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L'eredità parkeriana

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I Quaderni del Jazz, editi nel maggio di ogni anno dal festival Vicenza Jazz - New Conversations, contengono contributi specialistici di vari autori su temi circoscritti. Dal Quaderno del 2005, dedicato alla figura di Charlie Parker, abbiamo tratto per Déjà lu un saggio di Stefano Merighi, che ringraziamo per la disponibilità.

Indicare un'eredità parkeriana è azzardare una teoria le cui basi si rivelano presto di inconsistente fragilità.

Narrano i biografi che Parker desiderava più di ogni altra cosa affinare la sua preparazione teorica, studiare con i contemporanei europei. Ross Russell, proprietario della Dial Records e autore di "Bird Lives!," scrive che poco prima di morire "Charlie fece visita al compositore d'avanguardia Edgar Varèse, e lo trovò che faceva i bagagli per andare in Francia. Charlie ancora una volta parlò del progetto, mai messo in atto, di studiare con Varèse. 'Prendimi come faresti con un bambino,' disse al francese. 'Io voglio una base solida. Uno strumento solo non è abbastanza. Voglio scrivere per molti strumenti, per delle voci, una sinfonia o un'opera.' Varèse disse a Charlie di farsi vivo la settimana dopo Pasqua al suo ritorno a New York".

Sappiamo come andò: Parker morì il 12 marzo, era il 1955, non vide mai quella Pasqua. Non sappiamo altresì quali strade avrebbe intrapreso il suo slancio creativo se le condizioni materiali della sua esistenza gli avessero permesso la libertà di scelta.

Dunque a che Parker ci si deve riferire quando si voglia indicare un piccolo insieme di artisti eredi delle sue intuizioni musicali?

Al genio del sax alto, capace di incendiare le jam-session e di rifondare l'intera sintassi dello strumento? All'eroe del bop, movimento rivoluzionario comunque frutto di determinate condizioni e coincidenze storiche, irripetibili nell'immediato futuro? Oppure al visionario musicista che voleva immettere il suo inarrivabile talento di improvvisatore in un contesto di nuova scrittura, e che nel frattempo si accontentava di un contorno di qualche violino, viola, violoncello, arpa?

In sostanza, non sappiamo fino in fondo quale fosse il destino della musica parkeriana, non sappiamo cioè se i suoi primi 35 anni avessero esaurito la sua parabola artistica o, al contrario, avessero soltanto posto le basi per un'ulteriore rivoluzione. Certo che la frenesia innovativa del bop era lo specchio dell'audacia e della consunzione psico-fisica di molti suoi protagonisti - e Parker primo tra questi, ovviamente -; dunque non si vede come un lucido autocontrollo combinato con una salute recuperata avrebbe permesso a Parker di oltrepassare quelle barriere estetiche che tanto lo angustiavano. Eppure...

La questione ci sembra interessante alla luce dei molteplici sviluppi che la storia della musica africana-americana ha conosciuto da lì in avanti.

La musica di Charles Parker, malgrado le sue straordinarie qualità trascendentali, è come tutte le altre inserita nel contesto socio-culturale dell'epoca. Risente dunque di tutte le limitazioni di cui il soggetto creativo soffriva. Una povertà costante, dovuta all'incapacità di inserirsi nelle regole del business e allo sfruttamento operato da discografici, manager, promoter; ma anche una voglia di vita eccezionale che portava Parker a consumare ogni fibra del suo essere nell'immanenza del quotidiano. Con conseguenze prevedibili: squilibri nervosi, necessità di sopravvivenza che non permetteva alcun tempo ozioso, inteso come tempo di riflessione o di sviluppo progressivo di metodi, idee estetiche, organizzazione del lavoro.

Dunque Parker esauriva il suo talento nelle poche ore di sala di incisione, e nelle notti dei jazz-club, alternando una miracolosa lucidità all'euforia da tossicodipendenza fino al collasso e alla perdità del sé. Alcuni boppers usciranno da questo circolo vizioso in virtù di una nuova consapevolezza socio-politica: Max Roach e Charles Mingus insegnano. Ma Parker muore troppo presto e la sua figura si proietta mitologicamente quale "artista maledetto" del jazz. Impossibile confrontare le sue condizioni di produzione creativa con quelle di autorevoli autori di oggi, in grado di controllare al dettaglio la propria attività, di suddividere il tempo tra studio, ricerca, dischi, concerti, tournèe.

