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Joey Baron "Killer Joey"
Il nome di Joey Baron è uno dei più blasonati in assoluto del jazz contemporaneo e dell'avanguardia a livello mondiale. La sua storia è legata a capisaldi dell'avant-garde come i Naked City e i Masada di John Zorn e la Bill Frisell Band, ma si può dire che non ci sia nome della scena downtown newyorkese con cui non abbia collaborato, da Tim Berne a Laurie Anderson ed Ellery Eskelin.
La sua attività però non si è limitata alla musica innovativa, ma ha abbracciato l'intero panorama jazz, comprese le sue forme più consolidate, accompagnando “mostri sacri” come Dizzy Gillespie, Chet Baker, Stan Getz e Lee Konitz, e maestri autorevoli come Jim Hall, Carmen McRae, John Abercrombie e Marc Johnson.
Il motivo di una così alta quotazione del suo nome è il suo drumming inimitabile, al tempo stesso potente e complesso, versatile ed incisivo, funzionale e fantasioso.
Quello che è passato dall'Area Sismica è il suo attuale progetto solista, Killer Joey, un quartetto completato dalle due chitarre di Steve Cardenas e Brad Shepik (quest'ultimo ha sostituito Adam Levy) e dal contrabbasso di Tony Scherr. Il gruppo ha all'attivo un cd eponimo autoprodotto.
Si direbbe che con questa formazione Baron voglia ripercorrere la lezione “classica” del jazz, sia quella storica che quella più attuale: dal soul-jazz al modern jazz degli anni '50 e '60, dal jazz-funk alla post-fusion degli anni '80 e '90.
La scaletta del concerto si è incentrata su brani originali, anche se non è mancato qualche standard. Il gruppo padroneggia con maestria e con grande classe le formule stilistiche a cui si rifà, risultando particolarmente elegante e raffinato nelle ballad e nelle atmosfere più soffuse.
Più coinvolgente è però parso nei (non abbondanti) momenti più estroversi ed esuberanti, tinti di funky e di groove, dove il suono delle chitarre si faceva più sanguigno e tagliente.
A proposito delle chitarre, la scelta della formula batteria-contrabbasso-doppia chitarra, sostanzialmente anomala nel jazz, rimanda inevitabilmente ad altre formazioni analoghe, in primis ai Bass Desires di Marc Johnson, che ne sono stati forse l'archetipo. D'altronde Shepik e Cardenas, tanto per lo stile e il fraseggio, quanto per la timbrica, fanno evidentemente riferimento ai maestri della chitarra jazz contemporanea, in particolare a Pat Metheny e a John Scofield (che a loro volta si sono misurati con la formula della doppia chitarra). E qui sta forse sia il loro pregio che il loro limite: se infatti essi sono indubbiamente ottimi allievi di questa scuola, d'altra parte non sembrano ancora giunti a un'elaborazione autonoma dei modelli e ad uno stile veramente personale.
Quanto a Baron, il suo tocco è sicuramente l'elemento che regala alla musica quel quid di personalità in più rispetto a una seppur rispettabilissima formula di maniera. Come nel suo stile, anche in questa occasione ha unito alla pulizia, all'eleganza e alla ricchezza del suo fraseggio quel guizzo d'imprevedibilità e di follia che è intervenuto a increspare e perturbare un suono altrimenti forse fin troppo levigato e rassicurante. In particolare, gli improvvisi scarti ritmici, le perturbazioni e incursioni di “scorie” percussive irregolari, con cui interveniva a frammentare e lacerare l'inarrestabile pulsazione swingante, erano come una sorta di deviazione dal percorso, di scarto improvviso con cui Baron sembrava quasi voler togliere di tanto in tanto la musica dal binario rettilineo su cui tendeva ad incanalarsi.
Forse non a caso i momenti migliori del concerto sono stati quelli in cui si faceva più spiccata l'esuberanza ritmica: da quelli più funkeggianti di cui si è detto prima, a un coinvolgente momento di poliritmia (con qualche reminiscenza dei soli di Max Roach), in un brano in cui si mescolavano evocazioni e aromi africani e latini.
Al di là dell'indiscutibile valore solistico dei musicisti, forse in realtà l'aspetto più carente di questo progetto è quello compositivo: i temi spesso non spiccano e rimangono un po' anonimi, e forse in questo modo non aiutano neanche troppo i musicisti a lanciarsi in improvvisazioni che “facciano la differenza”.
Per chiarire, non è obbligatorio essere perennemente innovativi e originali, né è possibile suonare costantemente qualcosa di inaudito. Rifarsi a una tradizione non è qualcosa di negativo, anche se purtroppo il “nuovismo” che domina la nostra epoca spesso ci spinge a pensare il contrario. Forse il punto sta nel riuscire a trovare il proprio modo di interpretare e far rivivere una tradizione; e questo forse, al di là del leader, è il punto debole di questo gruppo.
Foto di Claudio Casanova
Ulteriori immagini di questo concerto sono disponibili nella galleria immagini.
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