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Riscoprendo Webster Lewis
Come molti altri artisti africani-americani, ingiustamente dimenticati o, peggio, sottovalutati (in base a teorie elitarie che intendono dimenticare i rapporti costanti che certa musica improvvisata africana-americana ha mantenuto e intende mantenere con la tradizione popolare), Webster Lewis ha pagato il prezzo di un scelta che molti definirebbero "commerciale," dimenticando peraltro che proprio la sua generazione ha apportato alla musica cosiddetta "d'evasione" un contributo qualitativo e creativo non trascurabile, mantenendo un rapporto costante con il Canone africano-americano.
Webster Lewis, nasce a Baltimora l'1 settembre 1943 e apprende i primi rudimenti musicali grazie alla madre Virgie (pianista e direttrice di alcuni cori amatoriali), prima di dedicarsi anche allo studio del clarinetto sotto la guida di James Hollimon, professionista che impartiva lezioni di musica nei quartieri poveri a cinque dollari all'ora, creando orchestre giovanili cui procurava possibilità di esibirsi.
Grazie alla madre, fa pratica pianistica quasi professionale ("When he got good enough, she brought him to choir practice at Grace Memorial Baptist Church and he played the piano, while his mother put the choir through its paces - ricorda James Davenport, direttore di The Door, un gruppo non-profit che lavora con i senzatetto di Baltimore).
Mentre comincia a accumulare esperienze nei locali musicali della città, studia al Morgan State College, si laurea in psicologia al Boston College e ottiene il diploma di composizione al New England Conservatory di Boston (di cui diventerà Prorettore dal 1972 al 1978), dove studia sotto la guida di George Russell, Jaki Byard e Victor Rosenbaum.
Al conservatorio attrae l'attenzione di Gunther Schuller, che lo guida nel suo percorso di studi e lo aiuta ad iniziare un'attività d'insegnante in vari istituti, pubblici e privati. Come ricorderà lo stesso Lewis in un'intervista al Boston Globe nel 1968: "As a musician, most of my work is at night or weekends and I found myself with my days free, so I decided to teach during the day."
Sin dai suoi esordi egli si dimostra un artista anomalo: dotato di eccellente tecnica, di rare capacità come compositore e arrangiatore, il suo interesse prevalente si concentra nel ricostruire un rapporto fra jazz e cultura popolare africana-americana, una sorta di "missione" che egli non mancherà di continuare anche quando sarà ai vertici di un conservatorio - generalmente poco incline a certe commistioni - come quello del New England.
Schuller lo ricorda con chiarezza: "He was an energetic man and very outspoken. For a time he was my right-hand man and together we attracted quite a few black students to the school."
Lewis emerge, sia discograficamente che professionalmente, nel 1971, dopo una lunga gavetta nei club di Boston, dove si afferma soprattutto come organista nel circuito del soul e del R&B. Quell'anno, il Festival di Kongsberg, in Norvegia, commissiona, con fondi del Norwegian Cultural Fund, un nuovo lavoro a George Russell, all'epoca docente del New England Conservatory. Il compositore seleziona alcuni suoi allievi, fra cui il trombettista Stanton Davis e lo stesso Webster Lewis, che porta con sé a Kongsberg per le prove e l'esecuzione, il 26 giugno 1971, di "Listen to the Silence" (lavoro che verrà successivamente pubblicato nel 1983 dalla Soul Note). Finito l'impegno con Russell, Lewis si trattiene in Norvegia, dove si fa raggiungere dai componenti del suo gruppo, che include l'eccellente batterista Jimmy Hopps (che molti ricorderanno con artisti quali Roland Kirk, Charles Tolliver e Stanley Cowell), i sassofonisti Stan Strickland (che lavorerà in seguito con Yusef Lateef, Marlena Shaw e Brute Force) e Bobby Greene e il cantante Judd Watkins (futuro collaboratore di Rahsaan Roland Kirk). Ottiene così un ingaggio dal 25 al 31 di luglio presso il Club 7 di Oslo, un locale - attivo dal 1963 al 1985 - affermatosi come campione della cultura alternativa grazie all'attività del suo proprietario, Attila Horvath.
In quei giorni, Lewis ottiene un successo personale di pubblico e di critica, lasciando un segno duraturo sui futuri sviluppi della musica improvvisata in Norvegia: vengono registrate oltre dieci ore di musica, alcune delle quali vengono pubblicate nel gennaio 1972 in un doppio LP (in origine erano previste otto facciate, oggi reperibili integralmente in un doppio CD della Plastic Strip).
Il consenso è tale che nel giro di pochi mesi il gruppo torna ad esibirsi in Norvegia: conclusa la nuova tournée, Jimmy Hopps rimane per far parte di un gruppo guidato da Jan Garbarek (che con Jon Christensen, Arild Andersen, Terje Rypdal e Bobo Stenson aveva fatto parte della prima di "Listen to the Silence"), con Calle Neumann e Arild Andersen, per poi esibirsi con il trio del pianista Svein Finnerud.
