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Pino Minafra ha molte cose da dire

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Trombettista e leader di punta del jazz italiano, Pino Minafra parla dello stato attuale della sua carriera artistica, dei suoi progetti e dell'Italian Instabile Orchestra, affrontando con passione e giudizi trancianti, temi di politica culturale. E nella discussione c'è spazio per ricordare Nino Rota, direttore del Conservatorio di Bari.

All About Jazz: Recentemente hai svolto un tour tedesco con il Sud Ensemble esibendoti anche al festival jazz di Gottingen. Com'è andata? Un'altra accoglienza trionfante, come vi accade regolarmente all'estero?

Pino Minafra: Direi di si... È ormai consuetudine avere all'estero un'attenzione e un calore particolari. Prima del tour tedesco siamo stati in Portogallo e la stampa di Braga ci ha recensito come qualcosa di memorabile. Poco dopo siamo andati a Dresda ed abbiamo scoperto che il nostro concerto rientrava come evento speciale all'interno della rassegna di musica classica del Semper Opera, il teatro più antico della Germania, l'equivalente per prestigio della nostra Scala. Prima del concerto mi sono francamente spaventato. Era gremito in ogni settore quasi fossimo stati Pavarotti e qualcuno mi disse che gran parte dell'orchestra sinfonica di Dresda era là ad ascoltare...

Ci siamo sentiti schiacciati da tanta responsabilità: eravamo l'evento speciale, gli organizzatori avevano proposto il concerto come un fatto straordinario e si ha sempre il timore di non rispondere ad attese così elevate. Poi abbiamo suonato e ti confesso che è stata una delle esperienze più emozionanti della mia vita.

Inutile insistere: trionfo, pubblico impazzito, assedio di appassionati per gli autografi e via discorrendo. Il giorno seguente grande articolo su un importante quotidiano tedesco che insisteva sulla parola italiana "classe". Stessa cosa è successa a Gottingen, dov'eravamo però nel contesto di un jazz festival.

AAJ: Ottenere tali consensi dal pubblico della musica classica è una bella soddisfazione...

P.M.: All'inizio sono stato sconvolto e nei giorni seguenti ho cercato delle spiegazioni. La Germania è da sempre attenta alla nostra cultura, la gente che abita nell'ex DDR lo è in misura maggiore, ma evidentemente non ci può essere solo questo. E allora mi chiedo: maledizione... ma come mai tanta attenzione, tanto calore, mentre da noi è tutto così difficile?

AAJ: Beh, non mi pare che in Italia il pubblico vi tratti male...

P.M.: No. Non sto parlando del pubblico ma della possibilità di arrivare a suonare di fronte a un pubblico... Ecco i motivi per cui siamo così spesso in Francia, in Germania e in tutta Europa o in Canada dove abbiamo già fatto cinque tour. Ecco perché Terronia è stato inciso per l' etichetta tedesca Enja e il precedente del Sud Ensemble, Sudori, con la canadese Victo.

Stessa cosa è successa a Londra lo scorso anno durante il London Jazz festival con l'Instabile Orchestra, registrato dalla BBC, da cui speriamo di ricavare un doppio CD.

AAJ: Perchè speriamo... avete problemi a pubblicarlo?

P.M.: Che vuoi che ti dica... Le etichette a cui l'abbiamo proposto nicchiano ma non è solo questo. Ci ritroviamo da soli a far fronte a mille problemi ed ho la chiara sensazione che stiamo tornando indietro, agli anni delle autoproduzioni e via discorrendo. Il Paese, devastato da cinque anni di mal governo del centro-destra, è sempre nell'emergenza. L'attenzione politica verso il mondo della cultura stenta e non sembra che sia affrontata come si dovrebbe neppure da questo governo di centro-sinistra. Il dato negativo di non avere ancora un ministero completamente dedicato alla cultura -nonostante il patrimonio universale che ha l'Italia- la dice lunga sulle difficoltà e la solitudine che incontrano persone animate da spirito artistico. È un dato che deve far riflettere... Quindi non escludo che il prossimo disco dell'Instabile venga autoprodotto.

AAJ: Davvero?

