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Le orchestre di improvvisazione: il problema del repertorio
Ritessere le fila Le orchestre d'improvvisazione e il repertorio: questa è la 'scivolosa' tematica da me prescelta con il fine di proporre alcuni elementi di analisi - non solo teorica - e soprattutto qualche indicazione utile per chi produce, oggi, nuova musica. In questo senso mi pare opportuno ripartire da alcune importanti considerazioni espresse da Claudio Sessa durante il convegno dell'anno scorso, nella sua relazione "L'orchestra d'improvvisazione: Ancient to the Future". Egli individuava "tre componenti di base: la struttura eterodossa dei ranghi strumentali; il desiderio di uscire dalle convenzioni compositive; la libertà data ai solisti". A livello strutturale Sessa ricordava l'uso del riff e l'alternanza tra "pieni" e "vuoti" orchestrali, fra momenti scritti, quindi corali, e momenti improvvisati, individuali. Decisamente forte, inoltre, il suo richiamo a Sun Ra ed alla sua Arkestra, una sorta di archetipo delle attuali orchestre d'improvvisazione per una serie di specifici motivi: rapporto umano e musicale stretto tra i componenti della band; variabilità della formazione; uso di strumenti eterodossi e polistrumentismo; scelte stilistiche eclettiche; forte presenza delle percussioni; limitata - se non nulla - influenza del bebop. Da Sun Ra (sempre secondo Claudio Sessa) sono discese in qualche modo la Globe Unity, le formazioni orchestrali guidate da Bill Dixon e Muhal Richard Abrams e, per certi versi, anche la Jazz Composer's Orchestra di Carla Bley e Michael Mantler. Infine, e la smetto di citare l'amico Claudio, viene sottolineata l'importanza della scuola di Chicago nella sua storicizzazione (unita al superamento) del free, nonché il ricollegarsi al policromo passato sonoro afroamericano, integrato dagli uomini della Aacm "organicamente, direi senza detriti visibili, nelle proprie conquiste tecnico-espressive" mediante un enciclopedico richiamo agli stili precedenti.
Il nascere e l'evolversi di un repertorio: Brotherhood of Breath Scorrendo le caratteristiche della Arkestra e guardando all'Europa come fertile laboratorio per il jazz, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta, non ho potuto fare a meno di pensare alla Brotherhood of Breath del pianista, compositore ed arrangiatore sudafricano Chris McGregor. In questa big-band nata come laboratorio nell'ottobre 1967 (il nome definitivo lo assunse nel marzo 1969) e sopravvissuta fino al 1989, ci sono tutti gli elementi richiamati per la formazione di Sun Ra e se ne riscontrano altri che la rendono davvero importante nel panorama delle orchestre di improvvisazione. Il rapporto umano vi è sempre stato essenziale anche quando gli storici esuli sudafricani, provenienti dai Blue Notes, si allontanarono dalla big-band o scomparvero; il legame, esistenziale e sonoro, rimase sempre fortissimo come testimoniano per altri versi gli album tributati via via agli amici morti dai sopravvissuti ("Blue Notes for Mongezi," 1975; "Blue Notes for Johnny," 1987). La Brotherhood of Breath - che ha avuto sede in Inghilterra, si è esibita molte volte in Francia ed ha girato dall'Europa al Mozambico - fu, in senso pieno, un gruppo interetnico, con jazzisti sudafricani (Mongezi Feza, Dudu Pukwana, Ronnie Beer, Harry Miller, Louis Moholo...), inglesi (Malcolm Griffiths, Nick Evans, Marc Charig, Alan Skidmore, Mike Osborne, John Surman, Evan Parker), europei (l'austriaco Radu Malfatti) e molti portarono il loro contributo a livello di composizione scritta o di composizione istantanea (improvvisazione).
