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Jazzfestival Saalfelden 2011
ByPerché Saalfelden è Saalfelden. Unico. Diverso. Un modello per tutta una serie di motivi che vanno al di là dei meriti (tanti, tantissimi) strettamente artistici: per l'organizzazione impeccabile, per la presenza di un pubblico fedele, competente, numeroso, per l'atmosfera elettrizzante, e, soprattutto, per la capacità di stare in piedi grazie a una fitta rete di sponsor. Non ci credete? Date un'occhiata a 'sta pagina e strabuzzate gli occhi. Altro che festivalini rachitici destinati a sparire non appena l'assessore di turno volta le spalle. La differenza, rispetto al desolante panorama italico, la si può riassumere in una parola: professionalità. Fare cultura è un mestiere, non un passatempo. Organizzatori di festival non ci si improvvisa. E nemmeno direttori artistici.
Già, nemmeno direttori artistici, perché poi alla fine quello che resta sono i concerti. E anche da questo punto di vista Saalfelden è quanto di meglio ci sia in circolazione. Lo testimoniano le trentuno edizioni passate; lo ha confermato la numero trentadue, allestita, come sempre, con l'intento di suggerire un punto di vista. Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Le domande sono le solite, quelle che un festival dovrebbe sempre porsi. Saalfelden 2011, come i suoi predecessori, ha risposto lasciando parlare la musica.
Entusiasmante, al solito, il cartellone, impreziosito da una selezione di proposte statunitensi strepitose. Doverosamente rappresentate le scene di Chicago e New York. Alla prima appartiene di diritto quella che è stata una delle vette della quattro giorni austriaca: l'esibizione del Chicago Sextet di Ingebrigt Håker Flaten. Vero, il contrabbassista è norvegese, ma la frequentazione con la Windy City è ormai talmente assidua da poterlo considerare un cittadino onorario. E poi, a parte il violinista Ola Kvernberg, il resto della band parla chicagoano stretto: Dave Rempis al sax contralto e baritono, Jeff Parker alla chitarra, Frank Rosaly alla batteria e l'ultimo arrivato, Jason Adasiewicz, al vibrafono. Ultimo arrivato perché fino a qualche mese fa il Chicago Sextet era in realtà un quintetto, peraltro già documentato su disco da un paio di uscite Jazzland (entrambe consigliatissime: Quintet e The Year of the Boar). Poi l'intuizione vincente: aggiungere il vibrafono. Il concerto di Saalfelden era soltanto il terzo con Adasiewicz nei ranghi, ma nessuno, c'è da scommetterci, se n'è accorto. L'ora abbondante di musica si è abbattuta sul pubblico della Kongress Haus come un uragano, tra squarci rockettari, riff e contro-riff, improvvise deflagrazioni e quel gusto per la pulsazione tipico del jazz di quelle parti. Incastonato nel mezzo del set, un duetto vibrafono-contrabbasso che ha riportato alla mente la coppia Walt Dickerson-Richard Davis. Micidiali.
A metà strada fra Chicago e New York si colloca il live dei Nels Cline Singers, un altro dei momenti clou del festival. Il chitarrista di origini californiane a Chicago "lavora," suonando nei Wilco, e a New York, da qualche tempo, ha messo su famiglia con la tastierista giapponese Yuka Honda, diventata sua moglie nel novembre 2010 dopo la rottura della relazione con la cantante Carla Bozulich (ma si, via, un po' di jazz-gossip, di tanto in tanto, non guasta). Nels Cline and Singers: ovvero, oltre alla Honda (che poco ha aggiunto e nulla ha tolto alla caratura del progetto), il bassista Trevor Dunn (al posto dell'indisponibile Devin Hoff) e il batterista Scott Amendola. In quattro per un set che ha segnato il ritorno di Cline a Saalfelden 27 anni dopo la sua prima apparizione: era il 1984 e il giovanissimo Nels militava nella JAH Band di Julius Hemphill. Da allora ne è passata di acqua sotto i proverbiali ponti: Hemphill ci ha lasciati nel 1995, mentre il suo pupillo, dopo un periodo in cui per sbarcare il lunario ha dovuto lavorare in una libreria, è diventato uno dei chitarristi più incredibili che sia dato ascoltare. Quel che Cline ha fatto negli ultimi anni, con una serie di dischi epocali pubblicati dalla Cryptogramophone, è stato portare a compimento l'intuizione del musicista "totale" avuta da Fred Frith. Cline non è semplicemente un chitarrista con un proprio sound, una propria cifra stilistica, è un generatore tridimensionale di sonorità, in grado di agire in tempo reale sulla propria voce, mutandola e rimutandola all'interno dello stesso assolo, a volte persino all'interno di una stessa nota. Il tutto con estrema naturalezza e apparente (solo apparente) semplicità. Da infarto il concerto di Saalfelden, con un avvio furiosamente ayleriano, alcuni passaggi all'insegna di una tesa sospensione elettronica e un paio di brani "riffati" da bucare il cervello.