P.M.: Ti rendi conto? Un ensemble come l'Instabile ha difficoltà a pubblicare un concerto giudicato memorabile da tutta la critica. Allora uno si chiede. Se una tale concentrazione di musicisti, dopo la storia che ha avuto, non riesce ad avere credibilità c'è da spaventarsi. Sarà anche vero che il mercato è in crisi, che i CD non si vendono... capisco tutto ma che facciamo?

AAJ: È proprio questa la domanda che volevo farti. Com'è possibile che una formazione come la vostra, che pochi anni fa ha vinto il referendum della critica di Down Beat, sia quasi scomparsa dalla scena italiana?

P.M.: È una cosa incredibile se pensiamo al momento di straordinaria fertilità che sta attraversando l'orchestra. Lo dimostra quel tour inglese e il concerto di Londra. Se avremo la forza di far uscire il disco, testimonierà che l'orchestr a ha ancora tanto da dire. Con gli anni si è creato non solo un suono ma un vero e proprio pensiero musicale.

Vuoi una spiegazione? Torniamo alle solite vecchie, eterne ragioni. Sappiamo che in questo Paese nessuno è profeta e diamo anche per scontato la latitanza delle istituzioni. Quello che disorienta è il disinteresse dei festival italiani, che non fanno nulla per proteggere un'esperienza così singolare mai avvenuta prima in Italia. Non parlo solo di festival americanizzati e disattenti per scelta o acuto provincialismo alle forme più creative e innovative di matrice europea come Umbria Jazz, ma anche di quei pochi "altri" festival interessati alla ricerca e alla musica creativa...

AAJ: Vuoi dire che si sommano diversi ordini di problemi: un rifiuto di ordine estetico e difficoltà di bilancio?

P.M.: C'è sicuramente questo ma va inquadrato in una concezione del jazz più generale. Siamo in un momento dove prevalgono situazioni musicali facili, modaiole, disimpegnate e di puro intrattenimento che sfiorano il piano bar. Situazioni dominate da ostentazione e da vuoto virtuosismo, impregnate di edonismo e di estetica "berlusconiana" sempre a caccia di eventi che catturino e manipolino i media. È come se il mondo del jazz (nostrano e non) rincorra una specie di Sanremo nazional popolare. Tutto ciò è veramente deprimente e inquietante. Si sacrifica tutto sull'altare del "mercato" e del consenso a tutti i costi. I contenuti, sembrano passare in secondo piano. Eppure quelli che hanno dato un contributo determinante al jazz non erano certo dei virtuosi: penso a Count Basie, Ellington, Sun Ra, Gil Evans, Monk, Don Cherry, Ornette, Miles Davis. Quest'ultimo non era certamente un giocoliere come Wynton Marsalis. Dentro loro c'era un pensiero musicale elevato, una poetica profonda, un contenuto altissimo e spesso delle tragedie esistenziali che pagavano anche per le scelte musicali dure, fatte senza compromessi. Comunque non voglio demonizzare il virtuosismo, che va bene quando è al servizio di un pensiero musicale. Oggi invece conta molto l'ostentazione, il marketing.

AAJ: E tornando all'Instabile?

P.M.: Per quanto riguarda l'Instabile, credo esista anche la difficoltà ad accettare un progetto fondato sulla diversità, sulle differenze anche estreme di posizione e di pensiero. L'Instabile è la dimostrazione che musicisti di tre generazioni provenienti da tutte le parti d'Italia, stilisticamente anche molto diversi, riescono non solo a convivere ma anche a produrre un'alta qualità d'espressione musicale. Un piccolo grande esempio di convivenza nell'accettazione della diversità intesa come ricchezza e come valore aggiunto "dell'altro". Un concetto quello dell'accettazione che riguarda la politica, le religioni, la scienza, la medicina eccetera di drammatica ed eterna attualità, non ancora risolto che riguarda tutti noi e la continuità della vita e della pace sull'intero pianeta. Ma evidentemente questa sofferta autonomia di pensiero -anche di felice, sana e fertile "Instabilità"- sconcerta, disorienta quanti ci vorrebbero inquadrati allineati e coperti.

Qualche mese fa una parte della Instabile chiuse nella prestigiosa sala Santa Cecilia del Parco della Musica a Roma, il primo festival dedicato alla filosofia il cui tema era "guarda caso" la "Instabilità nel mondo delle idee, della politica, eccetera. Se permetti io aggiungo instabilità nella vita dell'universo come fatto cangiante e naturale nell'ordine di tutte le cose...

