutto ad applicarlo con grande efficacia, esasperando progressivamente la tensione dello sviluppo solistico.

Sembra che in un concerto londinese egli abbia suonato senza interrompere il flusso sonoro per due ore e ventun minuti, ma, a parte questo exploit, la cui veridicità è difficilmente verificabile, nelle sue incisioni si possono riscontrare numerose prove convincenti di respirazione circolare. Si può anzi affermare che abbastanza raramente egli ha abusato delle capacità tecniche in suo possesso (polistrumentismo simultaneo, note ipersoffiate al flauto, effetti rumoristici, respirazione circolare...), banalizzando in questa maniera il discorso musicale [Nota 6]; più spesso le ha utilizzate con intelligenza, concependole come un mezzo per aumentare le possibilità comunicative ed espressive della sua musica.

Sembrerebbe naturale che un solista così immaginifico ed originale (né andrebbero trascurate le sue doti compositive) dovesse trovare molti seguaci, ma, anziché parlare di una derivazione consapevole di alcuni sassofonisti dal suo linguaggio, è più esatto scorgere un'influenza indiretta su molti strumentisti affermatisi negli ultimi vent'anni. Come non intravvedere, per esempio, l'insegnamento multiforme di Kirk nella fluidità di Billy Harper, nelle atmosfere solari e danzanti di Charles Lloyd o di Gato Barbieri, nell'esuberanza debordante di George Adams, nel polistrunentismo africaneggiante di Sam Rivers o di Joseph Jarman, in certe inflessioni di Jemeel Moondoc, nel fraseggio arabescato di Bobby Watson, nello stile espressivo e comunicativo del flautista Jeremy Steig o in quello più ricercato e cangiante di James Newton?

Più in generale, mi sembra che non sia azzardato riscontrare nella musica di Kirk un'anticipazione degli anni Ottanta: in particolare nella sua vivificante dimestichezza con tutte le forme jazzistiche del passato, anche con quelle più commerciali, nella sua propensione a saldare insieme esperienza esistenziale privata e comportamenti e ideali che appartengono a tutta la comunità nero-americana, nel suo modo sincero e pieno d'amore di comunicare questa sintesi al pubblico attraverso l'esibizione musicale, senza rifiutare a priori mezzi spettacolari.

La produzione discografica di Kirk è stata abbondante, ma non sempre di elevato livello qualitativo. A volte le incisioni di questo singolare strumentista sono frammentarie o ripetitive o non sufficientemente meditate, e quindi risultano poco convincenti; alcuni brani brevi hanno il sapore di bozzetti incompiuti, che nella loro semplicità e delicatezza, pur gradevole, non riescono a raggiungere la dignità del fatto artistico, mentre in altri pezzi, più lunghi ed ambiziosi, l'impostazione si fa confusa, lasciando il posto ad un solismo logorroico. Conviene pertanto ripercorrere la sua attività discografica, cercando di mettervi ordine e di evidenziare le opere più significative.

Il primo LP, dal titolo Early Roots, risale al novembre 1956: edito dalla King e immesso sul mercato locale senza la minima promozione, passò del tutto inosservato anche negli Stati Uniti [Nota 7]. La Bethlehem si è incaricata della sua riedizione nella seconda metà degli anni Settanta, ma anche in questo caso il disco non ha sollevato particolari curiosità, pur essendo innegabile la sua importanza dal punto di vista documentario, in quanto quattro anni di silenzio lo dividono dalla seconda fatica discografica.

In Early Roots il ventenne sassofonista, sostenuto più che dignitosamente da tre coetanei che non avrebbero raggiunto in seguito la ribalta internazionale, si dimostra già spigliato e fantasioso, anche se molto legato agli stilemi bop e alla forma del blues (dei sette brani contenuti nel LP, i quattro a sua firma sono tutti dei blues); riesce comunque a costruire gli assoli con gusto ed equilibrio, facendo ricorso sia alla sovrincisione (in due brani), sia all'uso simultaneo di due sassofoni.

