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Otomo Yoshihide "Far East Network"
ByL'Area Sismica ha aperto il festival di celebrazione dei suoi vent'anni di attività con l'unica data italiana del Far East Network, il nuovo progetto di Otomo Yoshihide con artisti coreani e cinesi da noi ancora pressoché sconosciuti: Yan Jun, Ryu Hankil e Hong Chul Ki.
Con questo progetto Otomo torna all'onkyo, genere di cui è stato fra i fondatori e che, pur ispirandosi alle esperienze elettroacustiche e improvvisative americane ed europee, presenta indubbiamente un retrogusto, una componente sfuggente e ineffabile, che è tipicamente orientale.
Forse è addirittura scorretto chiamarla "musica," non sbagliato ma riduttivo, nel senso che la "musica" - nella sua accezione tradizionale di serie organizzata di suoni ordinati secondo le regole della misura e dell'armonia - è solo una parte (una piccola parte) del campo di possibilità di questo approccio al suono. Anche chiamarla "rumore" non sarebbe sbagliato, ma riduttivo, perché altrettanto spazio vi trova il "silenzio".
Questa sembrerebbe un'applicazione paradigmatica dell'idea di John Cage, secondo cui il suono è totale e ogni suono ha la stessa dignità di un altro. Non a caso Cage partorì le sue concezioni musicali e filosofiche sotto linflusso sostanziale di visioni del mondo orientali.
Così qui viene accolta l'intera gamma dei suoni: dal sottile all'imponente, dall'esile al massiccio, dal minuscolo all'enorme; e sono visitate tutte le dinamiche sonore, dal quasi-silenzio alla totale saturazione rumorosa. Anche qui c'è alle spalle un approccio stilistico, se non esplicitamente teorizzato, per lo meno sperimentato dai musicisti di questa scena, e da Otomo nella fattispecie: il silenzio e il rumore, la "quiete" e la "tempesta," l'estrema delicatezza e l'assalto acustico devastante, sono due facce della stessa medaglia, due possibili modalità di un'esperienza sonora comune che le unifica. Dunque non due realtà incompatibili, ma due momenti che possono alternarsi o scivolare l'uno nel'altro.
L'andamento del concerto è stato quello di un'onda sonora continua che periodicamente si gonfiava e si svuotava; su un tappeto quasi continuo di piccoli suoni (sfrigolii, piccoli feedback, vibrazioni) emergevano di volta in volta eventi sonori puntiforni: rintocchi, crepitii, percussioni, rumori elettronici, che creavano un paesaggio brulicante, i certi momenti estremamente minimale; periodicamente però queste macchie puntiformi si espandevano e debordavano come inchiostro sulla carta assorbente, fino a saturare tutto lo spettro acustico e a costituire un muro compatto e variegato di rumore, che arrivato alla sua massima compattezza, poi nuovamente si sfaldava in tante (o in poche) piccole macchie puntiformi.
Naturalmente di note e di suoni strettamente "musicali" ce ne sono stati pochi: praticamente solo la chitarra di Otomo, in un solo intervento, essenziale e molto morbido, circa alla metà del concerto, che è sfociato comunque in un feedback, assecondando la corrente di rumore montante prodotta dagli altri tre.
Interessante anche l'uso che Otomo ha fatto delle percussioni, in particolare la gran cassa e il modo rudimentale ma suggestivo in cui l'ha usata: semplici colpi radi e cadenzati che facevano pensare a una dimensione solenne e cerimoniale; oppure più veloci e accentati, che evocavano una dimensione più arcana e tribale. In effetti in qualche momento la musica dei F.E.N. ha qualcosa della solenne austerità di una cerimonia orientale.
La grana acustica, nell'incipit del concerto, pur nella sua natura elettronica, presentava una dimensione fortemente tellurica e quindi evocava in qualche modo le energie e le forze naturali: un suono inizialmente esile e tremolante (soprattutto ad opera dei congegni elettroacustici di Ryu Hankil), che poi si gonfiava e acquistava in spessore e profondità; qualcosa che evocava una potenza sommessa e lontana ma potenzialmente minacciosa e devastante, come un terremoto che sta per scatenarsi. In altri momenti, lo scenario evocato è stato decisamente più antropico e artificiale, come un ensemble di martelli pneumatici al lavoro, un'officina o un cantiere edile... Ma anche questo ci può stare nell'idea che "un suono è un suono," e anche natura e artificio possono essere solo due diverse modalità della stessa realtà, anziché due essenze contrapposte.
Dietro a questo suono c'è una sapiente regia, ma molto discreta e che quindi al primo ascolto passa inosservata. I suoni prodotti in realtà erano molto variegati, anche se il loro "sapore" appariva uniforme; i dettagli erano minuti e innumerevoli, ma all'ascolto si perdevano facilmente sotto l'impressione di un'onda sonora unica e continua.
Il tutto potrebbe sembrare dettato dall'invenzione estemporanea, e in certi casi anche dall'aleatorietà (tutte cose che comunque fanno parte di questa concezione musicale); ma sul finale scopriamo che in realtà tutto (o per lo meno le grandi linee dello sviluppo generale e della direzione di marcia) era orchestrato e premeditato. Quando infatti, dopo un'ora esatta di concerto, il suono è collassato ed esploso in un finale di "rumore totale" in cui tutte le frequenze dello spettro sonoro sono state occupate e saturate, si è scoperto che in realtà c'era una mano invisibile che ha guidato il dipanarsi del suono verso questo epilogo, e quindi l'ora di concerto, più che dell'improvvisazione estemporanea, aveva invece qualcosa della composizione, come se quella proposta fosse in realtà una sorta di grande sinfonia di rumore; o meglio, semplicemente di suono.
Foto di Claudio Casanova
Ulteriori immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini.
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