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Maria Pia De Vito: Tutte le voci che ho dentro

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Nella valigia musicale di Maria Pia De Vito c'è tutto il necessario per affrontare dei lunghi viaggi: la conoscenza della tradizione; l'amore per la diversità stilistica; il perfetto equilibrio tra teoria e improvvisazione. Il suo ultimo lavoro discografico Mind the Gap raccoglie una serie di brani, originali e non, legati da un unico denominatore: il gap, l'attraversamento di stati di coscienza diversi. Per approfondire il discorso siamo riusciti a ritagliare il tempo per l'intervista tra lezioni al Conservatorio, concerti, viaggi e pomeriggi in palestra.

All About Jazz: Mind the Gap rappresenta una tua trasformazione artistica. Avverti questa mutazione?

Maria Pia De Vito: Sono sempre in una fase di trasformazione. Sentivo il gap come mio tema del momento, quindi ho pensato di mettere insieme delle canzoni che mi piacessero, senza badare da dove venissero, e di scrivere dei brani originali a riguardo.

AAJ: Come è nato il percorso tematico tra originali e pezzi di altri autori?

M.P.D.V.: Da un punto di vista tematico ho scelto dei brani messi insieme in un cammino concettuale abbastanza definito. I testi originali parlano della necessità di attraversare questo gap, di riempirlo, e far sì che le cose che vuoi cambiare cambino. Ho usato due poesie di Michele Frasca, un poeta con il quale collaboro e che gentilmente mi mette a disposizione i suoi materiali. Per il resto ci sono le tante declinazioni di gap: dal pezzo di Django Bates, "Stages I II III," che dice come vivere una cosa ma in realtà non viverla veramente, a "If Six Was Nine" di Jimi Hendrix, che parla dell'interpretazione della realtà.

AAJ: Ti sei presa diversi rischi con un album molto vario e in certi momenti lontano dalla sfera prettamente jazzistica.

M.P.D.V.: Cerco sempre nuovi territori, non sono una cantante di repertorio, mi rimetto continuamente in discussione; e per un'artista, per stare nell'autenticità, la strada della ricerca diventa sempre più stretta. Questo prevede correre dei rischi, io li corro e mi è andata sempre molto bene, anche se il mio modo di fare non è popolare e mi ha attirato diverse ire, ora dai tradizionalisti del jazz, poi di quelli della canzone napoletana. Insomma, riesco sempre a far arrabbiare un po' qualcuno e a volte dico: «porca miseria, ma vale la pena?». La risposta è sì, perché non posso che fare questo, è la mia autenticità, non mi sono mai posta problemi, forse sono un po' folle se pensi che produco un oggetto che va messo su uno scaffale e va venduto.

AAJ: Perché il "gap," il vuoto, come filo conduttore di quest'album?

M.P.D.V.: Volevo continuare a lavorare sulle canzoni con il gruppo Songs of the Underground e sulla narrazione. Molto spesso i temi per i miei lavori vengono fuori da cose non musicali; per esempio da conversazioni con persone che stimo o da un libro. Nel caso di questo album ci sono stati due avvenimenti fondamentali: la mostra della mia amica scultrice Marisa Albanese che si chiamava "Mind the Gap," nella quale parlava dell'attraversamento, delle migrazioni interiori e dei popoli; e una lettera di un amico brasiliano che in sostanza diceva: «perché c'è sempre questo gap tra quello che voglio e quello che desidero?». Il quesito mi ha fatto saltare una cosa in testa, nel senso che riguardando le canzoni che avevo cominciato a mettere da parte - faccio continuamente un lavoro di ricerca sulle cose che mi piacciono - ho notato che, neanche a farlo apposta, parlavano tutte del gap, cioè della differenza tra due stati di coscienza diversi.

AAJ: Quindi l'album ha comportato un gap per te. Come l'hai superato?