Tra New York e Seattle il nuovo quartetto del trombettista Cuong Vu, legato alla Grande Mela per una quindicina d'anni fino al ritorno nella città natale, datato 2009, per motivi di lavoro (una cattedra alla University of Washington). Con il trombettista di origini vietnamite il fedele Ted Poor alla batteria, e due bassi elettrici: l'immancabile Stomu Takeishi e Luke Bergman (allievo di Vu a Seattle). Reduce dal fascinoso Leaps of Faith, il quartetto ha portato a Saalfelden un programma all'insegna degli standard: "Body and Soul," "All the Things You Are," "My Funny Valentine". Standard ovviamente trasfigurati, per una musica magmatica, brulicante, brumosa, distesa su un tappeto polveroso apparecchiato dai due bassi: da una parte Bergman, l'ancora ritmico-armonica della band, dall'altra Takeishi, autentico alchimista sonoro, terrorista del feed-back, tessitore di trame elettroniche, maniaco del loop, sempre e comunque elemento straniante. Un genio il giapponese, tanto che a definirlo bassista gli si fa un torto. Così come si fa un torto a questa musica appiattendola sul canone abusato del Davis elettrico, quasi che non si possa soffiare in una tromba con un canovaccio simil-funk-rockettaro sotto i piedi senza che qualcuno salti su e butti lì un «Bitches Brew!». D'accordo, Miles centra, ma qui c'è dell'altro. C'è una contemporaneità sofferta che vive di una dolcissima precarietà, di squarci metropolitani e inquadrature stupendamente fuori fuoco su un passato che diventa futuro. «Dove andiamo?», ci si chiedeva qualche riga sopra: Cuong Vu e compagni ne sanno qualcosa.
Doppio gettone per la comunità black-free newyorchese, rappresentata dal trio di Matthew Shipp, Art of the Improviser, e dal nuovo quartetto di David S. Ware, Planetary Unknown (entrambi freschi di debutto su disco: il pianista per la Thirsty Ear, il sassofonista per l'AUM Fidelity). Labirintico il live di Shipp, accompagnato dalla batteria di Whit Dickey e dal contrabbasso di Michael Bisio. Prodigiosa la capacità del pianista di accumulare idee e intuizioni, alla maniera di un Bud Powell cresciuto ascoltando Cecil Taylor. La sensazione di fronte al fluire delle note, delle scale, degli accordi, è quella che Shipp sia sempre sul punto di smarrire il filo, quasi che le dita, da un momento all'altro, non debbano più riuscire a tradurre i pensieri in musica. Sostenuto dal poderoso Bisio e dalla batteria compassata, quasi distaccata, di Dickey, perfetto contraltare alla nevrosi pianistica di Shipp, il trio ha spalancato al pubblico di Saalfelden una finestra sull'abisso senza fondo del genio afroamericano. Lo stesso abisso dal quale viene la musica di David S. Ware, che per il suo nuovo quartetto ha scelto di affiancare all'immancabile William Parker il pianoforte di Cooper Moore e la batteria del redivivo, settantacinquenne, Muhammad Alì, al secolo Raymond Patterson, fratello di Robert Patterson, ovvero Rashied Alì. Da un pezzo Muhammad se ne stava per i fatti suoi, e visto il concerto di Saalfelden vien da chiedersi perché. Micidiale la combinazione fra il drumming esplosivo di Alì e le punteggiature salaci del pianoforte di Moore. Un gioco di agganci e rimandi sul quale il sax tenore di Ware si è adagiato per la consueta pioggia di fuoco, intensa e rabbiosa nonostante il recente trapianto di rene al quale il sassofonista si è sottoposto. C'era una volta un quartetto con Frak Wright al sax, Bobby Few al pianoforte, Alan Silva al contrabbasso e Muhammad Alì alla batteria. La nuova band di David S. Ware, e non soltanto per l'elemento in comune con la creatura del "Reverendo," sembra aver raccolto quell'eredità.