I dischi prodotti dal 1960 al 1965 (complessivamente una dozzina, i primi due incisi rispettivamente per la Cadet e la Prestige, i rimanenti per la Mercury e la Limelight) sono quasi tutti belli; vale la pena di prendere in particolare considerazione tre di essi.

We Free Kings, oltre al brano che dà il nome all'album, contiene sue composizioni basate sul blues e sul gospel, intrise di gioia e di ironia e comunque emblematiche di questo primo periodo: "A Sack Pull of Soul," "Three for the Festival," "You Did It, You Did It..." Due diverse sezioni ritmiche, che includono sempre il bravo Charlie Persip alla batteria, assecondano il leader con grande sensibilità e professionismo.

Esclusivamente affidata al flauto [Nota 8] è la sua esecuzione nel disco I Talk with the Spirits, che nella produzione kirkiana rimane insuperato per essenzialità, varietà di situazioni e buon gusto. Inciso nel settembre 1964 per la Limelight, esso dimostra quanto fosse sfaccettata la concezione musicale e la pronuncia solistica del suo autore. Oltre ai brani più energici e guizzanti, nei quali viene fatto largo uso della voce e delle note ipersoffiate, altri sono da segnalare per le loro peculiarità: si ascolti, per esempio, l'interpretazione dolente e sospesa di "People," l'atmosfera di "I Talk with the Spirits," carica di mistero fino a quando si risolve nel limpido accordo finale, l'esercitazione ironicamente classicheggiante che contraddistingue "Fugue'n and Alludin'"; si noti infine la rassegnata, ma serena malinconia che caratterizza l'esposizione del tema in "Django," a cui segue un sostenuto sviluppo in tempo binario, che lascia il posto a sua volta al 6/8 finale.

Decisamente intenso, carico di umori e pienamente risolto anche nelle trovate più sperimentali è Hip, Rig & Panic, inciso nel gennaio 1965. Richard Davis, Elvin Jones e Jaki Byard si dimostrano particolarmente congeniali al linguaggio estroso ed estroverso del leader, soprattutto il pianista, col suo brioso vagare fra la tradizione dello stride piano ed una tumultuosa diteggiatura free, che sembra anticipare i disegni percussivi di Don Pullen. Purtroppo da allora in poi Kirk non ha mai più avuto a disposizione una sezione ritmica, o comunque collaboratori di tale spessore artistico, con cui dialogare e far lievitare la sua inventiva.

Nel 1965 ha avuto inizio il rapporto con l'Atlantic, durato una decina d'anni. Sfortunatamente la casa discografica di Broadway, attiva soprattutto nel settore pop, ha influito negativamente sull'elaborazione degli arrangiamenti, sulla scelta del repertorio e degli accompagnatori. Risultano spesso dischi velleitari e strutturalmente poveri, in cui prevale un'impronta commercialmente soul o psichedelica: la disponibilità e la buona fede del sassofonista, la sua voce strumentale e la sua verve non sono sufficienti per riscattare molte di queste incisioni dalla mediocrità, anche se non mancano brani trascinanti e riusciti all'interno di microsolchi complessivamente deludenti [Nota 9].

Fra i dischi Atlantic migliori è senz'altro da includere Left & Right, inciso nel 1968 con il supporto di un'ampia sezione di archi. In particolare la concatenazione dei temi ed i cambi repentini di ritmo e di atmosfere su cui si basa "Expansions" partono con ogni evidenza dall'insegnamento di Mingus, ma nello stesso tempo anticipano temi ed atmosfere care all'Art Ensemble of Chicago.

Un altro LP Atlantic corposo e convincente, in cui è ancora presente una larga formazione, è Prepare Thyself to Deal with a Miracle. In esso, la seconda facciata è interamente occupata da una monumentale suite, dal titolo "Saxophone Concerto," nella quale Kirk articola magistralmente un'improvvisazione di ventun minuti in respirazione circolare. Il disco è tutto pervaso di misticismo esoterico e di esotismo africaneggiante, ma dal tono generale si distacca, in "One Breath Beyond," un episodio pervaso di un umorismo irresistibile, che sembra uscito dalla penna di Breuker.

