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Jazzfestival Saalfelden 2010

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Saalfelden, Austria - 26-29.08.2010

Edizione dopo edizione, concerto dopo concerto, a Saalfelden non hanno mai smesso di interrogarsi sulle tendenze e sui percorsi del jazz contemporaneo. Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Le domande, in fondo, sono le solite: porsele è un dovere per chi organizza un festival, rispondere in maniera lucida e pertinente non è però cosa semplice.

Dall'edizione numero trentuno del Jazzfestival Saalfelden di risposte ne sono arrivate, pertinenti e lucide come non ne arrivavano da un pezzo. Dopo un trentennale festeggiato con meno sfarzo di quel che era lecito attendersi e qualche scelta discutibile negli anni scorsi, la rassegna austriaca è infatti tornata ai livelli di assoluta eccellenza che il rango e il blasone impongono, riacquistando una connotazione decisamente più "jazz" (nel senso ampio del termine). Difficile trovare sbavature nel cartellone allestito per il 2010, indubbiamente il migliore da quando il festival ha traslocato dal tendone "freak" per trasferirsi nella più lussuosa Kongresshaus (era il 2006): proposte articolate e diversificate, un percorso d'ascolto-riflessione stimolante e problematico, estrema attenzione alle novità più elettrizzanti in circolazione. Tanta America e un po' di Europa. Un paio di concerti "out" (gli Zu e i Fire! di Mats Gustafsson), qualche leone dalla criniera brizzolata (Terje Rypdal e Odean Pope), artisti affermati (Myra Melford, Mark Feldman, Marc Ribot), giovani rampanti (Mary Halvorson, gli albionici Led Bib, gli Speak di Cuong Vu) e un gradito ritorno (Roy Nathanson). Il tutto condito da eventi eccezionali (l'Exploding Star Orchestra), progetti a tema (il sestetto di Taylor Ho Bynum) e doverose comparsate (Satoko Fujii). Insomma, che si poteva chiedere di meglio?

Tanta America, si diceva. E nella tanta America tanta, tantissima New York. Una decina i concerti definibili, a vario titolo, "newyorchesi," poco meno della metà dei ventuno programmati nelle due location principali (il main stage della Kongresshaus e il futuristico Nexus, che al solito ha ospitato gli short cuts, gli antipasti pomeridiani). Il tutto a conferma del fatto che le strade del jazz, in un modo o nell'altro, sempre sono passate e ancora passano dalla capitale dell'impero. E parlando di New York non si poteva non dare spazio alla nuova scena di Brooklyn, degnamente rappresentata dalla chitarrista Mary Halvorson e dal cornettista Taylor Ho Bynum. È toccato a loro il compito di portare a Saalfelden la freschezza e la vitalità della neo-neoavanguardia newyorchese - molto neo e poco avanguardia -, figlia della downtown "storica," discendente diretta dei loft e del Greenwich Village. Il meglio, in termini di freschezza e vitalità, l'ha regalato il trio della Halvorson, completato dalla batteria nervosa di Ches Smith e dal contrabbasso di John Hebert. Reduce dal superbo Dragon's Head e prossima al traguardo della seconda pubblicazione (Saturn Signs, che uscirà per la Firehouse 12 con l'aggiunta del contralto di Jon Irabagon e della tromba di Jonathan Finlayson), la band ha confermato di possedere ormai una propria grammatica, un proprio linguaggio. Assecondando le morbide spigolature tracciate dalla penna della Halvorson, la musica si è mossa con discrezione e insospettabile eleganza. Dal canto suo l'allieva di Joe Morris si è conquistata fin da subito la stima del pubblico grazie ai fraseggi pungenti stemperati da una dolcezza stralunata, grazie a quella purezza del suono che ha scomodato paragoni ingombranti (ma non fuori luogo) con Derek Bailey. Per dirla alla George Cukor, è nata una stella.

