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L'Olandese Calante

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Di Francesco Cusa, ben noto jazzista che ora si produce anche come scrittore sotto lo pseudonimo di Frank Usa, abbiamo già riedito una novella ("La dirimpettaia"). Ora ne proponiamo una seconda. Ognuna delle novelle di Cusa, ironiche e sulfuree, si ispira ed è dedicata ad un personaggio reale (un amico, un musicista... che nella fiction conserva fra l'altro il suo vero nome): il protagonista dell'Olandese Calante altri non è, evidentemente, che il contrabbassista olandese Marko Bonarius, che per un periodo ha vissuto in Sicilia, suonando appunto anche con Cusa.

In questo caso abbiamo rispettato interamente l'impaginazione voluta dall'autore, riguardo in particolare agli a capo. Alcuni racconti di Cusa sono già stati pubblicati in raccolte di autori vari edite da Giulio Perrone Editore; quelli già editi ed altri inediti dovrebbero uscire in autunno per i tipi della Eris Edizioni.

Marko non sapeva di essere il discendente dell'Olandese Volante. Era un ottimo contrabbassista, alto, biondo, bello e malinconico. La vita avrebbe potuto sorridergli senza alcun dubbio, tuttavia egli era ossessionato: aveva l'ossessione dell'intonazione.

Tutto il suo essere e la sua ragion d'essere parevano tendere verso questo ideale stato di realizzazione sonora, come un rovello, una malattia perversa, una fissazione che finivano per renderlo personaggio scomodo, paranoide ed irascibile. - Faccia al muro Marko! Faccia al muro! -, e si puniva, nel sentire la pur minima inflessione, nel percepire ogni sfumatura d'imperfezione per i silenzi delle alte pareti di casa, quando il suono s'acquietava e rimaneva lo stridore, come il graffio da pescheria di una gatta rognosa. Ore ed ore vanamente spese con l'archetto in mano e lo strumento: lo sguardo vitreo alle pareti grigie e scrostate dall'umido. Ore che erano diventate anni passati alla ricerca di una somma perfezione, mediante uno scandaglio mefitico che lo rendeva vieppiù esausto, affaticato, insofferente. Sempre più prese a rifiutare concerti, audizioni ed esibizioni pubbliche, limitandosi giusto a quei tre, quattro allievi che gli consentivano di sopravvivere con le lezioni private. Il resto era ricerca ossessiva e sonnolenza, rifugio nel sonno e barlumi di furore all'archetto, sprazzi d'ardore domestico ed acquiescenza tra gli acari. Fu così che le ombre dell'onirico finirono col prendere il sopravvento sulla morbosa concitazione del musicista, spesso cogliendolo alla sprovvista nei rari momenti di quiete, mentre stava a guardare il grigio panorama della pianura tra scrosci di pioggia, o durante la solita maniacale analisi minuziosa degli accrocchi verde-giallognoli sulle pareti stanche. Era così, con gli arti anchilosati, che sempre più spesso Marko si ritrovava sul pavimento della cucina, tra i rifiuti sparsi fin nel salotto, svegliandosi stupefatto, incredulo, sconvolto.

Non riusciva più a discernere se il suo deliquio potesse aver, appunto, parvenza d'onirico, se fosse frutto del predominio della narcolessia. Durante quegli abbandoni, egli si ritrovava ad essere ritto su una zattera, nella notte di un oceano piatto e scuro, senza vento né luce, se non quella di un barlume purgatoriale, e si riscopriva conficcato, come il punteruolo del suo contrabbasso fra le assi inerte di quel natante, in un limbo senza riferimenti, in un oceano senza limiti. Un puntino d'umanità aberrante su una misera, rabberciata imbarcazione, il cui albero, costituito dal manico del suo contrabbasso, recava penzolante una floscia, macera e corrosa bandiera olandese. Aggrappato al suo strumento natante, dopo alcuni istanti di smarrimento, Marko, magicamente, sentiva espandersi dal basso ventre, come da una tisana calda stillata dal suo stesso plesso solare, una benefica irradiazione di vigore, un prezioso medicamento atto a sciogliere quel maledetto ganglio di furore che lo attanagliava allo stomaco, a librarlo in forme di sfere radiose e luminescenti di desiderio, di brama irrefrenabile d'espressione. Era in quel silenzio agghiacciante, in quella bruma di sensi, che Marko poteva finalmente respirare e sorridere, godere di uno stato salutare, di un atteggiamento dell'animo talmente favorevoli, da disporlo ad impugnare delicatamente l'archetto ed avvicinarlo con grazia alle corde dello strumento per trarne fuori il più perfetto e armonico dei suoni. Oh!... quanta bellezza e limpidezza! Che nitidezza corposa dei bassi! Quanta perfezione sferica in quel riferimento tonale che sembrava trasalire la logica del sistema ben temperato per accogliere, onnicomprensivamente, quella di tutti i sistemi presenti in natura; ogni scala, ogni modo, ogni giustapposizione di nota... Sublime...Sentiva quel suono continuo, indefesso, privo d'asperità, riverberarsi per ogni dove: davanti e dietro di sé, all'interno ed all'esterno del suo corpo, per le assi scalcinate della zattera, nello sciabordio delle acque, continuo, senza inflessioni, imperituro. I risvegli finirono con l'essere sempre più scioccanti. Le gocce del rubinetto che perdeva in cucina. Il ronzio del frigorifero. Persino i tarli della vecchia ed emaciata credenza. Quel suono...quel suono orribile che la realtà concreta e materica, fatta di cigolii del legno, di stridori di punteruoli sulle piastrelle sporche, di ticchettii subdoli d'orologi, quella torma di rumore sordo propria della morfologia dell'esistenza, attinente al respiro, alle produzioni organiche di scarti, quel cadere falsamente muto dei frammenti di pelle, quel depositarsi di polvere assordante ed indefesso, quel ronzare d'elettroni attorno al nucleo, finiva col prostrare e fiaccare le resistenze di Marko, costringendolo in posizione fetale: le mani a coprire disperatamente le orecchie, in una smorfia d'urlo sordo, fra rivoli di bava.

Quello che scrisse sul muro col punteruolo, dopo averlo strappato allo strumento, fu una data estiva: il 30 giugno. Nessuno saprà mai perché. Il cadavere fu ritrovato molti giorni dopo in avanzato stato di decomposizione. Al medico legale, un uomo con particolare propensione per i gialli, non sfuggì quel piccolo disegno sul muro. Ricavata a graffi, realizzata ad unghiate, in basso, sulla parete sinistra, dietro al televisore, stava la miniatura di un vascello recante bandiera pirata, talmente verosimile ad una fotografia da rasentare il preziosismo spagnolo. Di nascosto e con lo scalpello, il dottor La Guardia tentò di asportare quel pezzetto di muro, pensando di poterlo poi successivamente analizzare con calma presso il laboratorio di un suo caro amico orafo e collezionista di reperti e manufatti d'epoca. Incautamente però, vuoi per la fretta, vuoi per la paura d'essere beccato, finì con lo sbriciolare per sempre quella traccia. Ne parlò solo con sua moglie, una sera di molti anni dopo, a letto, mentre lei già quasi dormiva. Poi spense la luce e sognò una faccia nipponica, il Fiume Giallo, un bungalow, delle pepite, un barattolo di Ovomaltina, una falce e martello e la Callas.

Foto di Patrizia Ferro (Cusa).

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