La sua profonda interrazzialità (che è caratteristica fondante del jazz) si vede anche nella presenza simultanea e nella sovrapposizione di ritmi africani ed afroamericani nonchè nell'utilizzazione di melodie e figure ritmiche di origine popolare e folclorica. L'essere stata - con largo anticipo e lucida coscienza politica - una formazione interetnica e multirazziale mi sembra davvero importante se ci caliamo nella situazione odierna, in un'epoca in cui il ritorno ai localismi, le problematiche no-global e la ricerca di una dimensione 'glocal' rendono la questione delle 'radici' (e del loro superamento) sempre più viva e scottante. Fu ancora basilare nei Brotherhood of Breath l'aver "storicizzato il free" mantenendone l'urgenza espressiva, lo scardinamento delle regole eppure coniugandolo ad una coralità/cantabilità/ritualità tipicamente e ancestralmente africane. Il repertorio, invece, in parte derivava dalle precedenti esperienze di McGregor (come la Castle Lager Big Band del 1963) mentre più di frequente era la rielaborazione di materiali di vari autori, concepiti per piccolo gruppo e trasformati per largo organico. E' questa, in genere, la prima fase della costruzione di un repertorio orchestrale, cui segue la creazione di materiali nati espressamente per big band, magari frutto di improvvisazioni elaborate 'sul campo.' Nel caso della Brotherhood of Breath, il pianista e leader McGregor e l'altista Dudu Pukwana furono i principali artefici del repertorio; esso comprendeva anche brani di altri artisti sudafricani (Mackay Davashe, Tunji Oyelana...) e si aprì al contributo di jazzisti inglesi come Nick Evans. Il grande senso di apertura, la fame di libertà sonora, la disponibilità verso i linguaggi altrui erano caratteristiche strutturali di quegli uomini e di quella orchestra scaturite da anni di apartheid politico e musicale.
Andando a riascoltare la Brotherhood of Breath nelle testimonianze discografiche che ci ha lasciato (spesso dal vivo), c'è una serie di brani che resta piuttosto stabile nei primi anni, dall'esordio inglese su vinile (1971) fino al concerto al festival di Willisau (gennaio 1973): "Davashe's Dream," "Union Special," "Andromeda," "Mra". Questi ultimi due rimarranno in repertorio quasi vent'anni,trasformandosi in autentiche icone sonore. Altri pezzi ("Country Cooking," "Sangema") caratterizzeranno le rinascite della band, come la terza avvenuta alla fine degli anni Ottanta, quando il solo McGregor rappresentava la continuità con il passato mentre molti giovani musicisti inglesi (da Annie Whitehead a Julian Arguelles) e sudafricani (da Claude Deppa a Gilbert Matthews e Sonti Ndébélé) erano felici di poter militare nelle sue fila. Con il passare del tempo, con il mutare delle formazioni i pezzi cambiano di segno, di significato, assorbono i mutamenti espressivi. Qualche esempio, per capirci meglio. "Davashe's Dream" nell'esecuzione in studio del 1971 è una toccante ballad in cui l'orchestra è scintillante e perfetta mentre l'alto di Pukwana e la tromba di Mongezi Feza screziano con il loro solismo unico la quieta atmosfera. Lo stesso brano, dal vivo a Willisau, perde in coerenza e nitore, si sfilaccia, si apre al contesto maggiormente improvvisativo e più free, si universalizza nella condivisione con altri artisti. Allo stesso modo l'epigrammatico "Union Special" (paragonato attraverso gli stessi album) da brillante e virtuosistico 'sipario' per le sezioni orchestrali (memore della tradizione musicale e corale dei sindacati sudafricani) diventa una marcetta ironicamente sbrindellata, una parodia di sé stessa.