Per ritornare all'orchestra, non è stato semplice trovare degli equilibri al suo interno -qualcuno non c'e' l'ha fatta, come è successo a Gaslini o a Bruno Tommaso- ma resta vivo un soffio ideale, di purezza, di slancio teso a rimarcare i valori in cui crediamo.

Per me è importante ribadire un punto: raccontare la tua storia, il tuo tempo, senza proporre modelli, magari straordinari, che non ti appartengono. Che senso ha perdere la vita a riprodurre qualche cosa che è stato già fatta in un momento storico preciso e quindi non piu' riproducibile con la stessa "intensità e verità"?

AAJ: In concreto: la situazione operativa dell'Instabile è di calma piatta?

P.M.: Tutt'altro. Rincorriamo diversi sogni che al momento solo sono dei progetti sulla carta e non so neppure se è il caso di parlarne...

AAJ: Beh, proviamoci...

P.M.: Abbiamo approcciato l'idea con Don Moye di un incontro tra l'Instabile e l'Art Ensemble Of Chicago per festeggiare il loro 40° anniversario ma non c'è nulla di definitivo, è solo un'ipotesi. Il secondo sogno riguarda la possibilità di realizzare qualcosa con Ornette Coleman. Tiziano Tononi e Daniele Cavallanti hanno avviato un contatto e vedremo se si realizzerà. Poi stiamo verificando la possibilità di incontrarsi con Antony Braxton visto il suo interesse per l'Instabile. Dulcis in fundo la possibilità di far nascere la Instabile Records per produrre il Live in London registrato dalla BBC l'anno scorso e chissà... forse iniziare un nuovo/vecchio cammino...

AAJ: Parliamo della tua attività di compositore e leader. Nella tua musica coesistono due tendenze solo in apparenza contraddittorie: una sulfurea e dissacrante ed un'altra profondamente lirica, direi mistica. Ti è difficile conciliarle?

P.M.: Sono consapevole che dentro me esistono differenti anime. Io invidio Enrico Rava che si è innamorato di Davis e si è messo dietro la sua cometa, avendola come riferimento per tutta la vita. Dico Enrico come tutti i trombettisti che puntano un modello ed in qualche maniera tentano di eguagliarlo o di avvicinarvisi. Io ho invece vissuto intensamente varie cose, dalla banda alla musica antica e classica e ho avuto il dramma di dare identità a tutte queste anime facendole convivere serenamente. Dal punto di vista psicologico è stato estremamente doloroso perchè ero schizofrenico... È come avere un harem. Se hai cinque donne splendide come fai a scegliere? Però, se tutte e cinque sono importanti si cerca di non sacrificarne nessuna. Allora, istintivamente, anziché inseguire un modello preciso ho preferito fare il mio percorso, magari mediocre, insignificante ma unicamente mio. Così ho cominciato a coniugare le varie anime del mio percorso, che negli anni ho imparato a domare. In questo mi sento molto vicino al percorso di Gianluigi Trovesi e non è casuale che abbiamo suonato insieme per oltre dieci anni e quando capita continuiamo a farlo. Ci accomuna un percorso molto ampio e mi sento più vicino a lui che al jazz "canonico" in senso stretto dove le regole ti limitano e che da solo non riesce a far esprimere tutto il mio vissuto. Il jazz resta per me un grido di amore di dolore e di libertà. L'unico linguaggio in grado di "accettare "le varie culture al suo interno in maniera paritaria e democratica, per consentire a "tutti" di raccontare la propria storia. Lo scontro/incontro tra la cultura europea e quella africana ha generato un virus cosmico indistruttibile fatto di nuove e vecchie regole per un laboratorio "universale" delle musiche di tutti i tempi. Penso veramente che il jazz -inteso nella maniera in cui ho tentato di descriverlo- sia l'evento e la massima espressione culturale/artistica nata in America e oggi nel mondo.

AAJ: Tu hai frequentato il conservatorio di Bari negli anni in cui in cui lo dirigeva Nino Rota. Che ricordo hai di lui?

