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Jazz Brugge 2012

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Bruges (Belgio) - 4-7.10.2012

Anche questa edizione di Brugge Jazz si è rivelata una imprescindibile finestra sul futuro, proponendo artisti altamente creativi altrove ridotti alla semi-invisibilità mediatica. Il festival fiammingo è un'oasi di energia vivificante, che viaggia superbamente nel tempo e nello spazio. Nel suo cartellone troviamo sempre una musica che dal Nord Europa si estende al Mediterraneo fino a lambire le Americhe bagnando le acque del jazz, la musica eurocolta e l'elettronica. Aleggia in queste proposte uno spirito altamente europeo, che pur pagando gli immancabili tributi alla tradizione afroamericana del jazz non ne rimane per nulla irretito. Dal quattro al sette ottobre, diciannove concerti in programma che hanno fatto interagire il jazz con altri generi musicali e forme d'arte. C'è stato anche spazio per la poesia di Edgar Allen Poe che la vocalist Claron McFadden ha riproposto con una interessante combinazione timbrica tra il bel canto classico ed i sax jazz dell'Artvark Quartet.

Davvero originale il progetto multimediale del Collective Arfi in un affascinante connubio tra suoni, immagini e teatro musicale. È un gruppo che ben rappresenta lo spirito del festival con una musica anfibia, ricca di stranianti deviazioni. Sincronizzata con le immagini di un celebre quadro ("Il trionfo della morte" di Bruegel il Vecchio del 1562), la musica ne spiega il significato allegorico facendo ricorso a strumenti visibili sulla tela. Ne è discesa una sontuosa sinestesia multimediale, con suoni stratificati che partono dal mondo musicale barocco. Un vero colpo di genio quello di riattualizzare vari stilemi, che toccano le danze macabre di Saint-Sains fino al modello di "Genuine Tong Funeral" di Carla Bley.

Come dicevamo, la strada seguita a Bruges è quella di far interagire tre mondi: il polo cameristico della tradizione eurocolta, il linguaggio dell'improvvisazione jazzistica, l'integrazione dell'elettronica con gli strumenti acustici. Una tecnologia adoperata in maniera sapiente per raddoppiare voci, costruire bordoni e ottenere riverberi. In primo piano una fitta rete di trame interne ed esterne al jazz, che così grazie ai progetti straordinari di Michel Godard e Christophe Monniot dialoga creativamente con il mondo barocco. Nel rileggere in maniera destrutturante le musiche di Monteverdi e Vivaldi, i due musicisti francesi hanno magistralmente operato una strabiliante opera di straniamento sonoro volto a risignificare il repertorio affrontato con il linguaggio dell'improvvisazione jazzistica. Nei loro arrangiamenti vi si ritrovano la poesia e la soave delicatezza, abbinate ad un modo obliquo ed allusivo di affrontare i temi.

È stato proprio questo il segreto di due proposte così riuscite: un rigido controllo iniziale delle strutture formali associato ad una freschezza improvvisativa che sempre più di rado capita di ascoltare. Un'occasione per riflettere sulla infinita apertura esecutiva del jazz e sul suo salutare eclettismo. Da parte di Godard l'ennesima prova superba per dimostrare quanto la creatività sia una condizione mentale al di là delle fonti adottate, siano esse sperimentazione più radicale, tradizione popolare o musica colta.

Altri tre concerti di questa edizione sono destinati a rimanere impressi nella memoria dei presenti. Ne sono stati protagonisti il sassofonista Evan Parker con il bassista Peter Jacquemyn, il trombonista Samuel Blaser con il batterista Pierre Favre, la pianista Irène Schweizer affiancata dal sassofonista Jürg Wickihalder. Ad accumunarli un laboratorio trasversale di indagine costruito per addizioni e sottrazioni di forme e colori, su cui si innesta il più radicale mondo dell'improvvisazione. In primo piano il magmatico flusso circolare di basso o batteria esaltato dal fraseggio segmentato dei solisti. Il tutto nel segno dell'equazione rischiosa improvvisazione=composizione estemporanea di cui Evan Parker è un maestro. Personaggio fondante del free-jazz europeo, egli rimane una figura di assoluto rilievo sul piano tecnico dispiegando note di impressionante visionarietà. Nel medievale Sint-Janshospitaal si è avuto un'eco emozionante di quelle sontuose riflessioni sull'emissione sonora alle quali è legato il nome del musicista inglese.

Tanto groove con il gruppo Electric Barbarian con i loro loops elettronici e ritmi drum'n'bass pronti ad incastonarsi in strutture jazz. Esemplari gli equilibri di questo bel collettivo, che si caratterizza per una proposta dinamica, aperta ad un frastagliato universo ritmico. Senza grandi palpiti l'omaggio di Aldo Romano a Don Cherry, sia pur caratterizzato da un buon interplay con il bassista Henry Texier. Ma la collaborazione di lunga data non fa scattare la scintilla per nuove esplorazioni, tali da far superare la classicità del modello omaggiato. Il "Complete Communion" di Don Cherry rivive così quaranta anni dopo in chiave hard-bop, risultando deficitario dal punto di vista sia progettuale che espressivo.

È andata decisamente meglio con il trio del pianista Django Bates, impegnato nella rilettura di Charlie Parker. Le notevoli doti di arrangiatore del leader hanno segnato un percorso di intelligente ricercatezza intriso di effetti free ed espressionistici. Una (ri)scrittura visionaria di un mondo nascosto ed irrealizzato al quale Bird si sarebbe probabilmente accostato se non fosse scomparso prematuramente.

Non all'altezza delle aspettative i progetti dei jazzisti italiani, da cui vengono le delusioni del festival. Si sono però superbamente distinti il sassofonista Gavino Murgia ed il contrabbassista Manolo Cabras, rispettivamente al fianco di Godard e Manuel Hermia. La maestria tecnica di Bosso è stata imprigionata dal duo Romano/Texier in un progetto nel quale il trombettista si è rivelato fuori contesto. Pieranunzi è da qualche anno impegnato in una opera di autocelebrazione che lo ha portato alla ripetizione di suoi precedenti lavori. Divertente ma debole la giustapposizione dei riff rock con l'universo monkiano operata da Bearzatti. Quella che manca è la profondità di un discorso che guarda più alla superficie che non alla sostanza.

Sugli scudi Kris Defoort, tra i più eleganti protagonisti del piano jazz europeo di oggi. Un artista poliedrico e raffinato, che abbina come pochi sapienza armonica, magistero strumentale, pathos. Nell'insieme un festival memorabile, che sembra aver dato seguito ad una celebre pensiero di Adorno: "non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze".

Foto di Willy Schuyten.

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