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La percussione in Europa

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Il testo è stato pubblicato nel numero di "Quaderni dello spettacolo" del Teatro Donizetti, in occasione di Bergamo Jazz 1995.

Le tematiche prese in esame sono da leggere in senso storico, in quanto da allora molte cose si sono sviluppate e modificate nei rapporti tra musicisti europei e statunitensi.

Non è più presente, nel panorama odierno, una separazione così netta che possa distinguere in senso estetico ed espressivo il jazz prodotto in Europa da quello statunitense. Certe premesse che portarono alla definizione di un panorama ben definito in Europa, fatto non solo di individualità, ma anche e soprattutto di iniziative legate alla ricerca etnica, alla pratica di un'improvvisazione diversa da quella afroamericana, alla creazione di orchestre, spazi ed etichette, oggi non può essere più letto in modo peculiare per il vecchio continente.

Da una parte si è contratto e quasi atrofizzato, dall'altra si è allargato in varie aree creative nei due continenti, che interagiscono in modo più fitto di allora, ponendo in secondo piano l'aspetto geografico. Già ai tempi della stesura di questo contributo si vedevano i germogli di questo mescolamento, ma si poteva ancora fotografare uno scorcio che selezionasse, al fine di formulare ipotesi di interpretazione.

Non si è ritenuto di intervenire su quanto scritto allora, appunto perché fotografa comunque in modo circoscritto un momento particolare. Certamente oggi non è più possibile individuare in modo così deciso, anche se riduttivo, una serie di peculiarità che definisca il jazz europeo (e la sua percussione) da quello statunitense.

L'articolo viene riproposto per gentile concessione dell'autore.

In principio il jazz suonato dagli europei era frutto di imitazione. Si poteva trovare una percentuale di originalità nello stile e nell'approccio strumentale di alcuni musicisti, ma, fatta eccezione per Django Reinhardt, il jazz prodotto in Europa si specchiava nei grandi capiscuola americani. E ciò rappresentava naturalmente una contraddizione, poiché uno degli elementi fondamentali del jazz e dell'improvvisazione è la capacità di cercare, indagare, esplorare il nuovo. L'imitazione, nel jazz, è utilizzata solamente nella fase di apprendimento del giovane musicista, poi deve subentrare l'originalità, l'autenticità.

Possiamo pensare allora che, fino agli anni Sessanta, il jazz in Europa abbia vissuto la sua fase di apprendimento. L'avvento del free ha rappresentato lo scossone che ha permesso ai musicisti europei di sciogliere i legami con la figura paterna del jazz americano, cominciando a camminare sulle proprie gambe ed iniziando l'avventura autonoma di quello che può essere definito il jazz europeo. Secondo Bert Noglik [Nota 1] il free fu un processo pluralistico, che si configurò non attraverso lo scardinamento di una serie di regole, ma con la realizzazione di una nuova cornice di relazioni, di carattere allargato. Se da un lato l'ampliamento si è rivolto verso l'Africa e l'Asia, dall'altro ha dato vita ad una nuova complessità, aprendo la strada al proliferare di espressioni individuali, frutto di singole sensibilità e di culture diverse.

Ecco che nascono, dunque, individualità musicali nuove in Europa, del tutto originali rispetto agli americani. L'idioma del jazz si frantuma in una miriade di voci diverse: Günter Hampel, Manfred Schoof, Alex von Schlippenbach, Peter Brötzmann, Günter Sommer in Germania, John Stevens, Tony Oxley, Derek Bailey, Evan Parker in Gran Bretagna, Willem Breuker, Misha Mengelberg e Han Bennink in Olanda, Michel Portal, Jef Gilson e Bernard Lubat in Francia, solo per citare alcuni nomi fra i più conosciuti ed attivi. Possiamo ancora essere d'accordo con Noglik, quando afferma che "non è un caso, che i batteristi abbiano un ruolo fondamentale nella creazione della nuova musica improvvisata europea" [Nota 2]. Con il free, infatti, il batterista vede incrinarsi il suo ruolo di cocchiere del tempo regolare e continuo, isomorfo. Ciò dà luogo ad una liberazione dalla classica funzione prettamente ritmica, anche se con forti implicazioni melodiche, e le interrelazioni fra batteria e altri strumenti sono messe in discussione, subiscono un ampliamento d'orizzonte. In questo processo di liberazione da un ruolo e una funzione hanno una parte importante batteristi free nero-americani, come Sunny Murray, Milford Graves e Andrew Cyrille, ma non va sottovalutato l'apporto dell'Europa.