P.M.: Era una figura straordinaria, una persona aristocratica nel senso migliore del termine. Lui era giunto da Milano perché aveva problemi di salute, ai polmoni, e i medici gli consigliarono di stabilirsi al Sud dove c'era un clima migliore. Prima iniziò a lavorare al liceo musicale di Taranto come insegnante di solfeggio e poi divenne direttore del conservatorio di Bari, dove restò per oltre 30 anni. Abitava nel centro storico, vicino alla cattedrale, in un quartiere popolare difficile, direi pericoloso, ma non aveva la puzza al naso. Aveva una predilezione per il popolo e tante delle sonorità che ha messo nelle musiche per Fellini le ha prese dalle nostre bande musicali, che amava molto. Nino Rota è stato una figura esemplare e ha lasciato in me una forte impronta. Non aspettava i saggi finali ma entrava all'improvviso in classe, si sedeva in fondo e ascoltava. S'interessava di tutti e talvolta comprava lui gli strumenti agli allievi meno abbienti. Allora io suonavo in un gruppo di musica antica in un gruppo di ottoni e lui scrisse per noi un brano, che suonammo alla cattedrale di Loreto. Quando andai a chiedergli se potevamo fare il primo saggio di jazz al conservatorio di Bari non esitò a dirmi di si. "L'importante -disse- è che facciate le cose per bene rispettando la musica". Fu una delle prime volte -se non la prima- che il jazz entrava ufficialmente in un conservatorio italiano.

AAJ: Rota conosceva il jazz?

P.M.: Molto poco. Visto che nei suoi brani c'erano anche accenni orchestrali io gliene chiesi ragione e lui mi confidò che le cose di contenuto più jazzistico le faceva fare ad altri. Lui era sostanzialmente un musicista classico ma il suo rapporto col cinema l'aveva un po' liberato da qui pregiudizi che sono ancora vivi nei conservatori.

AAJ: Tra i musicisti stranieri con cui hai collaborato, chi ricordi con maggiore affetto?

P.M.: Mi vengono subito in mente Misha Mengelberg, Han Bennink, Willem Breuker negli anni in cui ero innamorato dell'estetica olandese, quel modo straordinario di fare jazz che coniugava teatralità e avanguardia. Ricordo poi con affetto le collaborazioni con Keith Tippett e Louis Moholo, quella con Michel Godard e soprattutto con Cecil Taylor, nell'avventura realizzata a Ruvo di Puglia con l'Instabile.

AAJ: Cosa ricordi di Cecil?

P.M.: È rimasto a Ruvo dieci giorni quindi abbiamo parlato mangiato, bevuto e sofferto insieme. Un intenso coinvolgimento collettivo che ha portato a quel disco (The Owner Of The River Bank, N.d.R.) che ritengo la punta più alta di tutta la storia dell'orchestra.

Cecil è una persona fuori dal comune, con una sensibilità, un'intelligenza e un acume altissimi che ti lascia un segno profondo. Non ti nascondo che dopo aver raggiunto quell'obbiettivo volevo quasi smettere di suonare... Io purtroppo non salii sul palco perche ero troppo coinvolto negli aspetti organizzativi del festival ma è come se l'avessi fatto. Cecil è uno sciamano. Ha portato i musicisti ai primordi della storia musicale umana, tirando fuori la loro anima, l'ancestralità del loro essere. Quella settimana di prove è stata un tormento... ha scritto la musica utilizzando segni ambigui che erano tremendamente difficili da interpretare... Alcuni volevano mollare tutto e mandarlo a quel paese. È stato un viaggio esoterico sfibrante, catartico. Cecil era una sfinge che ha tenuto tutti sul filo di corda ma quell'esasperazione si è trasformata in straordinaria energia creativa...

Vorrei ricordare che quel concerto, ideato a Ruvo di Puglia non a Berlino o New York, ha inaugurato l'anno seguente il festival di Parigi.

AAJ: Ribaltiamo per un attimo i ruoli. C'è qualche critica che vorresti fare alla critica?