Di tutt'altra pasta l'esibizione del sestetto di Taylor Ho Bynum, che, oltre al "prezzemolino" Halvorson (l'unica artista impegnata in tre esibizioni), ha visto sfilare sul palco il trombone meravigliosamente demodè di Bill Lowe, il sax contralto di Jim Hobbs (talento incredibile!), il contrabbasso di Ken Filiano e la batteria di Tomas Fujiwara. A dispetto del gusto innato per le strutture che da sempre caratterizza i suoi lavori per gruppi allargati (si pensi ai vari Spider Monkey, con o senza Strings), il cornettista allievo di Braxton ha preferito giocare l'esibizione saalfeldiana sui toni accessi dell'improvvisazione "pura," con i sei musicisti impegnati a rotazione in assoli infuocati e giusto il minimo indispensabile in quanto a scrittura (qualche raccordo di circostanza nei trequarti d'ora del brano fiume che ha praticamente esaurito il set). Il risultato è stato entusiasmante per l'intensità sviluppata dai singoli (su tutti ancora la Halvorson: micidiale e applauditissima), anche se il tutto è apparso un po' scontato nel suo dipanarsi. Certo, parlare di delusione sarebbe da carcere, ma è pur vero che il prode Taylor ci ha abituati a ben altri standard di raffinatezza intellettuale. Se non altro il live è servito per rinfrescare al pubblico la memoria sugli anni Sessanta e il free dei padri, sui New York Contemporary Five e sull'epoca dei loft. Le radici nel jazz contano, eccome.

Deludente, senza se e senza ma, è invece stato il live della sassofonista tedesca, ma newyorchese d'adozione, Ingrid Laubrock. Eppure il quintetto Anti House, completato dalla Halvorson, da John Hebert, dal pianoforte di Kris Davis e dalla batteria del fuoriclasse Tom Rainey, prometteva scintille. E invece qualcosa non ha funzionato. Intrappolato negli angusti corridoi delle composizioni della leader, il set non è riuscito a decollare, annaspando sulla superficie di una musica asettica e inutilmente tortuosa, come una macchina di grossa cilindrata che non riesce a ingranare la seconda. Decisamente più rinfrescanti gli Speak di Cuong Vu, progetto "didattico" nato a Seattle, città nella quale il trombettista (newyorchese) insegna musica da un paio d'anni. Con il già scudiero di Pat Metheny quattro giovanotti di belle speranze nati e cresciuti nella terra del grunge: Andrew Swanson al tenore, Aaron Otheim al pianoforte, Luke Bergman al basso elettrico e Chris Icasiano alla Batteria. Scrittura agile e incisiva, temi taglienti e accattivanti, un saggio convincente di modern main-stream sbarazzino. Mica male per essere un dopo-scuola!

Fin qui le nuove leve, ma tra i newyorchesi in cartellone c'erano anche due splendidi cinquantenni (per dirla alla Nanni Moretti) come Marc Ribot e Roy Nathanson. Strepitoso il solo di Ribot, che con la sua chitarra acustica ha regalato un'ora di un'intensità a tratti insostenibile. Il live si è aperto in un'atmosfera cameristica di assoluto raccoglimento, da qualche parte tra Scelsi e John Fahey. A seguire blues a profusione, un paio di standard (compresa l'immancabile "Stella by Starlight"), Ornette e Ayler (una "Ghosts" commovente ed essenziale). Al di là delle mille riflessioni possibili su tecnica e vastità del campo d'azione, la grandezza di Ribot, uno dei più incredibili musicisti "jazz" in circolazione, sta nella capacità di arrivare col cuore dove non arrivano le dita. Strepitoso il bis, l'unico brano nel quale il nostro ha imbracciato l'elettrica: geniale la rilettura alla Glenn Branca di alcuni estratti di "Some of the Harmony of Maine" di John Cage, composizione del '78 per organo e sei assistenti.

Lo stesso Ribot è poi salito sul palco del main stage per accompagnare Roy Nathanson e Curtis Fowlkes nella reunion dei Jazz Passengers, gruppo attivo negli anni Ottanta. Trascinante l'esibizione del settetto, completato dal vibrafono di Bill Ware, dal contrabbasso di Brad Jones, dal violino di Sam Bardfeld e dalla batteria di Ej Rodriguez. La classe non è acqua, verrebbe da dire, e anche se gli anni passano, quando ci sono umiltà, intelligenza e personalità, è difficile deludere. E infatti le attese non sono state deluse. E al di là della formula, a cavallo tra mainstream, soul e chissà che altro, è stata la contagiosa umanità dei musicisti a conquistare la platea. Su tutti Nathanson, uno dei più sottovalutati cantori della New York degli ultimi trent'anni, come ha confermato anche l'altra esibizione che lo ha visto sul palco del Nexus con il suo Subway Moon, progetto audio-video ispirato alla metropolitana newyorchese. Novello Marcovaldo, Nathanson ha guidato il pubblico alla scoperta delle piccole storie di ordinaria quotidianità che vanno in scena sotto i piedi degli ignari passanti, tra barboni, prostitute, ballerine russe incontrate per caso e amate per un quarto d'ora e chiassose famiglie ispaniche. E anche qui tanta umanità, comprensione delle miserie altrui e perdono. Che straordinario narratore!