Se parliamo di repertorio e di musicisti sudafricani, però, bisogna necessariamente aprire il capitolo della Dedication Orchestra, dato che negli anni Novanta si celebra un riconoscimento importante e significativo all'opera di Chris McGregor e compagni. Nel 1992 la Ogun - etichetta fondata dal contrabbassista Harry Miller e portata avanti dalla moglie Hazel - pubblica "Spirits Rejoice," primo Cd della Dedication Orchestra, seguito nel 1994 dal doppio album "Ixhesa. Time". Un vasto gruppo di musicisti inglesi (sotto la direzione musicale di Django Bates, Keith Tippett, Mike Westbrook, Evan Parker, Kenny Wheeler, Dave Powell, Alex Maguire, John Law, Ian Hamer, Sean Bergin e Steve Beresford) ha deciso di far rivivere la musica di Nick Moyake, Mongezi Feza, Harry Miller, Johnny Dyani, Chirs McGregor e Dudu Pukwana. Raccolti attorno all'inossidabile Louis Moholo - batterista dei Blue Notes e della Brotherhood of Breath - , sono stati ripresi temi e composizioni dalle uniche fonti possibili - dischi pressoché introvabili - per restituirli nello splendore di una dimensione orchestrale e corale. Studiando ed elaborando i brani si è giunti ad una conclusione sorprendentemente simile a quella cui è arrivato Giorgio Gaslini lavorando sul repertorio di Albert Ayler: la sostanza compositiva di questi musicisti supera le semplicistiche definizioni di free o musica popolare per attingere ad una ricchezza e ad una complessità notevoli. La varietà degli autori - con una significativa rappresentanza di McGregor e dei brani della Brotherhood of Breath - trova rispondenza nella vastità di un repertorio che annovera almeno sei tipologie: 1) composizioni caratterizzate da un linguaggio free di dimensione orchestrale o più ristretta; 2) veri e propri inni dalle melodie ora ampie ora rabbiose; 3) brani ispirati ritmicamente o melodicamente alla musica popolare sudafricana, soprattutto kwela, che riprendono strumentari o giocano su brevi cellule danzanti di poche battute, arricchite da polifonie intrecciate; 4) alcune ballad commosse e commoventi; 5) composizioni contrassegnate dalla presenza di un testo cantato o recitato, ora solari ora epiche e strazianti; 6) blues canonici ma saturi di energia. E' una ricchezza musicale, ed interiore, infinita quella che scaturisce dal repertorio dei jazzisti sudafricani, un patrimonio che l'iniziativa della Ogun ha il pregio di far conoscere e diffondere perché, come dice Louis Moholo, è necessario "gone but not forgotten".
Merito grande è anche della Dedication Orchestra (ha effettuato un tour in sei date nel marzo scorso, in Inghilterra) nelle due edizioni che ha raccolto il meglio del jazz inglese, sia coloro che hanno strettamente vissuto a contatto con i musicisiti sudafricani ma anche la generazione successiva. Opera collettiva, con arrangiamenti di alto livello, i due Cd della Dedication Orchestra rappresentano un campionario esauriente di come si possa utilizzare una big band su un repertorio non canonico. Eminentemente antiaccademici, i sudafricani esuli hanno di fatto creato un corpus di brani che non è il caso di dimenticare, anzi è lecito, importante, opportuno tenere vivo e tramandare con il suo senso del divenire. Per testimoniare questa evoluzione continua, questa memoria viva che non si fa revival si prendano i due brani-simbolo dei Brotherhood of Breath: "Andromeda" e "Mra". Il primo nella versione della Dedication Orchestra del 1992 ha un nuovo arrangiamento di John Warren in cui la perfezione e la magnificenza della big band rifulgono. C'è, infatti, una nuova sezione nata dalla sovrapposizione di due figurazioni ritmiche tipiche della musica sudafricana. Inoltre c'è una parte free in cui Evan Parker al sax tenore e Keith Tippett al piano improvvisano; poi riparte l'orchestra con il tema ma Parker continua ad improvvisare alla sua maniera. Operazione riuscita: esaltare ciò che rendeva straordinari i sudafricani, il loro patrimonio poliritmico originario (così vicino alla danza e all'espressione corporea); la capacità di aprire ed aprirsi al free senza rinunciare alla solarità della loro musica (come anche al profondo dolore). Per "Mra" - nella versione del 1994 della Dedication Orchestra - l'arrangiamento di Sean Bergin insiste sulla libertà improvvisativa, sul bisogno di aprire finestre in un brano scritto e monolitico nel suo incredibile e cinetico incastrarsi di sezioni e nell'alternanza tra scansione ritmica sudafricana e scansione jazz. Bergin inventa una introduzione che affida alla tromba di Harry Beckett che improvvisa liberamente prima che entrino le sezioni, sezioni il cui gioco è ulteriormente arricchito dall'arrangiatore (il brano, lo ricordo, era di Dudu Pukwana ed apriva l'album del 1971 della Rca/Neon Records).
