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Omer Avital
ByUna serata da dimenticare, a causa anche di una formazione senza anima, che si è languidamente adagiata su un mainstream amorfo ancorché risaputo. Una musica che si trascinava meccanicamente senza colpi d’ala, con disposizioni degli assoli a dir poco ripetitivi, al servizio di una formula sciatta. In compenso buono il fraseggio del trombettista Avishai Cohen e del sassofonista Joel Frahm e nulla di più.
Benché pomposamente celebrato dall’annunciatore-organizzatore di turno, è questo un gruppo sopravvalutato, che ha il suo unico, debole elemento di distinzione nell’adozione di alcuni melos mediorientali. Ma all’ascoltatore più attento bastano due brani per saggiare una proposta inconsistente, che non prevede cambi di tono e climi.
Una musica sin troppo omogenea, che innervata di solide tradizioni mainstream, risulta d’impianto folkorico mediorientale, ma nei fatti folkloristica. Con un leader (Omer Avital) bravissimo al contrabbasso, ma incapace di ampie vedute sul piano dell’organizzazione sonora.
Ma in un contesto mondano come quello del Kalesa, dove la musica era l’elemento di contorno a cocktail e chiacchere, questa proposta era più che dignitosa. In soccorso dell’appassionato di jazz, il titolo di un libro chatwiniano: “Che ci faccio qui?”.
Foto di Claudio Casanova
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