Quali sono le caratteristiche peculiari del percussionismo in Europa, quelle che possono definirne l'approccio rispetto a quello degli americani? In primo luogo, come ha sottolineato Tony Oxley, tali peculiarità si possono individuare nel pensiero del musicista europeo, ove si nota un nuovo atteggiamento nei confronti del silenzio. Per la prima volta il silenzio, la quiete aveva un grosso valore, e questo ha molto ampliato le possibilità legate al lavoro delle percussioni. Uno dei primi gruppi dell'improvvisazione europea che operò un superamento dell'idioma jazzistico tradizionale negli anni Sessanta, denominato "Joseph Holbrooke," vedeva affiancati Derek Bailey, Gavin Bryars e Tony Oxley. Bryars era particolarmente interessato alla musica colta contemporanea ed il suo studio delle partiture di Cage e del testo "Silenzio" influenzò molto anche la concezione di Oxley.

Riferendosi a quel periodo, il batterista inglese ricorda pure come "la liberazione dal dogma della scansione ritmica aumentò nel contempo il rispetto per ciò che suonavano gli altri musicisti e si rafforzò la capacità di reagire in modo sensitivo l'uno all'altro" [Nota 3]. Nella

batteria in particolare, ma anche in tutti gli altri strumenti, assistiamo al contemporaneo sviluppo di quelle che Derek Bailey definisce le due caratteristiche dell'improvvisazione: la comunione musicale da una parte e l'espressione individuale dall'altra [Nota 4]. Da un lato ricerca di nuovi rapporti con gli altri membri del gruppo, dall'altro ricerca della voce individuale, anche attraverso l'assemblaggio di uno strumentario anticonvenzionale, che va a costituire la nuova batteria personalizzata. Questo secondo aspetto caratterizza molto più il batterista europeo, che rispetto a quello americano ha avuto meno remore nel superare il tradizionale assemblaggio strumentale del drum-set, per giungere alla costruzione, spesso artigianale, di strumenti dalle caratteristiche costruttive del tutto peculiari, in cui la disposizione dei vari elementi tende ad assimilarsi in modo funzionale ai gesti del batterista-percussionista, a diventare una sorta di vestito su misura, adatto solo a quella personalità musicale, ad esaltarne alcune caratteristiche gestuali, dinamiche, plastiche, oltre che ad ampliare la gamma timbrico-espressiva.

In tale senso sono significativi gli esempi di Tony Oxley, Han Bennink, Paul Lovens, Paul Giger, Günter Sommer e Pierre Favre, solo per citare i nomi più rilevanti, che hanno via via utilizzato tamburi, piatti e strumenti percussivi di tradizioni diverse, seghe da falegname ed altri attrezzi di metallo, tamponi vari per le pelli, piatti applicati sopra i tamburi, giungendo alla definizione timbrica e costruttiva di strumenti nuovi. Questo naturalmente si differenziava da musicista a musicista; se ad esempio l'armamentario strumentale usato da Bennink era tratto prevalentemente da oggetti musicali orientali ed africani, quello utilizzato da Lovens si rivolgeva agli oggetti domestici, come stampini da cucina e padelle, condizionando diversi ambiti timbrici.

Naturalmente questo tipo di ricerca si è sviluppato anche negli Stati Uniti, ma ha avuto applicazioni più sporadiche, ed anche i batteristi che vi hanno fatto riferimento, hanno mantenuto contemporaneamente il classico bebop-set. Solo negli anni Ottanta troviamo casi significativi anche in America, ad esempio da parte di David Moss. Anche l'elettronica è stata utilizzata da percussionisti come Tony Oxley e Paul Lytton in modo del tutto originale, senza l'intento di amplificare ed enfatizzare i timbri della tradizionale batteria, ma con obiettivi legati in parte alla ricerca di nuovo potenziale timbrico, in parte alla creazione di diversi rapporti e nuove cornici per l'improvvisazione. Significativi sono i brani di Oxley compresi nel disco February Papers [Nota 5], in particolare "Sounds of the Soil 2" e "Combination," dove l'elettronica è utilizzata in modo dialettico con lo strumentario percussivo del musicista, dando luogo a prolifiche occasioni timbriche ed espressive, aprendo nuove dimensioni spaziali per l'improvvisazione. Anche in questo caso troviamo il riferimento a compositori colti, analogamente a tutta l'esplorazione di nuovi ambiti timbrici, ma più come fonte di ispirazione globale che per quanto riguarda veri e propri processi compositivi o esecutivi. A questo proposito Oxley ha puntualizzato: "La complessità delle impressioni dateci dall'ascolto di Webern ci affascinò ancora di più della musica di Schönberg. Non ci interessavano tanto i metodi compositivi, quanto l'espressività timbrica, che cercammo di inserire nel contesto dell'improvvisazione" [Nota 6].