Alcune tendenze contemporanee: la New York Composers Orchestra Tra il 1986 ed il 1994 - periodo in cui la musica dei Brotherhood of Breath vive la sua ultima stagione prima di essere 'repertorizzata' -, nascono due esperienze orchestrali che ben sintetizzano tendenze e percorsi dell'ultimo decennio e degli anni post-2000. Nel 1986 viene fondata la New York Composers Orchestra con il dichiarato proposito di commissionare ed eseguire nuovi lavori per orchestra jazz. Condirettori del progetto sono i pianisti/tastieristi Wayne Horvitz e Robin Holcomb che raggruppano attorno ad essi musicisti dell'area newyorkese e compositori come - oltre a se stessi - Marty Ehrlich, Doug Wieselman, Anthony Braxton, Elliot Sharp, Lenny Pickett, Bobby Previte. La NYCO produce due album: "The New York Composers Orchestra" (1990); "First Program in Standard Time" (1993), entrambi per la New World Records / Countercurrents. Al di là degli esiti artistici, sempre piuttosto elevati, è la filosofia che sta dietro al progetto che desta interesse. Per Wayne Horvitz si tratta di praticare un linguaggio meno avanzato di quello con cui si esprime nei gruppi con John Zorn, Tim Berne, Bill Frisell, con il suo organico The President, nelle performance al The Kitchen o alla Knitting Factory. Il tastierista dichiara: "I organized the Orchestra as an antidote to the other things I was doing," soggiungendo "I wanted to see what I could do with something more conservative". E' uno dei membri fondatori che parla di linguaggio "più conservativo," quindi meno innovativo. E' come se la scrittura per orchestra e l'organico stesso generassero una minore libertà, un tempo più dilatato del pensiero sonoro tendente ad essere meno audace. Un altro elemento da valutare è che l'orchestra si sostiene grazie ad una serie di finanziamenti (Lila Fallace-Reader's Digest Fund; Mary Flagler Cary Charitable Trust; New York State Council on the Arts; commissioni dal Musicians of Brooklyn Iniziative MOBI). E' questo argomento di stretta attualità: la New York Composers Orchestra non riesce ad esistere sul mercato musicale: è un luogo di elaborazione che ha bisogno di sostegno e supporto economico, uno spazio per le idee che non sta sul 'mercato'; è una constatazione che ci porta molto vicino alla situazione italiana.
Vediamo ora di analizzare il nuovo repertorio, tenendo presente che spesso è l'orchestra che commissiona ai suoi membri delle nuove partiture. Ci sono vari filoni: brani che prendono spunto da elementi - musicali o non - rock, come "Prodigal Son Revisited" dove ci sono variazioni su un riff derivato dal "Prodigal Son" di Reverend Wilkins, divulgato nell'album dei Rolling Stones "Beggar's Banquet"; "The House That Brings a Smile," ispirato in qualche modo a Richard Manuel, pianista del gruppo The Band. Un'altra serie di brani sembra guardare ad una musica 'ecologica,' di impronta vagamente new age; sono composizioni soprattutto di Robin Holcomb (o Doug Wieselman) come "Nightbirds: Open 24 hours" o l'elegiaco "First Program in Standard Time," brano in forma di suite con quattro parti. Qui prevale largamente la scrittura, con rari spazi di improvvisazione, si lavora soprattutto sugli impasti timbrici, il ritmo ha un ruolo marginale o accessorio. Ci sono invece dei pezzi che recuperano lo 'swing' come elemento (ritmico) caratterizzante e sono molto vicini allo spirito delle big-band: "New Waltz" e "Nica's Day" di Horwitz rispecchiano fedelmente questa tendenza a ricollegarsi, con qualche prezioso e vezzoso manierismo, alla tradizione jazzistica. La parte più avanzata del repertorio è quella che si muove su partiture sperimentali, che coinvolgono e scuotono a fondo l'organico: "92 + (30,32,139) + (108c, 108d) For Creative Orchestra" è un brano di Braxton del 1979 dove la complessità del linguaggio si sposa ad un pulsante senso dell'incedere ritmico; "Skew" di Elliot Sharp porta la New York Composers Orchestra su un terreno di totale sperimentalismo sonoro, con Horvitz impegnato al piano preparato dal suono di gamelan.