M.P.D.V.: Sì, ho fatto spesso dei lavori molto diversi tra di loro, anche se alla lontana sono legati da delle linee, e ogni lavoro nuovo per un musicista è una piccola migrazione interiore: ci si stacca da quello fatto finora per approdare a un qualcosa di nuovo. Per superare un gap bisogna fare per forza un salto di coscienza.

AAJ: Hai paura del gap?

M.P.D.V.: Come tutti gli esseri umani ho paura di ogni gap che mi si presenta davanti. Ci sono però delle paure positive, come mettere in piedi un nuovo progetto musicale; hai un obiettivo con tutto ciò che ne consegue, e questa strizza mi dà il motore per muovermi. Mi fa molto più paura rimanere ferma in qualche situazione, mi terrorizza di più la paralisi.

AAJ: Stilisticamente parlando, quante porte nuove hai aperto con questo lavoro?

M.P.D.V.: Sicuramente è un disco dove sono riuscita a mettere insieme diversi elementi della mia esperienza, fatta con lo studio di cose diverse. Ho un bottino vasto e in questa chiave un po' aurorale e un po' concept, sono riuscita a mettere vicino, in maniera abbastanza coerente, delle cose che viste dall'esterno possono sembrare molto lontane. Questo modo di procedere mi interessa e mi fa sentire "larga," non nel compitino per intenderci. Un'altra mia traccia fondamentale è l'insofferenza, nel fatto che dalla voce ci si aspetta sempre molto dalla perfezione vocale, formale; è come se uno per essere accettabile dovesse stare sempre nei ranghi, e mi diverte molto il fatto che io, nonostante nei ranghi non ci sia, vivo il lusso di lavorare come mi piace e avere un risposta dal pubblico soddisfacente.

AAJ: In che maniera sei attratta dallo stile di Björk e dai suoi procedimenti?

M.P.D.V.: "Hidden Place" è l'unico pezzo registrato dal vivo, è come se fosse la risoluzione finale di tutto questo mio parlare del gap, e di uscirne fuori cresciuti in una nuova posizione, senza rimanere paralizzati. Sono interessata ai procedimenti compositivi di Björk, perché lei usa la voce in maniera non ortodossa, e proprio per questo efficacissima. Mi interessa come artista, non è mai stata un modello musicale in senso stretto, però nell'apparente semplicità delle sue soluzioni e nell'intelligenza dei suoi testi c'è un comportamento molto interessante.

AAJ: Ci sono diversi inserti elettronici nel disco.

M.P.D.V.: L'utilizzo dell'elettronica è un mezzo d'espansione dell'improvvisazione. Odio l'elettronica "marmellata," ovvero quella sempre uguale a se stessa, perché uccide l'originalità. Vado sul palco con niente di preregistrato. In questo senso la trovo stimolante e divertente. L'elettronica, anche per quanto riguarda l'utilizzo sulla voce, si è molto diffusa, è facile fare delle cose tutte uguali, quindi la uso con grande parsimonia, sia nel disco che nella performance live, in due o tre momenti come colore, proprio per non risultare ripetitiva.

AAJ: Un brano che mi ha incuriosito, per il suo sviluppo formale, è "Eccesso," nato dalla collaborazione con Rita Marcotulli.

M.P.D.V.: Un pezzo che con Rita ho suonato molto e registrato su un disco che si chiamava Triboh, in una versione in duo che aveva uno sviluppo più verso il free. È un brano che pur senza testo parla dell'eccesso, perché tutti nella vita, specialmente nei momenti di crisi, passiamo per degli eccessi. Mi piaceva perchè la sua melodia puntuta e quella ritmica così particolare esprimevano già bene l'idea dell'eccesso, e quando l'abbiamo registrato ho pensato di farlo diventare un dixieland pazzo da dove partono questi duetti nei quali ognuno si esprime. È una forma di composizione a maglie molto larghe.

AAJ: Dove si rintracciano delle derivazioni stratosiane.