Se in America l'apertura di nuove prospettive operata dal free porta all'avvicinamento a certe caratteristiche africane o asiatiche del fare musica, in Europa troviamo dunque l'irrompere di una grande varietà di componenti nuove, che per un certo verso possono far gridare ancora di più allo scandalo il cosiddetto "purista" del be-bop. Se l'atonalità (e la politonalità) dei musicisti americani degli anni Sessanta fa riferimento all'Africa ed all'Asia, la rottura tonale degli europei flirta anche con Schönberg e Webern, le strutture ritmiche prendono ispirazione anche dai lavori percussivi di Varèse e Cage, ma contemporaneamente molti musicisti si rivolgono alle radici popolari dell'Europa, spesso anche in questo caso tenendo presente quanto è stato fatto sul versante colto da Bartók, che ha penetrato a fondo lo spirito delle musiche tradizionali, per creare nuove musiche.

Le numerose componenti legate allo spirito, alle idee e alla cultura europea sono riscontrabili in modo diverso nei batteristi. In primo luogo bisogna ricordare che in Europa sono attive scuole di tamburo antichissime, che hanno dettato legge soprattutto nella tecnica esecutiva del tamburo a cordiera (rullante): la scuola di Basilea e quella scozzese. La tecnica di impugnatura della bacchetta nella mano sinistra, fra pollice e palmo della mano, tuttora usata in modo prevalente dai batteristi jazz, deriva da quelle scuole. Anche sotto l'aspetto tecnico ed esecutivo, tracce di queste tradizioni, che si trovano nelle musiche da banda di tutto il vecchio continente, si sono mescolate a quelle afroamericane nel patrimonio dei batteristi europei: come non riscontrare l'influsso del tamburo da marcia nelle veementi figurazioni di Han Bennink e di Günter "Baby" Sommer, nella precisione tecnica di Pierre Favre? Anche nelle robuste poliritmie di Oxley sono rintracciabili i tamburi scozzesi, le cui bande hanno affascinato il batterista (e con le quali lui ha suonato). Ma soprattutto questa presenza simultanea di stimoli diversi ha dato ai percussionisti la possibilità di sganciarsi da modelli univoci, rivolgendosi ad ambiti differenziati, che contribuiscono a definire sfere espressive molto articolate. Arriviamo dunque a constatare che in America le differenze fra batteristi si misurano in massima parte sotto il profilo tecnico-espressivo, nelle sfumature di feeling, nell'elasticità del beat, nella sensibilità melodica, mentre in Europa è l'originalità di questo "pacchetto" di tradizioni e componenti diverse, il loro diverso dosaggio che entra in gioco insieme alle caratteristiche tecnico-espressive, per definire un'identità artistica.

A questo punto si capisce che una ricognizione con qualità di veloce compendio è piuttosto ardua e deve necessariamente tralasciare aspetti e musicisti pur degni di attenzione nel panorama europeo. Tony Oxley e Han Bennink sono senza dubbio le due personalità che non possono essere ignorate, quelle che meglio hanno saputo valorizzare il dosaggio originale di culture e idee, imprimendogli un segno netto e ricco di implicazioni, forgiando un idioma del tutto nuovo, che però non accantona le caratteristiche vitali ed espressive della musica afroamericana. I due musicisti sono stati pionieri della nuova percussione europea e tuttora sono i personaggi trainanti, dopo aver ispirato molti altri colleghi. Di Oxley si è già ricordato il ruolo fondamentale, databile fin dal '63, quando insieme al chitarrista Derek Bailey ed al bassista Gavin Bryars dà vita nella nativa Sheffield al gruppo "Joseph Holbrooke," nel quale viene praticata la liberazione dal "dogma del beat" e si esplorano nuovi rapporti funzionali fra gli strumenti. In contesti jazzistici tradizionali Oxley fornisce una scansione molto elastica, inframmezzata da scomposizioni ritmiche fra piatti, charleston e tamburi, che spesso ricordano Elvin Jones [Nota 7].

