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Post Scriptum: Derek Bailey
More 74
I 66 minuti di More 74, come suggerisce prosaicamente il titolo, arrivano dalla metà dei Settanta. Nelle note di copertina il clarinettista Alex Ward racconta che durante il lavoro di preparazione per la ristampa di Lot 74, capitò di imbattersi in due misteriose bobine. I nastri, archiviati da Bailey con i master di Lot 74, contenevano registrazioni mai pubblicate risalenti, presumibilmente, agli stessi mesi in cui fu concepito il disco gemello ristampato in CD per la prima volta nel 2009.
Stando a quanto ipotizza la Brookman, le tracce 1-3 e 7-10, registrate a Catford, nella casa del produttore Martin Davidson (futuro signor Emanem), altro non sarebbero che la prima e la seconda versione di "Lot 74," il brano portante dell'omonimo disco. L'ipotesi è indimostrabile dal punto di vista storico, ma assai affascinante dal punto di vista artistico, e perfettamente coerente con il rigorosissimo concetto di libertà assoluta che sta alla base del Bailey-pensiero. Non si fatica a immaginare il chitarrista alle prese con degli schizzi preparatori per i 22 minuti di "Lot 74": l'approdo all'assenza di strutture come frutto di una lucida disciplina, il massimo grado di astrazione che scaturisce da un'implacabile logica dell'abbandono. Il dionisiaco e l'apollineo mano nella mano.
Che ci si creda o meno, l'uniformità stilistica rispetto al materiale di quel periodo è comunque innegabile. L'uso del doppio pedale stereo, l'insistenza sugli armonici, i giochi di plettro a ridosso del ponte, la rapidità di esecuzione e la densità del flusso sonoro, che proprio in questa fase della poetica baileyiana raggiungono l'apice. Impossibile sbagliarsi. E impossibile sottrarsi al fascino sinistro dell'arte di Bailey: primitiva e futuribile, antica e visionaria, repellente e ammaliante. Tra ritagli, bozze e appunti, c'è tanto da ascoltare, comprese un paio di gustose chicche. La prima è "Wrong Number," la cui esecuzione viene interrotta da una telefonata: il chitarrista si ferma, alza la cornetta, risponde seccamente «wrong number!», riattacca e riprende a improvvisare vorticosamente come se nulla fosse accaduto. La seconda è il folk demenziale di "I Remember the Early Seventies". Bailey si accompagna con la chitarra acustica a 19 corde, sbiascicando il titolo del brano alla maniera di un menestrello rintronato. Uno spasso.
The Barcelona Chronicles
Con The Barcelona Chronicles facciamo un salto in avanti di trent'anni. Siamo nel settembre del 2003. Derek Bailey e Karen Brookman hanno lasciato la grigia Londra per trasferirsi nella colorata Barcellona. I due DVD in solo e il CD in duo con il pianista Agusti Fernandez, raccolti appunto sotto il titolo omnicomprensivo di The Barcelona Chronicles, raccontano dei giorni catalani e dell'ultimo scorcio di vita del chitarrista di Sheffield, ventisette mesi segnati dalla malattia e da un penoso decadimento fisico.
I primi sintomi di quella che sulle prime viene scambiata per sindrome da tunnel carpale, Bailey li avverte nella primavera del 2004: dolore alla mano destra e difficoltà nel muovere le dita. Il 25 giugno, durante un concerto in duo con il sassofonista danese Jakob Draminsky Højmark, gli scivola il plettro. È l'inizio di un calvario che Bailey vive, coraggiosamente, come un'occasione. Decide di ripensare la propria tecnica e dunque la propria arte. Si converte all'uso delle dita, elabora a fatica un nuovo linguaggio, non smette di registrare (come testimonia quella sorta di diario clinico che è Carpal Tunnel, pubblicato nel 2005 dalla Tzadik ma compilato nella seconda parte del 2004), e non smette nemmeno di esibirsi. Almeno fino al maggio del 2005, ovvero fino a quando le condizioni glielo permettono. Nell'agosto di quell'anno arriva la diagnosi corretta del male oscuro che lo affligge: non di tunnel carpale si tratta, ma di sclerosi laterale amiotrofica, la stessa malattia che nel 1979 si è portata via Charles Mingus. La sentenza equivale a una condanna a morte, eseguita dal fato il giorno di Natale del 2005.
Live at G's Club
Il concerto in solo al G's Club di Barcellona è datato 10 febbraio 2004, una manciata di settimane prima dell'insorgere dei sintomi della SLA. Bailey è in forma smagliante, nulla lascia presagire l'approssimarsi della malattia. Lo vediamo seduto su uno sgabello, con alle spalle una coloratissima fila di bottiglie, un amplificatore a fianco, la custodia della chitarra appoggiata a terra e aperta alla sua destra, il brusio del pubblico in sottofondo. Ogni tanto si sente cigolare una porta. L'immancabile ritardatario, verso i dieci minuti, sgattaiola davanti alla telecamera per raggiungere l'altrettanto immancabile amico che gli ha tenuto il posto. La ripresa è semi-amatoriale ma calda, vivida, emozionante, soprattutto quando l'obiettivo indugia sul volto del chitarrista e su quelle mani nodose che di lì un paio di mesi l'avrebbero tradito.