E dunque di che eredità andremo in cerca guardandoci intorno nella pluralità delle musiche contemporanee?

C'è un punto di vista tutto interno al jazz come codice stabilito una volta per tutte; questo individua nel bop l'apoteosi della sua evoluzione. E dunque prescrive una fedeltà quasi filologica nei confronti della sua grammatica, come se questa fosse impermeabile ai mutamenti estetici.

In questa prospettiva l'eredità parkeriana si intravede nel lavoro tenace di molti altosassofonisti che ne hanno imitato il linguaggio e di cui oggi è pieno il mondo. A dire il vero, alcuni "allievi" ideali di Bird hanno avuto la forza in seguito di abbandonare il mero ricalco e di intraprendere tragitti di una certa originalità che, pur senza indicarli come caposcuola, ne hanno sancito il magistero per lunghe decadi. Si possono citare a questo proposito Julian "Cannonball" Adderley, Phil Woods e Jackie McLean, solo un decennio più giovani del maestro ma già fuori dal nucleo "storico" del bop (che comprendeva invece Sonny Stitt). Ma ve ne sono ovviamente molti altri.

Questo metro di analisi non è cambiato nella contemporaneità, ma se ci accostiamo alle voci contraltistiche degli anni Ottanta e Novanta, c'è qualcuno che sosterrebbe sul serio un paragone artistico tra Parker e, che so?, Donald Harrison, Vincent Herring o Kenny Garrett? Queste note solo per dire che non basta certo suonare "alla maniera di" per approfondire e rivelare l'insegnamento del modello.

Dagli anni Settanta in avanti, ci sembra che, all'interno di questa scuola espressiva - chiamatela post-bop, se vi va - solo Bobby Watson e Massimo Urbani (e forse in certa misura l'inglese Peter King) si sono distinti per mettere a frutto il "parkerismo" in maniera feconda.

In particolare Urbani mostrava una volontà utopica non accomodante, che riusciva a collegare la forza dionisiaca derivata da Parker con la conoscenza di Coltrane e Ayler, in una sintesi di grande originalità.

Ma, a ben vedere, una presunta eredità parkeriana va cercata altrove.

Se si discute di questo problema alla luce della sola musica americana dell'ultimo decennio, si va ben poco lontano: prima di tutto perché non ne abbiamo ancora digerito la sostanza, in secondo luogo perché in particolare il mondo del jazz continua a rapportarsi a queste figure-chiave secondo parametri "mitologici" che ne idealizzano l'icona piuttosto che sviscerarne le possibilità.

Dunque sembra giusto individuare un approfondimento delle intuizioni estetiche di Parker a partire dagli anni immediatamente successivi la sua scomparsa, anni in cui l'insieme delle condizioni socio-culturali della produzione di musica in America erano ancora paragonabili a quelle del bop, e in cui si erano create le premesse per la cosiddetta new thing.

E per essere brevi, converrà citare soltanto sassofonisti, come viene naturale, a costo di escludere molti musicisti che concettualmente rilanciano la lezione parkeriana pur esprimendosi con strumenti diversi.

Le grandi novità riguardanti un'ipotetica consegna del testimone parkeriano vengono intuite, in contesti diversi ma dialoganti, da Eric Dolphy e Ornette Coleman. Due solisti e compositori istantanei che integrano sia la capacità di Parker di oltrepassare i confini del cosiddetto jazz pur condividendone la cultura e l'educazione, sia la sua volontà di tentare altre strade, magari, come già accennato, attraverso incroci con i linguaggi delle avanguardie europee.

Vi sono molti esempi convincenti di questo doppio impegno sia in Dolphy che in Ornette, i quali sono stati spronati in maniera significativa da due teorici fondamentali per quegli anni come Gunther Schuller e George Russell [ecco una bella suggestione: cosa sarebbe accaduto nella musica di Parker se Russell avesse potuto accettare di lavorare con lui?]

Le tracce di Parker in Dolphy sono più che evidenti non tanto nella ripresa dello stile strumentale (che pure c'era) quanto nell'elaborazione di un surplus rispetto alle convenzioni date che Parker non aveva avuto il tempo di sviluppare: lo studio degli intervalli melodici come elemento strutturale, con la conseguente retrocessione degli aspetti armonici; la tendenza a trascendere insomma la gabbia musicale circostante, che sembra sempre in ritardo rispetto alla folgorante intelligenza del solista. Ma Dolphy se ne va a 36 anni, diventando a sua volta una figura di culto per le generazioni successive.