Egli ha lavorato negli anni Sessanta con molti musicisti americani di passaggio a Londra, al Ronnie Scott's, fra cui Sonny Rollins, Bill Evans, Stan Getz, Joe Henderson. Questa esperienza, contemporanea alla genesi di nuove idee, è rimasta nel suo stile e viene considerata da lui stesso molto positiva nella sua formazione artistica. Nell'ambito dell'improvvisazione libera Oxley utilizza lo strumento acustico con grande forza espressiva, creando un frullare continuato e vorticoso, sospeso e differenziato con i piatti, dal quale baluginano figure timbriche ed accenti improvvisi come lampi, che durano un attimo e vengono subito riassorbiti dal continuum sonoro. Si tratta di una concezione ritmica molto duttile, che si adatta bene a diversi contesti dell'improvvisazione, come è dimostrato dalle collaborazioni del batterista con i maggiori esponenti della nuova musica, sempre con risultati eccellenti. In particolare nel recente lavoro con Cecil Taylor, iniziato con il duetto berlinese dell'88 e proseguito con il Feel Trio (William Parker al contrabbasso), si può verificare come la fitta ragnatela percussiva e timbrica di Oxley riesca ad interagire in modo efficace con la vulcanica musica del pianista [Nota 8]. Nella succitata incisione February Papers sono invece raccolte in modo emblematico le varie facce di Oxley: quella acustica alla batteria in "Brushes," quella di suggestione contemporanea nei quartetti con tre violini e contrabbasso, utilizzati in modo prettamente timbrico-ritmico, in "Quartets, 1 and 2" e quella elettronica già ricordata.

Anche Bennink, di quattro anni più giovane di Oxley, è stato protagonista del cambiamento di mentalità e di approccio alla musica improvvisata in Europa, ispirando direttamente altri percussionisti che hanno poi acquisito grande importanza, come il tedesco Paul Lovens. Pure Bennink è stato a contatto con alcuni grandi americani (celebre è l'incisione di Last Date, nel '64, con Eric Dolphy) ed è riuscito a far entrare nel proprio stile iconoclasta sia la pulsazione flessibile del be-bop (ma con caratteristiche arcaiche, vicine a New Orleans e Swing), che le incursioni paradossali ed espressioniste di una libertà vulcanica, clownesca, dissacrante e straniante. E' proprio lo straniamento una delle caratteristiche più interessanti del suo fare musica, che si esprime attraverso la citazione del tutto inattesa, il cambio improvviso di direzione, lo sberleffo. Se con gli altri europei la batteria si è ampliata nello strumentario di accessori, con Bennink tutto lo spazio circostante diventa "batteria": sedie, pannelli, supporti metallici, pavimento. Elementi che lui scandaglia con la curiosità giocosa del bambino alla scoperta di mondi sonori. In questo senso è da interpretare anche la sua esplorazione del tutto particolare di strumenti diversi, come la viola, i clarinetti, il trombone, utilizzati senza alcuna attenzione alle tecniche codificate, ma con l'atteggiamento disincantato del bambino (o del clown), che scopre ingenuamente nuovo senso nella realtà. Significativi a tale proposito sono i suoi dischi in solo [Nota 9], ma anche tutta la sua produzione con Misha Mengelberg, con il trio Brötzmann-van Hove-Bennink, con il più recente trio Clusone e con il quintetto comprendente Lacy e George Lewis, dove spicca sempre la sua capacità di reagire con prontezza a qualsiasi cambiamento di clima, a qualsiasi sorpresa.

Fra i batteristi della prima ora troviamo un altro personaggio di notevole interesse, il cui ruolo ha scavalcato quello ristretto della percussione, lo svedese Sven Ake Johansson, che nel '66 suona in trio con Peter Brötzmann e Peter Kowald. Ma la sua vicenda è caratterizzata in particolare dal lavoro in solo e dal duo con Alex von Schlippenbach, nel quale riversa un concetto di improvvisazione che ingloba azioni gestuali e teatrali, canto ed uso della voce, interpretazioni alla fisarmonica. In questo ha una grande importanza il comico, lo scurrile, il nonsense, il ricorso ad uno Sprechgesang impressionista, che ricorda il "Pierrot Lunaire" di Schönberg. Anche nel suo caso, spesso ciò che nella musica contemporanea europea è frutto di composizione, diviene stimolo per l'improvvisazione.