C'è ancora un altro fronte che interessa la formazione newyorkese ed è quello delle relazioni con altre forme di espressione artistica. Bobby Previte, batterista del gruppo, propone un "Valerie, explain Pollock": la composizione fa riferimento al leader dell' 'action painting' già 'gemellato' a "Free Jazz" di Ornette Coleman; quella di Previte è una breve storia musicale che prevede momenti di densa improvvisazione collettiva. Restando in ambito di 'arti plastiche,' la materica copertina del secondo album del gruppo riunito da Horvitz è dell'artista Karen Caldicott. In definitiva, grande è il ventaglio dei campi stilistici sondato dalla New York Composers Orchestra, dalla musica contemporanea sino al recupero del jazz per big band secondo un asse tradizionale. Il nuovo repertorio è davvero brillante nella sua caleidoscopicità ed il gruppo dimostra una superba capacità di plasmarsi ed uniformarsi ad universi espressivi tanto diversi, dal razionalismo acuminato di Braxton al sentimentalismo elegiaco della Holcomb, grazie alla qualità dei propri musicisti (tra essi Herb Robertson, Jack Walrath,Vincent Chancey, Ray Anderson, Art Baron, Marty Ehrlich, Bobby Previte).
Se, tuttavia, guardiamo a questa esperienza dal punto di vista della "orchestra di improvvisazione," la NYCO presenta alcuni punti deboli. Innanzitutto il suo porsi come luogo di elaborazione "more conservative" ma, soprattutto, il tipo di relazione che si instaura tra composizione e musicisti. E' una relazione di tipo non strettamente jazzistico e velatamente accademico in cui prevale - quasi sempre - la scrittura sull'improvvisazione (composizione istantanea): sono i piccoli gruppi di Horwitz il luogo sperimentale e più 'democraticamente sonoro' che egli pratichi mentre nella New York Composers Orchestra sembrano ripristinarsi - anche se con caratteristiche proprie - un clima ed una gerarchia quasi accademiche, da musica cosiddetta eurocolta. Emerge nella dimensione orchestrale, se si vuole estremizzare, un lato 'reazionario' che giustifica, ed è il rovescio della medaglia, del versante rivoluzionario di personaggi come Wayne Horvitz e Bobby Previte che hanno lasciato una traccia importante nelle ultime due decadi della vicenda del jazz.
Altre tendenze contemporanee: William Parker & The Little Huey Creative Music Orchestra Prima di parlare del contrabbassista e compositore afroamericano e delle prospettive "ancient to the future" che egli apre, mi preme sottolineare alcuni punti di contatto tra persone ed organici. C'è, ad esempio, un musicista che compare in entrambe le orchestre ed è il suonatore di tuba Dave Hofstra. I due leader, poi, hanno collaborato alla fine degli anni '70 in più occasioni come nel Peter Kuhn Quintet (Kuhn alle ance; Wayne Horvitz al piano ed alle tastiere; William Parker al contrabbasso ed alla tuba; Dennis Charles alla batteria ed Huss Charles alle percussioni) ed in un trio davvero stellare con Horvitz, Parker e Butch Morris (ospite di Horvitz in "Firts Program in Standard Time" e inventore delle 'conductions' - ne ha parlato Giuseppe Vigna nell'edizione 2002 del convegno - che hanno segnato in profondità l'orizzonte delle orchestre di improvvisazione). Al di là di queste significative quanto estemporanee coincidenze di percorsi, con la Little Huey Creative Music Orchestra torniamo nel raggio di azione di Sun Ra e dell'esperienza chicagoana, nell'ambito delle esperienze e delle pratiche orchestrali di Charles Mingus, nella musica derivata dal 'ring shout' secondo gli studi di Samuel Floyd jr., torniamo nel cuore della produzione sonora afroamericana in cui i ruoli e i valori cambiano, sono radicalmente altri.
Procediamo, però, con un po' di calma. L'orchestra viene fondata nel gennaio 1994 da William Parker e deve il suo nome (Little Huey Creative Music Orchestra) alla memoria di un giovane poeta morto diciottenne nel South Bronx, Huey Jackson. Parker, in totale coerenza con la storia della musica nera, ritiene l'improvvisazione una forma di composizione: "everytime we improvise we are spontaneously composing". Non basta, egli lega la produzione di suoni ad un senso spirituale e politico dell'esistenza, ad un'idea militante del fare musica che non è sterile ideologismo quanto pratica concreta, trasmissione di valori, richiamo ai sentimenti più profondi dell'essere umano. Se la New York Composers Orchestra aveva due 'coordinatori' (Wayne Horvitz e Robin Holcomb) ed una serie di compositori 'satelliti,' la Little Huey Creative Music Orchestra ricorda da vicino la Arkestra di Sun Ra: la figura di William Parker, in un ruolo meno gerarchizzato, rappresenta il catalizzatore ed il motore di tutto il collettivo, un'area di musicisti newyorkesi che frequenta luoghi simili a quelli dei 'composers' ma con esiti diversi.