E' Coleman, allora, che spinge alle estreme conseguenze la ricerca in questione. Con lui, si arriva alla vaghezza armonica, al "canto libero" come spesso si è detto, che fonde come mai prima l'identità fondamentale del blues (che per Parker era ineludibile) e l'improvvisazione visionaria.

Se accettiamo di porre questi due autori come crocevia verso il futuro (e perché non Coltrane, o Davis, o Ayler, o Shorter? Ma perché stiamo discutendo di un percorso "parkeriano" e non si vuole allargare troppo il discorso...), allora potremo raffigurare una mappa i cui percorsi si snodano tortuosamente fino ai nostri giorni, pur tra mille contraddizioni.

L'"indicatore" Dolphy, in questo tragitto, ci porta a considerare da una parte i nuovi orizzonti della AACM di Chicago, dove l'autore che più ha dialogato con Charles Parker e Eric Dolphy è stato senz'altro Anthony Braxton; dall'altra la pluralità delle esperienze autonome del nuovo jazz europeo, segnate in questo senso da ottimi artisti di casa nostra come il Gianluigi Trovesi prima maniera e dal recente Stefano Di Battista, elogiato ovunque per le sue fresche "riflessioni parkeriane".

L'"indicatore Coleman" conduce invece ad una rete di percorsi labirintica. La radicalità ornettiana ha ispirato tutti gli innovatori più interessanti degli ultimi decenni, che, collegandosi alla matrice blues di quella sovversione, proseguono ellitticamente anche la lezione di Charles Parker: si può coprire uno spettro di artisti che va da John Tchicai fino a Tim Berne, passando per Sonny Simmons e Arthur Blythe.

Ma un sassofonista-improvvisatore su cui bisognerebbe tornare a riflettere in questo senso è Julius Hemphill, il più visionario, in grado di offrire saggi intensi sia di immediata devozione parkeriana (Kansas City Line, in "Blue Boyé") che di immaginare una proiezione strutturata per quattro sassofoni (il World Saxophone Quartet) di quell'universo sonoro. Così come, se ci soffermiamo sulla scrittura e sull'arrangiamento, di riflesso pensiamo a David Murray, che negli anni 80, come scrive Claudio Sessa, si richiama alle composizioni "contrappuntistiche" di Charles Parker, Chasin' the Bird e Ah-leu-cha.

Il festival di Vicenza riscopre con merito il talento "antico" di Charles McPherson che, dopo le glorie mingusiane, ha sempre approfondito il sentimento di filiazione esplicita nei confronti di Parker, riprendendo di recente il programma "Bird with Strings" insieme alla Cleveland Chamber Orchestra, infondendo a quei materiali nuove emozioni; così come si appresta a fare al cospetto del progetto "Massey Hall" qui al teatro Astra, nell'epilogo festivaliero.

Ma se Ornette Coleman ha dato la stura a tutte queste possibilità, è con un altro Coleman, Steve, che ci piace concludere questa breve disamina. Steve Coleman appare come l'ultimo grande artista afroamericano che interpreta la storia del jazz come work in progress, nel segno di un progresso stratificato in opposizione al frammentismo della "postmodernità". "La musica di Charles Parker è probabilmente quella che ha esercitato la più grande influenza sulla mia musica. Non ho mai voluto copiare quello che Parker ha fatto, non è quello che "influenza" significa per me. Considero Parker come un compositore maggiore, soprattutto come un compositore spontaneo. E' anche qualcuno a proposito del quale utilizzerei l'analogia con il ruolo del maestro-tamburo all'interno delle società tradizionali dell'Africa Occidentale. Per me, Parker traduce queste idee combinate attraverso uno stile che è una specie di blues futurista, all'interno di qualcosa che può esprimere la vita, quella di un africano-americano del XIX secolo." Così Steve Coleman in una intervista recente.

I suoi sacri testi sono ancora "Confirmation," "Salt Peanuts," "'Round Midnight," però rielaborati in un contesto di nuova poliritmia, dove musica iniziatica e codici popolari trovano una sintesi felice e dove il linguaggio strumentale riprende Parker nella concitazione, velocità, nei movimenti vertiginosi interni ai pezzi, nelle insistenze lessicali, nel distacco intellettuale. Steve Coleman torna a riflettere sul bop senza passare per il manierismo dei propri coetanei.

Foto di Claudio Casanova (Ornette Coleman, Steve Coleman)

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