Sempre legato a von Schlippenbach è Paul Lovens, che riveste un ruolo importante sia nel trio con Evan Parker che nella Globe Unity Orchestra, fin dal 1970. Influenzato inizialmente da Bennink, Lovens ha via via dato respiro alla propria energia ritmica, fino a raggiungere un equilibrio spaziale notevole ed un ampio controllo timbrico [Nota 10].

In questa veloce carrellata non possiamo tralasciare un cenno a Günter Sommer, proveniente dall'ex Repubblica democratica tedesca. Il suo lavoro ha spesso il carattere della composizione predeterminata, per la meticolosa scelta dei materiali sonori e per l'organizzazione attenta allo sviluppo ed al concatenamento degli episodi. Egli è un artigiano preciso e sistematico, i cui strumenti percussivi tendono a creare aggregati funzionali, con altezze e timbri ben definiti. Sia a livello tematico che ritmico, nel suo lavoro troviamo riferimenti etnici all'Africa, ai Balcani, alle orchestre Gamelan di Bali, che vengono integrati in un discorso fresco e ben strutturato [Nota 11].

Nella nostra ricognizione abbiamo concentrato l'obiettivo su alcune personalità di rilievo, dovendo tralasciare altri personaggi di grande interesse, come John Stevens (protagonista del rinnovamento in Inghilterra con Oxley), Paul Lytton, Pierre Favre, Fritz Hauser, Bernard Lubat, Vladimir Tarasov. Abbiamo d'altra parte tralasciato di citare batteristi di enorme valore, come Daniel Humair, per l'evidente adesione ad un'estetica afroamericana (anche se non esclusiva). Si deve comunque notare che le figure dominanti della percussione europea, intesa come espressione autonoma dalla linea americana (afroamericana), restano tutt'ora quelle che hanno sviluppato nuovi ambiti sonori negli anni Sessanta e Settanta. Certamente, il cosiddetto jazz europeo gode anche oggi di buona salute, ma l'impressione è che si stiano ancora raccogliendo i frutti di quegli anni prolifici, e pochi siano i nomi veramente nuovi usciti recentemente. Per un certo verso, con il free-funk ed il neo-bop, si torna decisamente all'imitazione dei modelli americani. Ma nel contempo assistiamo all'avvicinamento di un percussionista americano come David Moss ad estetiche tipicamente europee: le carte si mescolano per un nuovo gioco...

Foto di Claudio Casanova (Bennink, Cyrille, Lovens, Oxley e percussioni varie) e Francesca Pfeiffer (Favre).

Note

1) Bert Noglik, Improvisierte Musik in der Folge des Free Jazz, in AA VV, Darmstädter Jazzforum 89, Wolke Verlag, Hofheim 1990. 2) Bert Noglik, Substreams. Die verborgene Moderne in der improvisierten Musik Europas, in AA VV; Jazz op.3, Löcker Verlag, Wien 1986; pag. 129. 3) Bert Noglik, Substreams, cit. 4) Derek Bailey, L'improvvisazione, Arcana Editrice, Milano 1982. 5) Tony Oxley, February Papers, Incus Records 18, febbraio 1977 (con Barry Guy, Philipp Wachsmann, David Bourne e Ian Brighton). 6) Ekkehard Jost, Europas Jazz, 1960-80, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1987. 7) Si possono ascoltare, in proposito, due dischi degli anni Sessanta: Extrapolation, di John McLaughlin (Polydor 2486 274, del 1969) e Jazz in Britain'68- '69, con artisti vari, fra cui John Surman, Alan Skidmore e Kenny Wheeler (Decca ECS 2114). 8) Nei dischi Leaf Palm Hand (FMP CD 06) in duo con C. Taylor, Looking (FMP CD 25) e Celebrated Blazons (FMP CD 58), con il Feel Trio. 9) In particolare Han Bennink, Solo, SAJ Records 21, Berlino, 13 ottobre '78. 10) In particolare si veda Schlippenbach Trio, Elf Bagatellen, FMP CD 27 e Physics, FMP CD 50. 11) Oltre ai lavori con Ulrich Gumpert, Conrad Bauer, Ernst-Ludwig Petrowsky, Leo Smith e Peter Kowald, significative sono le incisioni in solo Hörmusik, FMP 0790 (1979) e Sächsische Schatulle (Hörmusik III), Intakt (1988-1992).

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