Questo discende, però, dall'idea di orchestra che Parker porta avanti, sulla scia degli head-arrangements di Count Basie, dei workshop di Mingus, delle orchestre di Gil Evans, delle esperienze dei collettivi free e post-free. "La Little Huey Creative Music Orchestra è composta di sette settori: 1) tromboni 2) trombe 3) sax baritono / tuba 4) sax soprano e tenore 5) sax alto 6) batteria 7) contrabbasso. Queste sezioni possono essere paragonate ai rami di un albero che fanno parte di un corpo principale (fusto) ed affonda le sue radici in un terreno chiamato suono. Ogni settore ha la possibilità di iniziare l'idea di autoconduzione (self conduction). L'auto conduzione è un'idea di direzione / conduzione da soli dentro e fuori le sezioni di una composizione. E' la stessa idea che si può usare in un piccolo gruppo come un trio o un quartetto. Ogni musicista in una sezione può suonare materiale composto o prearrangiato. C'è anche la possibilità di creare nuove parti al momento". Parker continua a spiegare - nelle note di copertina di "The Mayor of Punkville" del 2000 (un doppio album della Aum Fidelity) - che c'è un'idea di composizione che ispira e guida la performance ma ogni musicista ha la libertà di creare la propria parte e di sostituirla con una inventata al momento, piuttosto che seguire quella scritta. Il contrabbassista/compositore cita al riguardo il brano "Oglala Eclipse" in cui l'orchestra ha la possibilità di scegliere tra tre o quattro configurazioni armoniche e può altresì scegliere le parti ritmiche. "This music is not polarized into any camp. The word is not jazz, the word is universal music".
Questa mi sembra la più convincente, libertaria ed entusiastica dichiarazione teorica - con relativa applicazione pratica - di come possa produrre oggi musica una "orchestra di improvvisazione". Le parole di William Parker, poi, sono dimostrate con chiarezza nei vari album realizzati dalla Little Huey Creative Music Orchestra e se è vero che la "preset compositional idea" scaturisce sempre dalla mente del contrabbassista, questa idea viene condivisa da tutti i membri della formazione e nutrita dalla linfa vitale collettiva. Si vede bene come la prospettiva della big band di Parker sia rovesciata rispetto alla New York Composers Orchestra dove l'improvvisazione risultava, in qualche modo, ideologicamente subalterna alla composizione: qui il rapporto è diverso, c'è un incontro ai massimi livelli tra cultura orale e scritta, tra composizione in tempo reale e composizione in tempo 'dilatato,' siamo nel punto cruciale del jazz. La Little Huey Creative Music Orchestra meriterebbe uno studio approfondito, impossibile in questa sede. Non è una scusa, forse un impegno per un lavoro futuro. Ci sono alcuni elementi che vanno comunque messi a fuoco. Parker non rilegge brani del passato del jazz, però ne inventa svariati che si riferiscono alla musica o alla vita di jazzisti. Precisa, tuttavia, che è valido ispirarsi a qualcuno per creare qualcosa di totalmente differente. In questo senso mette le mani ed i piedi dentro la questione del repertorio: coerentemente con la cultura afroamerican che non ama 'strappi' ma predilige l'innovazione nella continuità, Parker e compagni non sono per una riproposizione filologia e museale del repertorio jazzistico, come fa Wynton Marsalis con la Lincoln Center Jazz Orchestra. La Little Huey Creative Music Orchestra guarda al passato del jazz per andare avanti, non vuole velleitariamente essere all'avanguardia quanto vivere nel suo tempo. Ecco, allora, il senso di brani come "The Bluest J," "Voice Dance Kidd," "Sunship for Dexter," "Anthem" (dedicata a Lester Bowie) e della suite "Raincoat in the River". La dedica e l'ispirazione non provengono solo da musicisti noti come Bowie, Dexter Gordon o Marion Brown ma anche da personaggi sconosciuti o minori, importanti per Parker, pezzi della sua esistenza, figure che non hanno goduto di notorietà ma hanno dato un contributo valido alla vita delle persone e alla musica intesa come esperienza anche spirituale.