P.M.: Ehm...(lunga pausa, ride..) Sai non invidio il vostro lavoro, perché si tratta di entrare in comparti misteriosi dove non è facile entrare. Io non saprei nemmeno da dove cominciare a dire qualcosa di qualcuno... Se la vita è un mistero la musica lo è ancora di più, quindi è impegnativo dover parlare di un'arte che ha mille letture... per un critico sei il migliore del mondo ma un altro ti manderebbe al rogo... Certo, sono pochi quelli che hanno gli strumenti e la sensibilità per entrare nei parametri dell'anima per scavare a fondo in un'opera o in un percorso artistico... spesso c'è una lettura affrettata, approssimata, superficiale. Le critiche profonde, che si avvicinano a quel mistero che è l'opera musicale non sono molte anche perchè la parola ha dei limiti. Ci sono emozioni, fattori, aspetti che è difficile tradurre in un linguaggio verbale soprattutto quando l'organizzazione del lavoro giornalistico impone tempi e spazi sempre più limitati.

AAJ: Vogliamo parlare dei progetti nuovi su cui stai lavorando?

P.M.: Giorni fa è stato a casa mia Jean Paul Chazalon, direttore del festival Rive-de-Gier e mi ha dato carta bianca per un progetto da farsi ad ottobre di quest'anno. Il progetto, che non ha ancora un nome, vedrà i musicisti del Sud Ensemble in una situazione nuova, diciamo un Mega Ensemble.

Io sarò affiancato da Luca Calabrese alla tromba; con Lauro Rossi al trombone ci sarà Gian Piero Malfatti, accanto ad Actis Dato e Satta ai sassofoni avremo Roberto Ottaviano. Domenico Caliri alla chitarra si aggiunge a mio figlio Livio al pianoforte e alla sezione ritmica composta da Giovanni Maier al basso e Vincenzo Mazzone alla batteria. In più coinvolgeremo le quattro voci delle Faraualla.

Nel progetto Livio farà un piano solo ed una master class per giovani musicisti e lo stesso Margherita (mia moglie) che suonerà al clavicembalo brani di musica contemporanea appositamente scritti per lei e musiche del Cinquecento di autori del Sud Italia della scuola clavicembalistica napoletana facente capo a Gesualdo Da Venosa. Un concerto che per la particolare tematicita probabilmente faremo in collaborazione del conservatorio di Lione dove si terrà pure una Master Class.

Oltre al Mega Ensemble, che resta un veicolo per progetti speciali, è mia intenzione allargare il Sud Ensemble alla presenza di Domenico Caliri alla chitarra, apportando una colorazione più ricca alla cromatica del gruppo. C'è poi la possibilità di dare una nuova chance alla Banda con un nuovo progetto. Mi piacerebbe l'idea di coinvolgere il quartetto di Giovanna Marini. Ma anche questa ad oggi è solo un'idea. Vedremo... Infine è d'imminente uscita presso l'etichetta inglese Ogun, il progetto nato nell'edizione 2004 del Talos Festival, che vedeva l'orchestra "Canto General" (trenta musicisti tra cui Ottaviano, Pisani, Curci, Partipilo, Mezzina eccetera) assieme a Louis Moholo, Keith e Julie Tippett, rivisitare la grande stagione del jazz sudafricano a Londra. Per la presentazione del Cd forse ripristiniamo l'orchestra con la presenza di Moholo e forse riparte una nuova avventura.

Infine sento la neccessità di avere un piccolo gruppo più agile dove esprimermi con urgenza senza canovacci e intelaiature complesse che a volte ingabbiano la musica a beneficio della forma e del pensiero compositivo "scritto".

AAJ: Oltre alla musica cosa t'interessa?

P.M.: Da sempre, sono profondamente attratto, dalla letteratura spirituale, mistica. Sto per terminare il libro Gesù, ebreo di Galilea che è la disamina storica di questa figura straordinaria e non la lettura che ne dà la chiesa. In passato sono rimasto folgorato dal pensiero orientale, mi riferisco al buddismo e allo zen in particolare. La mia vita ha attinto a questi insegnamenti che sono forse la forma spirituale più profonda che l'uomo ha concepito. Poi mi sono sciroppato tutto il tomo delle fonti francescane… Amo Francesco, Gandhi e, senza esagerare, se non avessi avuto l'esempio di queste figure non so se avrei trovato la forza di superare il mare di difficoltà e amarezze della mia vita artistica.

È una lettura che serve per sopportare le miserie umane ma anche per quietare quell'ansia esistenziale che nasce dal mistero della vita.

Foto di Claudio Casanova


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