È da ricordare inoltre l'album doppio Bright Moments, registrato nel maggio 1973 al Keystone Korner di S. Francisco: quest'opera, che include fra gli altri brani l'ellingtoniano "Prelude to a Kiss" e "Jitterbug Waltz" di Fats Waller, risulta abbastanza diseguale, ma documenta molto fedelmente il suo rapporto colloquiale e vivo col pubblico.

Negli ultimi due anni di vita Kirk ha inciso per la Warner Bros. I dischi prodotti, che fra l'altro, come gli ultimi Atlantic, sono valorizzati dalle azzeccate e stimolanti copertine di Stanislaw Zagorski, sono tutti scadenti. Ciò è dovuto principalmente al fatto che in quel periodo il musicista aveva subito una penosa menomazione fisica, a seguito di un ictus cerebrale che lo aveva colpito nel novembre del 1975, paralizzandolo in tutta la parte destra del corpo.

Kirk tuttavia, con grande forza di volontà, era riuscito ad elaborare un metodo che gli permettesse di suonare con la sola mano sinistra, aiutando la diteggiatura con prolungamenti delle chiavi ed irrigidendo la posizione dei sassofoni rispetto al tronco ed alla bocca, tramite un'artificiosa impalcatura in legno e plastica. In queste condizioni continuò per due anni ad esibirsi nei club e ad entrare in sala d'incisione, circondato dalla stima del pubblico e dei critici. È comprensibile pertanto che gli ultimi dischi, pur dovendoli considerare come preziosi documenti, non possono essere giudicati sotto il profilo artistico.

La partecipazione di Kirk ad incisioni di altri leaders è stata, nel corso dell'intera carriera, piuttosto ridotta. Vale la pena di menzionare comunque The Jaki Byard Experience, LP edito dalla Prestige, che si distingue per la vivacità delle situazioni coordinate dal pianista-leader, per la bellezza delle composizioni e per l'affiatamento fra i componenti del quartetto (i bravi Richard Davis e Alan Dawson, oltre a Byard e Kirk).

Da segnalare è anche la sua ulteriore, ma occasionale collaborazione con Mingus, prendendo parte nel 1974 al concerto del suo gruppo allargato alla Carnegie Hall, poi riportato su disco dalla Atlantic. In questa occasione Kirk si mette in evidenza fra l'altro con una simpatica e stravolta imitazione dello stile del più giovane George Adams, pure presente all'esibizione.

Se i dischi, soprattutto quelli incisi in studio, sono di valore diseguale e molti di essi non rendono giustizia al valore del loro autore, dal vivo Kirk ha quasi sempre convinto per la sua genuina esuberanza. Tuttavia, soprattutto all'inizio della sua carriera, per il suo stesso polistrumentismo o per il suo abbigliamento stravagante, a volte non è stato preso sul serio ed è stato accusato di istrionismo.

Personalmente ritengo che non si trattasse di istrionismo gratuito, ma piuttosto di una carica comunicativa tipicamente afro-americana, che aveva le sue radici nella tradizione ottocentesca e nelle più recenti, esasperate esperienze dello Swing, del Rhythm & Blues, del Gospel. L'obiettivo irrinunciabile di questo procedimento espressivo, comune a vari esponenti del jazz, era il coinvolgimento del pubblico, anche attraverso l'uso di espedienti collaudati, di forme convenzionali e ritualistiche, di spettacolari trovate.

Le sue esibizioni concertistiche erano una sorta di progressione sfrenata, fino a raggiungere un travolgente finale nel quale egli si protendeva ad accogliere le calorose strette di mano del pubblico entusiasta. Queste performance erano paragonabili a quelle di Ray Charles o del Mingus più dirompente, pur basandosi su un linguaggio musicale più complesso rispetto a quello di Charles e di minore profondità artistica rispetto a quello del contrabbassista.

