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Machine Guns – Le armi soniche del ‘68
ByNel senso che segnano dei momenti nel tempo, ma spesso le forze che si muovono appena prima o appena dopo sono quelle che ci raccontano al meglio il divenire delle cose.
Le date possono essere quindi poco significative, ma non c'è dubbio che la circostanza che nel mitico maggio del 1968 venga inciso quel caposaldo dell'improvvisazione europea che è Machine Gun dell'ottetto di Peter Brötzmann è di quelle che se non si vogliono dire profetiche, non possono però non spingere a considerazioni e analisi.
Senza addentrarsi in una sovrainterpretazione di segni e affinità, proviamo rapidamente a disegnare qualche possibile traccia di riflessione, attraverso una serie di parole chiave che aprono porte verso gli anni appena precedenti e quelli immediatamente successivi.
Sul disco abbiamo già scritto ampiamente in occasione dell'uscita della ristampa per la Unheard Series della Atavistic e basterà qui ricordare rapidamente che la registrazione al Lila Eule di Brema è stato l'esito dell'incontro di idee e personalità che già da qualche tempo si stavano muovendo e cercando, l'esito dell'unione del trio di Brötzmann [con Kowald e Sven-Ake Johansson] con gli olandesi Willem Breuker e Han Bennink, con l'inglese Evan Parker, il belga Fred Van Hove e ancora il contrabbasso di Buschi Niebergall.
Dall'esperienza del New Jazz Meeting di Baden Baden dell'anno precedente - cui fece da catalizzatore quel Don Cherry cui si deve la paternità del nome "machine gun" per Brötzmann - questo disco dal titolo e dalla copertina inequivocabile è, lo dicevamo già in sede di recensione, l'urlo collettivo di un'Europa che si muove a voce estrema, che si trova nuda di fronte ai suoni del mondo, della new thing, ma anche del jazz sudafricano o delle esplorazioni extraeuropee dello stesso Cherry.
La prima parola chiave per connettere il disco agli eventi di quel periodo è certamente comunità, una comunità che inizia ad avere una sua forza e un suo significato all'interno del jazz europeo, che unisce urgenze, legittimazioni, insofferenze, desiderio di rompere con le tradizioni e di trovare una propria voce.
Un'altra parola chiave è rabbia, una rabbia letteralmente "mitragliata" verso l'ascoltatore, che viene così considerato non più solo un soggetto da sedurre e affascinare con la musica, ma anche e soprattutto un individuo da colpire per investirlo di una nuova responsabilità, artistica, sociale ed emotiva. Un ascoltatore che non può più dirsi "estraneo ai fatti," che deve schierarsi, reagire, farsi coinvolgere o resistere per soccombere.
In questo senso la nozione di politico diventa cruciale: il jazz sta evolvendosi da un lato verso una "classicizzazione" e dall'altro apre a pubblici nuovi [quelli che ritroviamo frantumati oggi, dall'occasionale frequentatore di festival estivi al collezionista di vinili, passando per una larga fascia di ascoltatori trasversali], tra i quali una vasta fetta giovanile che, specialmente in Italia, negli anni seguenti abbinerà le istanze della contestazione con quelle del jazz d'avanguardia, non senza contraddizioni su cui si potrebbero scrivere molte pagine.
Ecco quindi che il concetto di jazz armato, con il sassofono tenore da brandire e i suoi proiettili sonori da configgere nel cuore delle convenzioni, trova un terreno forse fragile e illusorio, ma che non gli impedisce di lasciare tracce che ancora "bruciano" creativamente tra gli improvvisatori più irrequieti.
È quasi un passaggio di testimone dal free storico: Coltrane è morto da un anno, Ornette Coleman, è appena passato con il suo quartetto anche in Italia e incide in quei giorni - con Dewey Redman e la ritmica storica dello stesso Coltrane - i dischi New York Is Now! e Love Call; per Archie Shepp sono i mesi di The Way Ahead, prima della sbornia di incisioni parigine dell'anno successivo; Ayler incide Love Cry e quel New Grass che comunque lo si voglia giudicare rappresenta comunque un'arma sonica assai meno crudele di quelle che aveva esibito negli anni precedenti.
Ma le bombe sono esplose e non è forse un caso che gran parte della ricerca improvvisativa degli ani successivi, quella della scuola AACM in primis, sia anche modellata su frammenti, su scarti di senso, su un multistrumentismo che è strategia straniante, su un rapporto con la tradizione che vive di dialettiche in movimento.
Molta acqua è passata sotto i ponti da quelle registrazioni di Machine Gun, bagnando talvolta i piedi con spumeggiante disillusione, ma riascoltare oggi quel disco, nella sfaccettata ricchezza delle sue armi soniche [ben più varie di quanto l'immagine belligerante alla fine suggerisce], non solo nella title-track, ma anche nelle splendide "Responsible" e "Music for Han Bennink," è un'esperienza imprescindibile.
Il '68 è stato anche questo.
Foto di Gérard Rouy (la terza e la quarta).
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