L'apprezzamento riscosso da Webster Lewis Live in Norway - The club 7 Live Tapes non deve sorprendere: gli oltre venti minuti dell'iniziale "Do You Believe" sono un inusitato, trascinante compendio della musica africana-americana di quegli anni e degli anni a venire: funk, gospel, blues, soul, jazz, psichedelia, free bop, space-jazz si accavallano tumultuosi in un impressionante affresco corale, sostenuti dalla prova maiuscola di Jimmy Hopps e da un'urgenza espressiva che si stratifica e s'addensa con una sorta di inarrestabile intensità. Le altre pagine della performance, compresa una versione di "It's Your Thing" degli Isley Brothers, non sono da meno, ma non riescono a replicare appieno l'orgoglioso calor bianco con cui il gruppo si presenta al pubblico norvegese. Eppure, ben poche ore sono passate da quando Lewis commentava all'organo i testi di Dee Brown e Rainer Maria Rilke in "Listen to the Silence," sicuramente una fra le opere più complesse di Russell.
Nella piccola sala del Club 7 di Oslo, il pianista delinea il suo personale manifesto estetico, che ne farà, negli anni a venire, uno fra i più sofisticati rappresentanti della disco-music. In un'intervista (1975), pochi anni dopo il suo esordio europeo, Lewis delinea con maggior precisione il proprio pensiero: "Black music has been presented poorly for many, many years. Jazz, and black music in general, has usually been confined to nightclubs where people are intoxicated and the club is trying to hustle drinks. On the other hand, European music, in the form of classical music, is treated much more generously."
Nella sua volontà di dare la giusta e meritata dignità al patrimonio musicale popolare africano-americano, negli anni a venire Lewis dirigerà in sale concertistiche prettamente accademiche, per conto dei dipartimenti del New England Conservatory, varie orchestre di decine di elementi, in una costante celebrazione di artisti come Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Stevie Wonder, e altri ancora.
Al contempo partecipa ad una serie di realizzazioni e collaborazioni che ne evidenziano l'intelligenza e la sensibilità di interprete e di creatore. Dal 1972, infatti, entra a far parte del gruppo Lifetime del celebrato batterista Tony Williams, dove sostituisce l'organista Larry Young (Khalid Yasin) e partecipa all'incisione di The Old Bum's Rush (Polydor), a fianco di David Horowitz, Herb Bushler, Tillmon Williams (padre di Tony Williams), Laura "Tequila" Logan. Non prima, però, di avere partecipato alla creazione discografica di uno fra gli indiscussi capolavori di George Russell, quel Living Time (Cbs-Sony, SRCS 9357) realizzato assieme al trio di Bill Evans e con l'accompagnamento di un'orchestra in cui spiccano nomi come quelli di Stanley Clarke, Ron Carter, Tony Williams, Joe Henderson, Howard Johnson e Jimmy Giuffre.
Con Lifetime, cui nel frattempo si aggrega il chitarrista inglese virtuoso Allan Holdsworth, il tastierista incide inoltre, nel 1974, una serie di materiali che vedranno la luce solo clandestinamente, parti di una seduta d'incisione mai portata interamente a termine: The Wildlife Sessions/The Stockholm Tapes, con la partecipazione di Jack Bruce e Laura "Tequila" Logan.
Lewis contribuisce, ancora nel 1972, sotto l'illuminata guida di un guru del pianismo post-bop come Stanley Cowell, alla nascita di uno straordinario quanto poco conosciuto gruppo pianistico, The Piano Choir, che riunisce alcuni dei più brillanti tastieristi della scena improvvisativa di New York. Il 28 ottobre 1972 partecipa, assieme allo stesso Cowell, a Nat Jones, Hugh Lawson, Harold Mabern, Danny Mixon e Sonelius Smith, ad una superba realizzazione discografica come Handscapes (Strata-East SES 19730), cui fa seguito, nel dicembre 1974, un altro piccolo capolavoro, Handscapes 2 (Strata-East SES-19750), inciso con Stanley Cowell, Hugh Lawson, Sonelius Smith, Harold Mabern, Nat Jones, nonché James Mtume e Jimmy Hopps, ed in cui compare una fra le più apprezzate e popolari composizioni di Lewis, "Barbara Ann" (da non confondersi con l'omonimo brano reso celebre dai Beach Boys).
L'attività divulgativa e didattica presso il New England Conservatory (dove svolge anche i compiti di Director of Community Services, oltre a insegnare presso il Dipartimento di Musica Afro-Americana) costringe il pianista ad allentare la carriera concertistica e creativa, che riprende nel 1976, quando Lewis produce per l'etichetta Epic, assieme al tastierista David Horowitz (che qualcuno ricorderà a fianco di artisti come Joe Henderson, Enrico Rava, Gil Evans, Tony Williams), On the Town, album pubblicato a nome di Webster Lewis & The Post-Pop Space-Rock Be-Bop Gospel Tabernacle Orchestra & Chorus.