Ancora New York. Nuova e un po' meno nuova. La generazione Brooklyn, dopo l'abbuffata di Halvorson nell'edizione 2010, è toccato rappresentarla all'altra "figlioccia" di Braxton, Jessica Pavone, ospite a Saalfelden con il suo nuovo quartetto: Army of Stranger, completato dalla chitarra (sempre super) di Pete Fitzpatrick, dal basso elettrico di Jonti Siman e dalla batteria di Harris Eisenstadt. Intrigante la proposta: una sorta di indie-jazz fresco e sbarazzino, con sequenze di schitarrate alla Pavement intervallate da sfuriate free-noise. Mica male nel complesso, anche se c'è ancora molto da lavorare a livello di messa a fuoco delle idee (tante, forse troppe). Bocciata l'amplificazione decisamente perfettibile della Pavone, con il violino e la viola che nei passaggi a tutto volume tendevano a eclissarsi.
Sempre New York, sempre Brooklyn, ma una generazione prima. Chris Speed e i suoi Endangered Blood, quartetto nato in occasione del benefit per Andrew D'Angelo, nel 2008, e fresco di esordio su Skirl Records. Tosta e solida come si conviene a cotanta band l'esibizione. Pirotecnico il drumming di Jim Black; sorprendente, soprattutto al contralto, Oscar Noriega, musicista rimasto troppo a lungo nell'ombra e che ora sta suscitando l'attenzione che merita; impeccabile Trevor Dunn al contrabbasso. Insomma, un gran bel sentire. Jazz tipicamente newyorchese, post-Ornette-post-Berne, con un doppio botto nel finale: "Epistrophy" di Monk e "Faces and Places" di Ornette. Boom! Boom! Gran classe.
Addirittura un gradino sopra l'applauditissimo duo di "newyorchesi della generazione di mezzo" Steven Bernstein-Kenny Wollesen (praticamente metà dei Sex Mob: Mini Mob secondo la definizione data dallo stesso Bernstein). Un gradino sopra per il calore che il set ha saputo trasmettere in maniera diretta e coinvolgente, con semplicità e schiettezza. Un incontro tra vecchi-grandi amici quello andato in scena a Saalfelden. Una tromba, una batteria, un pizzico di accattivante swing, tanto cuore, un pugno di canzoni: che altro serve? "Goodnight Irene," "As Tears Go By," "I Gotta Right to Sing the Blues". Ecco perché il jazz non morirà mai.
Un posto a parte nella classifica dei top lo meritano i Bad Plus con ospite Joshua Redman, rappresentati di una New York in smoking e papillon. L'esibizione del quartetto è stata sapientemente piazzata in coda al festival e ha fatto calare il sipario sull'edizione 2011 in un uragano di applausi. Applausi strameritati, con tanto di triplo bis e standing- ovation. All'interno di una cornice assolutamente mainstream, Ethan Iverson e soci hanno saputo allestire uno spettacolo di livello stellare. Repertorio strepitoso, intesa perfetta, assoli mozzafiato (con un Redman ispiratissimo), gestione dei pieni e dei vuoti da manuale, sound pieno e rotondo. Commento di un anonimo spettatore (italiano): «questi spaccano il c**o a tutti!». Come dargli torto?
E le dolenti note? Le immancabili delusioni? Arrivano, arrivano. Il flop più inatteso è stato quello degli Electric Willie di Elliott Sharp, band-tributo al grande Willie Dixon. Raramente è capitato di assistere a un concerto blues con così poco blues. Fatta eccezione per la voce arrugginita di Eric Mingus, il resto della band, con un Henry Kaiser particolarmente irritante, ha toppato completamente l'approccio al repertorio. La musica del diavolo ha una propria etica e un proprio codice genetico. Non servono orpelli e iniezioni di presunta contemporaneità; inutili incaponirsi con tapping e feed-back se non la si sente. Particolarmente fuori luogo la cantante Tracie Morris, capace di ridurre all'impotenza quel capolavoro sinistro e disperato che è "Insane Asylum". Vederla leggere il testo dell'immortale "Spoonful" ha chiarito il grado di dimestichezza con il catalogo dixoniano, suo e di (quasi) tutta la band: zero!