In Italia Kirk ha suonato almeno tre volte: le prime due negli anni Sessanta e la terza al Festival di Bologna il 9 novembre 1973. Ricordo quel concerto come uno dei più esaltanti ai quali ho assistito in vent'anni: sicuramente la mia disponibilità giovanile e la mia minore esperienza di allora hanno contribuito a determinare tale impressione, ma l'ascolto di una registrazione di fortuna, dopo quasi quattordici anni, mi ha confermato che l'esibizione fu di buon livello e che il pubblico alla fine era delirante.

Il sassofonista avrebbe dovuto suonare anche al Festival di Pescara la sera del 13 luglio 1975, ma purtroppo una di quelle contestazioni allora frequenti interruppe la burrascosa serata aperta dal gruppo di Don Cherry. Mi è rimasta impressa nella memoria l'immagine di Kirk mentre, incapsulato dentro un'auto fra due accompagnatori, abbandonava rassegnato e spaesato il parco delle Naiadi. Peccato! Quella di Pescara sarebbe stata l'ultima occasione di ascoltarlo in Italia: nel novembre dello stesso anno infatti, come ho già ricordato, venne colpito dall'ictus che lo lasciò semiparalizzato e, due anni più tardi, il 5 dicembre 1977, si spense a Bloomington, nell'Indiana.

È forse presuntuoso da parte mia, ma ho la sensazione che nei due ricordi rimastimi di lui, trionfante a Bologna ed in ritirata a Pescara, si possa racchiudere l'essenza dell'uomo e dell'artista Kirk: se da un lato la cecità ha determinato la sua parziale esclusione dal mondo, dall'altro lo ha spinto a trovare nella musica il mezzo più efficace per esprimere in modo pieno e sincero la propria esuberante vitalità.

Le ultime due foto, scattate da Walter Dal Pesco, ritraggono Kirk nel retro del palco allestito al Palazzo dello Sport di Bologna in occasione del Festival del Jazz del 1973.

Note

1- Va segnalata comunque l'attenzione di Giuseppe Piacentino che, su Musica Jazz del marzo 1982, proprio con Roland Kirk inaugurava la serie di profili dedicata ai "dimenticati".

2- Si ascolti, per esempio, Kirk al tenore in alcuni passaggi di "Hip, Rig & Panic" dall'album omonimo.

3- Lo si ascolti in "We Three Kings" dal LP omonimo, dove al manzello sembra ripercorrere gli arabeschi del soprano di Trane , oppure in "Pedal Up" e in "You'll Never Get To Heaven" dall'album doppio Bright Moments, dove aleggia un'atmosfera decisamente coltraniana, con il pianista Ron Burton che si ispira a McCoy Tyner.

4- La somiglianza con Dolphy è evidente nell'assolo di "A Stritch in Time" dal disco Domino, Mercury, 1962.

5- Si noti l'inizio dell'assolo in "Cabin in the Sky" dal LP Kirk In Copenhagen, Mercury, 1963.

6- E' il caso per esempio del disco Natural Black Inventions: Root Strata, inciso nel 1971 per l'Atlantic, che si riduce, anche per l'assenza di accompagnatori significativi, ad un esercizio di tecnica, per altro superato con un certo affanno.

7- Anche Leonard Feather, trattando di Kirk nella sua The Encyclopedia of Jazz in the Sixties, edita nel 1966 dalla Horizon Press di New York, si dimentica completamente di questo disco.

8- Più precisamente in questo disco Kirk usa il flauto in Do, il flauto contralto in Sol ed un flauto nordafricano in legno.

9- E' il caso per esempio di "Old Rugged Cross" inserito nel LP Blacknuss, oppure di "Echoes of Primitive Ohio and Chili Dogs," di impronta mingusiana, contenuto in The Case of the 3 Sides Dream in Audio Color.

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