Il percorso iniziato a Oslo con "Do You Believe" trova una sua logica conclusione in queste sontuose orchestrazioni (alcune delle quali scritte da Coleridge Taylor Perkinson, uno fra i grandi protagonisti della musica africana-americana del Novecento) che, pur rispondendo alle esigenze di intrattenimento della coeva disco music, creano una sorta di esperanto musicale africano-americano, coniugando linguaggi popolari e tradizioni improvvisative, dal soul al post bop ai sincretismi latinoamericani, senza perdere contatto con la creatività contemporanea (si dice che Miles Davis, non a caso, fosse un ammiratore dell'opera di Lewis, musicista che, peraltro, pare egli avesse più volte contattato per la realizzazione di On the Corner).
A scorrere la formazione orchestrale (quasi cinquanta musicisti) di On the Town si incontrano, per l'appunto, nomi di artisti di assoluto rilievo sulla scena newyorkese: Anthony Jackson, Herb Bushler, Victor Lewis, Grady Tate, Cornell Dupree, Bill Watrous, Howard Johnson, Harold Vick, Virgil Jones, Lew Soloff, Randy Brecker, Dave Taylor e altri ancora, in una funzione che sarebbe riduttiva definire puramente strumentale; composizioni come "Goodnight," "Baby Girl," "Saturday Night Steppin' Out," "Do It with Style," "Love Is the Way," per quanto appesantite dai lussureggianti orpelli di una produzione disposta a non badare a spese, esibiscono un'ingenua onestà di fondo e il desiderio di riprendere quel dialogo con le masse africane-americane che il jazz aveva in larga parte perso a partire dagli anni Sessanta, quando il free jazz aveva necessariamente imposto un più chiaro atteggiamento ideologico.
Alla stessa logica rispondono realizzazioni successive (parte delle quali prodotte a Los Angeles, dove Lewis si trasferisce nella seconda metà degli anni Settanta) come Touch My Love (altra sontuosa produzione realizzata nel 1978 per la Epic e presto assai popolare grazie al brano intitolato "Barbara Ann"), 8 for the 80's (1979, co-prodotto con Herbie Hancock, con la partecipazione dello stesso Hancock e di musicisti quali Bennie Maupin, Paul Jackson, The Tower of Power), Let Me Be the One (1981, con - tra gli altri - Herbie Hancock, Fred Wesley, Garnett Brown, James Gadson e Willie Bobo): successi commerciali che forse chiedono troppo alle proprie premesse ma che, comunque, corrispondono alle idee che l'artista ha sviluppato nella tutela professionale dei musicisti africani-americani, anche nella sua veste di docente presso la Howard University.
Come ricorda il già citato James Davenport: "[Lewis] always made sure his students didn't just fall in love with the music, but had an understanding of the music business, too. He took them on field trips to record labels and recording studios."
Un tema che, negli anni Settanta e Ottanta, avrebbe inciso non poco nella vita di molti jazzisti africani-americani, divisi fra l'esperienza performativa più autentica ed una produzione discografica maggiormente attenta al successo commerciale e, perciò, alla sopravvivenza degli stessi artisti.
Lo stesso Lewis, mentre realizza una serie di lavori inclini ad un compromesso di qualità fra evasione e impegno professionale, continua a partecipare ad una serie di realizzazioni congeniali all'ideale estetico che va sviluppando. Nel 1978 collabora all'incisione di Black Octopus, a nome di Paul Jackson, bassista degli Headhunters guidati da Herbie Hancock: una sorta di manifesto del futuro free-funk, realizzato a Tokyo con lo stesso Hancock - e con artisti quali Alphonse Mouzon, Bennie Maupin, Ray Obiedo - nel corso di una tournée degli Headhunters, in cui Webster Lewis agisce allora come direttore musicale (a tal proposito, circola da tempo un bootleg di un concerto di tale formazione, dal vivo al Sun Plaza di Tokyo, il 28 settembre 1978).
Nel 1979, ancora assieme agli Headhunters di Hancock, partecipa all'incisione, per la Sony, di Butterfly, a nome dell'eccellente cantante giapponese Kimiko Kasai. Tornato in patria, lavora sempre di più come produttore e arrangiatore, collaborando con artisti quali Michael Jackson, Tom Jones, Gladys Knight, Gwen McCrae, Thelma Houston, Michael Wycoff, Lola Falana, oltre ad affermarsi come autore di colonne sonore ("The Hearse," "The Sky Is Grey," "Joe's Rotten World," "Go Tell It on the Mountain," "Beat Street," "My Tutor" e "Body and Soul") che offrono, invece, la misura delle sue spiccate doti compositive, una volta lontane dai contesti maldestramente definiti "commerciali".
E' curioso, invece, che l'ultima incisione a nome di Webster Lewis (scomparso il 20 novembre 2002) risalga al lontano 1981, quando Barry White gli affida la direzione musicale della Love Unlimited Orchestra: The Love Unlimited Orchestra Presents Webster Lewis: Welcome Aboard ospita anche alcuni lavori firmati e arrangiati da Lewis con la consueta abilità e, soprattutto, ripetiamo, con l'abituale onestà nel proporre lo scintillìo di un'apparente spensieratezza quale forma di un artigianato eccellente, radicalmente devoto alla causa del suo pubblico.
Il che è più di quanto si possa dire di molti, più acclamati intellettuali.
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