L'esibizione è di un'intensità feroce: 56 minuti a tutta. Dimenticate il Bailey in frac e bastone da passeggio di Ballads, Standards o delle Blemish Sessions. Il concerto è ad alto impatto energetico. Anche perché le immagini, molto meglio di quanto possa fare un CD, veicolano fedelmente la tensione del rapporto fisico tra chitarrista e strumento. Le mani si contorcono in pose impossibili, grattano e picchiano con violenza, scattano e stoppano le corde, scivolano lungo il manico per poi gettarsi al di là del ponte. Qualche progressione da pseudo-standard spunta lungo il cammino, ma sono fantasmi che scompaiono nell'istante stesso in cui li si avvista, risucchiati nel magma torrido e ribollente dell'improvvisazione.
L'atmosfera del club è rilassata e informale. Bailey cerca il dialogo con il pubblico facendo sfoggio del suo proverbiale umorismo. Alla fine del primo brano, mentre scrosciano gli applausi, ci informa che si trattava di un traditional americano intitolato "Mabel, Mabel, Take Your Elbow off the Table". Nel bel mezzo di un passaggio ritmato alza lo sguardo verso la platea, sorride pacioso e butta lì un "You can dance if you like". Il documento è di assoluto valore. Da mostrare e rimostrare a chi è convinto che l'improvvisazione radicale sia la quintessenza del cerebrale, sterile masturbazione per inguaribili masochisti. Qui ci sono cuore e calore, forza e passione. Essenziale.
All Thumbs
26 luglio 2004. Esterno giorno. Rumori di strada e di gente. Un bambino fa i capricci, un cane abbaia ostinato. Sono trascorsi poco più di cinque mesi dal solo al G's Club. Bailey è ospite di un amico, seduto su un'assolata terrazza nel cuore de La Ribera. Trentuno giorni prima, il 25 giugno, gli è scivolato il plettro durante il concerto in duo citato qualche riga sopra. La malattia ha fatto la sua comparsa. L'indice della mano destra, in particolare, non risponde più ai comandi. Dopo cinquant'anni di pennate e contro-pennate, è costretto ad affidarsi al pollice (in inglese thumb) e per la prima volta si esibisce in pubblico usando le dita.
È sofferente, lo si nota. Il volto è scavato e le mani si muovono con circospezione. In un primo momento ci si sente quasi in imbarazzo, si avverte una sorta di pudore nel fissare impietosamente i gesti rallentati del chitarrista. Ma l'imbarazzo dura poco, perché la musica, nota dopo nota, prevale sulla malattia e sulla consapevolezza che lo spettatore ha della presenza di quella malattia. Ed è qui che sta il miracolo. Perché non c'è nulla di pietoso o peggio ancora di patetico in All Thumbs. C'è Derek Bailey, e c'è la sua arte. Diversa, certo, ma sorretta dalla consueta lucidità, pura e ispirata, offerta con una leggerezza e una naturalezza disarmanti.
Per i primi due o tre minuti (dei 23 totali) il chitarrista stringe ancora il plettro fra il pollice e l'indice della mano destra. Poi lo posa, spiegando il perché da lì in avanti userà soltanto le dita (principalmente il pollice, ma anche il medio, l'anulare il mignolo nei passaggi più concitati). L'abbandono del plettro si traduce in un'inedita morbidezza della pronuncia. L'improvvisazione scorre meditabonda, rotondeggiante. Gli attacchi secchi e le ruvidità del G's Club non sono più possibili. Tutto è molto più soffice, tra scale ipnotiche, sequenze di accordi carezzevoli e gli armonici che si fanno più discreti.
A Silent Dance
Il CD in duo con il pianista catalano Agusti Fernandez testimonia l'ultima esibizione pubblica di Bailey, il 12 maggio del 2005 a La Pedrera di Gaudí. È passato un anno da All Thumbs. Stavolta il chitarrista non lo vediamo, ma si intuisce quanta fatica gli costi suonare. Il dialogo con il piano preparato di Fernandez è sussurrato, sommesso, lambisce il silenzio nel segno di John Cage e Morton Feldman. Le note cadono come gocce dagli alberi dopo un temporale. Il pianista, con grande discrezione e intelligenza, stende un tappeto cangiante sul quale si posano le rade punteggiature della chitarra.
La malinconia è tanta, l'emozione pure. Ma anche stavolta si finisce per cedere alle lusinghe della musica. Perché il gioco funziona e il disco sta in piedi senza i puntelli offerti dalla pietosa indulgenza di chi ascolta. Certo, è difficile far finta di niente, scacciare l'idea del triste epilogo che si avvicina. È difficile non commuoversi pensando che gli applausi finali sono gli ultimi che il chitarrista riceverà. Però a uscirne vincitore è ancora Bailey, l'improvvisatore e l'uomo.
Celebriamo la sua arte e la sua vita.
Visita il sito della Incus Records.
Foto di Roberto Masotti (la prima).
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