Nell'elenco delle delusioni ci finisce di diritto anche il concerto di apertura dell'ottetto di Max Nagl, che pure allineava musicisti del calibro di Noel Akchote, Steve Bernstein, Nils Wogram, Brad Jones e Kenny Wollesen. Ci si aspettava di più e di meglio. Deboluccio anche il trio di Jim Black, con Thomas Morgan al contrabbasso e il diciottenne Elias Stemeseder al piano. Il giovanotto ha talento e sa il fatto suo, ma non avrebbe fatto male un altro po' di gavetta prima di approdare su un palco "pesante" come quello di Saalfelden. Passati senza lasciare il segno il quartetto di Lorenz Raab e il trio franco-danese-tedesco Das Kapital. Imbarazzanti gli svizzeri-belgi Trank Zappa Grappa In Varese? Non all'altezza della situazione i tedeschi Dus-Ti e i norvegesi Bushman's Revenge. Divertenti le spacconate del sassofonista Skerik e dei suoi The Dead Kenny G's: prendersi (e prendere) in giro è una cosa seria.
Alti e bassi per Marshall Allen e i turchi Konstrukt, capitanati dall'infaticabile chitarrista Umut Çaglar. Immenso il piacere di riascoltare dal vivo il contralto di Allen (87 anni compiuti lo scorso 25 maggio!). Il sassofonista negli ultimi dieci minuti del set ha preso per mano la band e l'ha guidata in una sorta di conduction che tanto sarebbe piaciuta, c'è da scommetterci, al buon vecchio Sun Ra. E però non tutto ha funzionato. Troppe lungaggini, qualche momento di stanca, e un Allen indisciplinato che in più di un'occasione ha piantato in asso il microfono e si è messo a girovagare sul palco, scomparendo dai radar sonori del pubblico.
Chiusura con due tocchi di femminilità. Dalla New York il quartetto della batterista Allison Miller, con il pianoforte (mai meno che fantastico) di Myra Melford, il violino di Jenny Scheinman e il contrabbasso di Todd Sickafoose. Fresca di debutto con l'ottimo
Boom Tic Boom, alla band è toccato il compito di aprire il festival, nella serata di giovedì. All'insegna dell'eleganza e del buon gusto l'esibizione, con un paio di assoli stupendamente anti- jazz della Scheinman, meraviglie a piene mani dal pianoforte e un paio di cover sopra la media: la blueseggiante "Intermission" di Mary Lou Williams e la romantica "Night" a firma della Melford, uno dei pezzi forti dell'ultimo disco dei Be Bread: The Whole Tree Gone, presentato proprio a Saalfelden un anno fa.
Dalla California alla Grande Mela, e in particolare a Brooklyn, il quartiere che ha dato i natali a Shelley Hirsch. Ad altissimo rischio, almeno sulla carta, l'incontro della cantante con il trio svizzero Koch-Schütz-Studer, impro-band di lungo corso che apparentemente poco aveva da spartire con i trascorsi down-town della Hirsch. E invece, sorpresa delle sorprese, è venuto fuori uno dei concerti più entusiasmanti del festival. I tre svizzeri si sono messi al servizio della voce, sostenendola in un programma di "canzoni" dal sapore vagamente espressionistico, con tocchi di no-wave e passaggi molto Canterbury. Canzoni, ovviamente, si fa per dire, visto che la Hirsch ha lavorato su monologhi improvvisati, prendendo spunto dal pianto di un bambino o dall'arancio albicocca della maglietta di uno spettatore. Brava. Bello.
E dopo tanta America fa piacere tessere le lodi di un gruppo molto europeo. Povero Vecchio Continente, mal rappresentato e bistrattato da una programmazione che avrebbe potuto scandagliare meglio i fondali della musica improvvisata nostrana, tra etichette indipendenti, collettivi e micro-realtà. Un piccolo rimprovero, che è anche un suggerimento per la prossima edizione.
Foto di Claudio Casanova.
Altre immagini di questo festival sono disponibili nelle gallerie dedicate ai concerti di Max Nagl Saalfelden Octet e Cuong Vu 4tet.
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