New York Is Now, si diceva negli anni Sessanta, ma anche Chicago non è da meno. E se una palma dev'essere (scioccamente) assegnata al concerto principe della rassegna (non storcete il naso, è solo un gioco), ebbene, la palma va assegnata alla Exploding Star Orchestra. Che la formazione sia uno dei fari del jazz contemporaneo lo si sapeva, che nella creatura di Rob Mazurek riviva tutto il meglio della Chicago degli ultimi cinquant'anni (da Sun Ra ai Tortoise passando per l'AACM) pure, ma vederli dal vivo 'sti diavolacci è davvero tutta un'altra cosa. Travolgente il sabba andato in scena sul main stage, un rito, una celebrazione. Menzione di merito per il flauto di Nicole Mitchell, la più esposta dal punto di vista solistico, e per il vibrafono di Jason Adasiewicz, musicista eccelso. Il motore dell'Exploding Star è però la doppia sezione ritmica formata dal contrabbasso di Josh Abrams, dal basso elettrico di Matthew Lux e dalle batteria di John Herndon e Mike Reed, un fulcro vitale sul quale poggiano le architetture di Mazurek (un po' in ombra, ma sempre vigile). Commovente la dedica a Fred Anderson e a Bill Dixon, che avrebbe dovuto essere sul palco con l'orchestra.

Più carezzevole il set di Myra Melford e dei suoi Be Bread. Affascinante il grande afflato narrativo del progetto, con le delicate composizione della pianista restituite con puntuale trasporto da una formazione impeccabile. Da sballo l'interplay tra il basso gommoso di Stomu Takeishi e la batteria di Matt Wilson, incantevoli gli inserti di harmonium della stessa Melford, dolcissimo il clarinetto di Ben Goldberg, eterea la tromba di Cuong Vu. Raffinatezza ed eleganza, a conferma della vastità di un universo poetico personalissimo e sempre in movimento. Raffinatezza ed eleganza l'hanno portata a Saalfelden anche Sylvie Courvoisier e Mark Feldman, protagonisti tra alti e bassi di due set. Il primo (gli alti) in duo, al Nexus, con il violinista di Chicago (anche se ormai la patria elettiva è New York) e la moglie impegnati in una serie di brani scritti di proprio pugno o da John Zorn. Abbacinante la purezza del set, anche se alla lunga il tutto è risultato un filo stucchevole. Il secondo (i bassi) con un quartetto completato dal contrabbasso di Thomas Morgan e dalla batteria di Gerry Hemingway. Riuscita in parte l'esibizione. Certo, Hemingway è sempre Hemingway, e la Courvoisier in alcuni momento di estatico abbandono è riuscita a risvegliare i demoni dormienti dell'improvvisazione. Tuttavia, nel complesso, il concerto è apparso insabbiato in un camerismo senza sbocchi, con il virtuosismo eccelso di Feldman trasformato in palla al piede. E le ali?

America, America: e l'Europa? Beh, il vecchio continente ne è uscito così così. Due le delusioni cocenti. La prima l'ha firmata la Bergen Big band capitanata da Terje Rypdal. Irrisolto il live della combriccola norvegese, composta da più di una ventina di elementi. Irrisolto nel senso che il quintetto composto da Rypdal alla chitarra, Ståle Storløkken all'organo, Palle Mikkelborg alla tromba, Paolo Vinaccia alla batteria e Magne Thormodsæter al basso, non è mai riuscito a integrarsi con i fiati. Ne è uscita una sorta di frustrante partita a ping pong, segnata sì da qualche colpo d'ala, ma nel complesso insoddisfacente. Niente colpi d'ala, invece, per il violinista Dominique Pifarély, il cui nonetto francese è finito stritolato da una scrittura castrante, poco ariosa, opprimente. Esito simile per l'opening act del festival, affidato al solito a un austriaco, il trombettista Franz Hautzinger. Alla testa dei suoi Third Eye colui che avrebbe dovuto fare gli onori di casa ha destato solo perplessità. Inutili i tentativi di Tony Buck e William Parker di rianimare il set.