Dovendo necessariamente selezionare, ho scelto alcuni album dell'orchestra di William Parker su cui soffermarmi in breve: "Sunrise in the Tone World" (1997, Aum Fidelity); "The Mayor of Punkville" (2000, Aum Fidelity) e "Raincoat on the River" (2001, Eremite). Gli ultimi due hanno un'idea narrativo-esistenziale forte perché Parker - personalità versatile, artista sensibile ed apertissimo - parte sempre da dati esperienziali ed ama connettere testo e contesto, musica ed extramusica in un legame mai artificioso. La storia del musicista di passaggio che diventa sindaco di una città e riesce a cacciarne mali e malfattori, il racconto di un viaggio presso una vecchia zia nel South Carolina, la ricostruzione della vita di un musicista sconosciuto, esploratore degli intervalli microtonali, scomparso d'improvviso lasciando come unica traccia il suo impermeabile nero galleggiante nel fiume sono narrazioni che hanno un loro spessore. Accanto a questa dimensione di storyteller e di griot, Parker e la sua orchestra immettono dei contenuti importanti che criticano l'american way of life e puntano alle qualità universali dell'essere umano, alla sua liberazione ed elevazione. Frequenti nella musica della Little Huey Creative Music Orchestra sono i riferimenti e le dediche ai bambini, elemento questo davvero raro nel jazz, segno di una profonda spiritualità e di un senso del divenire.
Altro tratto caratterizzante sono i frequentissimi, strutturali e motivati riferimenti ad altri campi artistici. L'idea di jazz che frulla nella testa di Parker è davvero molto ampia, come la considerazione per artisti ed esseri umani che hanno lasciato un traccia nella sua vita. Davvero bello "James Baldwin to the Rescue," con liriche del contrabbassista, ispirato al poeta, scrittore ed intellettuale neroamericano, al pari della suite "3 Steps to Nøh Mountain," dedicato al Dalai Lama in occasione della sua visita a New York del 1999. Speciale e stretto è il rapporto con le arti figurative: "The Painter and the Poet" (duo per vibrafono e sax alto) è stato scritto per il pittore Yuko Otomo che ha illustrato il primo album della band; nel libretto del doppio Cd "Sunrise in the Tone World" compaiono delle 'transcription score/painting,' partiture che vengono trasformate in opere grafico-pittoriche.
Ci sarebbe, davvero, ancora molto da dire sul collettivo di William Parker, gruppo che incide i suoi dischi dal vivo (a New York - Knitting Factory e Tonic - o all'ICA Theatre di Boston) e che produce una musica sempre inedita, soprendente. I riff abbondano nella sua produzione come l'uso di contrasti tra grave ed acuto, la cifra stilistica dei trilli, la pratica della polifonia e della poliritmia, l'assenza di solismi assoluti ma sempre e mingusianamente legati all'orchestra o ad altri strumenti (magari in coppie di soli contemporanei ed intersecanti), il senso del collettivo e del rituale, la lunghezza dei brani, la densità materica dei suoni, lo scintillio dei colori orchestrali mai laccati. Del resto attorno a Parker ruotano musicisti importanti come Roy Campbell, Richard Rodriguez, Steve Swell, Masahiko Kono, Rob Brown, Assif Tsahar, Chris Jonas e Susie Ibarra. Mi piace chiudere qui questa mia informale relazione ricordando che William Parker ha incontrato il contrabbassista sudafricano Johnny Dyani a Boston, avvertendo nel suo animo gioia e tristezza fusi insieme, quel senso di spaesamento doloroso che non abbandona mai chi è esule. Nel suo "Sound Journal" (pagina 33) Parker annotava: "There is an outrageous double standard that is the foundation of the American way of life: "Forget about the Native Americans and the Aboriginis and the Africans". Ronald Reagan has single-handedly ruined whatever progress had been made in America". La lotta tra compassione/amore e morte/guerra non è ancora finita, la Little Huey Creative Music Orchestra continua a battersi con le armi della musica per il prevalere della prime.
Foto di Claudio Casanova (William Parker, Roy Campbell).
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