M.P.D.V.: Demetrio Startos è una figura sempre presente nello sfondo. Quando a 19 anni ho deciso di studiare jazz, mi arrivò tra le mani Cantare la voce, e fu uno shock positivo enorme. Da allora ho cominciato a studiare e a fare esperimenti con la voce, e sicuramente nel futuro produrrò un disco di sola voce. Startos è tra i miei riferimenti.

AAJ: A proposito di riferimenti, che mi dici dell'incontro con Betty Carter?

M.P.D.V.: Un incontro breve ma intenso. Lei era molto tosta, dura, mi disse: «se vuoi fare jazz devi rischiare». Ho visto vari suoi concerti che non duravano mai meno di due ore e mezza, era una tigre che non mollava mai la presa, nel senso che voleva e otteneva delle cose con piccoli gesti e dava delle direttive precise ai musicisti che la guardavano con gli occhi spalancati per seguirla. Era in piena gestione delle sue prerogative di cantante di jazz. Un cantante di jazz deve essere un musicista, deve essere un arrangiatore, deve essere capace di dirigere e nello stesso tempo stare nell'interplay in maniera tale da essere pronto a cogliere qualsiasi stimolo che venga da parte dei musicisti. Sul palco faceva delle cose veramente ardite, come stracciare letteralmente gli standard. La sua durezza è stata importante e mi ha fatto capire che ci voleva tanto coraggio.

AAJ: Tornando a Mind the Gap, in riferimento alla tematica principale, c'è uno sfondo autobiografico?

M.P.D.V.: Sicuramente c'è, anche se non legato a un fatto specifico. Tra i miei interessi ci sono la psicanalisi e le scienze umane, cose che utilizzo anche nei miei processi di insegnamento. In qualche modo per me ogni canzone ha dentro un'esperienza che io ho fatto. Ti confesso che uno dei miei brani preferiti è "I Invented You," dove c'è praticamente la storia capitata a me e a migliaia di persone, di quando incontri qualcuno che ti piace, lo idealizzi e inizi a vedere dentro di lui tutte le cose che ti piacciono a te, anche se con l'andar del tempo ti accorgi che la realtà non è propriamente così.

AAJ: Un disco dove, oltre alla voce, c'è una tessitura musicale molto appropriata.

M.P.D.V.: La squadra di musicisti non è casuale. Ci saranno due punti dove è riconoscibile un assolo di qualcuno. Ho scelto dei musicisti capaci di improvvisare dialogando, dove si lavora più sull'insieme sonoro che sulla bravura del singolo solista. Ho trovato un gruppo meraviglioso, adatto anche per comporre in maniera particolare. Molte melodie sono frutto di improvvisazioni con il testo, che è una pratica che attuo da quando ho fatto Tumulti. Di questa cosa sono molto contenta perché mi consente di scrivere in maniera diversa.

AAJ: Nei dodici brani si ascolta un'ampiezza stilistica rara. Ti chiedo, come cantante, preferisci l'abito da sera o le scarpe da ginnastica?

M.P.D.V.: (Ride, ndr). Diciamo che ho bisogno di dare voce a tutte le voci che ho dentro. Io sono tutte queste cose. Sono felice di stare sul palco con l'abito da sera, e sono felice anche di essere una specie di scugnizzo, perché la mia gioia più grande - che poi è il motivo per cui ho fatto questa musica - è essere una musicista in mezzo ai musicisti. Ci sono i miei 15 anni non documentati da cantante di standard e bebop nei club, tutto questo fa parte della mia storia e non voglio buttarne via niente. Se vieni a un mio concerto è probabile che mi trovi in abito da sera e scalza, che non è per fare la fighetta, mi serve perché voglio avere un contatto terragno con la musica, ho bisogno di sentire questa autenticità e che nessuna delle voci possibili venga esclusa.

Foto di Paolo Soriani (la prima) e Claudio Casanova (le altre)

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