Per fortuna ci hanno pensato i britannici Led Bib a tenere alto il vessillo della vecchia Europa. Elettrizzante l'esibizione dei cinque figli di Sua Maestà, che nei mesi scorsi avevano attirato l'attenzione con l'epifanico Sensible Shoes, uscito su Cuneiform. Qualcuno ha già parlato di post- jazz, punk-funk-jazz e new jazz generation. Masturbazioni alla Wire: quel che conta è la freschezza di un progetto divertente, trascinante, suonato alla grandissima e sorretto da una scrittura implacabile. Aggiungete la giusta dose di paraculaggine, ed ecco una band che potrebbe tranquillamente suonare ai Magazzini Generali di Milano o all'All Tomorrow's Parties, per una musica basata sull'intreccio tra i due contralti in front-line e dalla ritmica nevrotica dell'ottimo Mark Holub (che ha pure i numeri per divertire e divertirsi su un palco). Europa giovane, che ci piace assai.

Meno giovane ma altrettanto convincente l'Europa di Mats Gustafsson, salito sul palco del main stage con i suoi The Thing XXL. Rispetto al recente live in quel di Nickelsdorf fuori Vandermark, McPhee e Bauer, dentro la tromba di Peter Evans, il piano di Jim Baker e il trombone di Mats Äleklint. Confermati Terrie Ex alla chitarra e, ovviamente, Ingebrigt Haker-Flaten al basso e Paal Nilssen-Love alla batteria. Stordente il risultato, un muro di suono che ha fatto piazza pulita di benpensanti e borghesucci del jazz. C'è rumore e rumore, e quando si ha la lucidità per dominarlo si può arrivare al centro dell'improvvisazione. Scintillante Evans, impegnato in un duetto con Nilssen-Love inserito di filata nella galleria delle cose migliori viste a Saalfelden.

Capitolo Europa out. Due i live assolutamente (e meravigliosamente) fuori contesto, entrambi confinati al Nexus. Il primo ha visto ancora i sassofoni di Gustafsson alla testa del trio Fire! (con il basso elettrico di Johan Berthling e la batteria di Andreas Werliin). Semplice la formula, a tratti ripetitiva, ma di grandissimo impatto: una sorta di slow-free jazz fatto di crescendo furiosi e granitici giri di basso, a cavallo tra suggestioni Neu! (sarà un caso quel punto esclamativo in comune con la band tedesca?) e improvvisi squarci ayleriani. Ancora più out il set dei "nostri" Zu, gli unici italiani invitati a Saalfelden. Gli alfieri nostrani del jazzcore non hanno fatto prigionieri, mettendoci tutto il volume e l'intensità necessarie per far sanguinare le orecchie. Il che, in un teatrino da cineforum, ha trasformato il concerto in un'esperienza quasi traumatica. Traumatica e salutare, perchè vedere il terrore negli occhi di un discreto gruppo di fuggitivi ha ricordato che questa musica sa ancora far male. Geniale la chiusura, con una "Girls Just Want to Have Fun" di Cindy Lauper sparata a velocità doppia un nanosecondo dopo l'ultima nota del basso elettrico di Massimo Pupillo. Terrorismo è arte.

Finito? Quasi. Giusto il tempo di citare per dovere di cronaca il free "tamarro" del chitarrista finlandese Raoul Björkenheim (accompagnato dalla batteria di Hamid Drake e dal contrabbasso di William Parker) e l'hard-bop da manuale della Odean Pope List (grandiosa comunque la pronuncia coltraniana del sax tenore del leader) prima di far sfilare i titoli di coda sul duo composto da Carla Kihlstedt e Satoko Fujii, violino e piano. Vibrante il dialogo andato in scena tra le due amazzoni, un viaggio in quella dimensione ancestrale alla quale non tutti riescono ad accedere. Come se l'improvvisazione non avesse tempo e non avesse storia, come se accompagnasse l'uomo da sempre. Musica fuori dal tempo, dallo spazio. Un flusso, avvinghiante, emozionante...

Foto di Claudio Casanova

Ulteriori immagini del festival sono disponibili nelle gallerie dedicate ai concerti di: Mary Halvorson, The Thing XXL e Exploding Star Orchestra.

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