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Intervista inedita con Horace Tapscott

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Quest'intervista inedita con Horace Tapscott risale al 28 giugno 1987, il giorno prima del concerto del suo gruppo al Teatro Romano di Verona nell'ambito di "Verona Jazz".

Il pianista texano di nascita ma californiano d'adozione [per leggere un approfondimento sulla sua sua figura clicca qui], giungeva per la seconda ed ultima volta in Italia, dopo aver debuttato all'edizione 1980 dello stesso festival grazie alla lungimiranza del direttore artistico Nicola Tessitore.

In un'edizione straordinariamente ricca di nomi e progetti (Ornette Coleman con orchestra sinfonica in Skies of America, lo Stringjazz di Neidlinger, Benny Carter, il Modern Jazz Quartet, il duo Burton/Corea, il trio di Oscar Peterson ed altri) il set di Tapscott non ebbe i riconoscimenti che meritava.

All About Jazz: Nel 1969 ha registrato l'album The Giant Is Awakened. L'attuale esibizione veronese va vista alla luce di quel lavoro?

Horace Tapscott: Si. Anche se mancano due componenti del gruppo originario, il batterista Everett Brown e il secondo bassista Walter Savage, il nucleo del gruppo resta lo stesso ed abbiamo in repertorio anche i temi di quell'album, come "The Dark Three".

AAJ: Quali sono stati i suoi primi contatti con il jazz?

H.T.: Avrò avuto sei o sette anni. Mia mamma era una pianista jazz e nella nostra casa a Houston c'era un grande piano che attirò fin dall'infanzia la mia attenzione. Inoltre attorno a me, nel mio quartiere, si ascoltava jazz dappertutto.

Quando nel 1945 ci siamo trasferiti a Los Angeles andammo ad abitare nei pressi del sindacato musicisti neri, il Local 767.

Io bazzicavo sempre lì attorno per ascoltare le orchestre che provavano all'interno e vedere Duke Ellington, Lionel Hampton, Art Tatum, Gerald Wilson e tanti altri. Ero affascinato da queste orchestre e spesso m'intrufolavo quando suonavano sbirciando le partiture e chiedendo spiegazioni...

AAJ: Cosa ricorda della Central Avenue?

H.T.: Oh, tante cose! Ricordo che sostavo fuori del Clark Hotel, dove suonava Art Tatum. Avevo 11 o 12 anni ed ero troppo piccolo per poter entrare e così mi piazzavo vicino ad una finestra e sbirciavo dentro... Con Tatum c'era Red Callender al contrabbasso... Ma tutta la via era un concentrato di club e c'era musica tutte le sere.

AAJ: Vorrei sapere qualcosa di Lloyd Reese. È stato un mitico insegnante per molti jazzmen californiani compreso Lei ed Eric Dolphy...

H.T.: Eric, io e qualche altro ragazzo studiavamo musica da Lloyd Reese ma non avevamo i soldi per pagare le lezioni e quindi facevamo dei lavoretti per lui, come pulire la casa e il giardino.

AAJ: Se non sbaglio il suo primo ingaggio professionale è stato nell'orchestra di Gerald Wilson...

H.T.: Si, Gerald viveva nel mio stesso quartiere e lo incontravo sempre in strada, vicino al sindacato musicisti. Una volta mi vide con in mano il trombone e mi chiese se sapevo suonarlo. Gli risposi di si e poco tempo dopo ero già nella sua orchestra dove suonavano Buddy Collette, Melba Liston, Dexter Gordon, Wardell Gray, Ernie Royal, Lawrence Marable, Eric Dolphy, Curtis Counce, Carl Perkins ed altri. Io e Lester Robinson eravamo tra i più giovani della band. Eric Dolphy era solo di qualche anno più grande.

Gerald Wilson è stato il primo che mi ha insegnato a comporre e arrangiare per una grande orchestra, ma ho appreso anche da Melba Liston e Gil Fuller. Non ho svolto un apprendimento formale ma ho appreso, per così dire, sul campo ed ho rifiutato, dopo le scuole superiori, d'iscrivermi alla Juilliard anche se mia mamma aveva messo da parte i soldi...

AAJ: Ci può parlare dell'Underground Musicians Associations?

H.T.: L'associazione nacque nel 1959 all'interno della comunità artistica afro-americana di Los Angeles. C'erano scrittori, ballerini, poeti, musicisti, cantanti e ci esibivamo nella comunità. Poco tempo dopo l'UGMA cambiò il nome in UGMAA (Union of God's Musicians and Artists Ascension) e tra le sue varie attività - rivolte a promuovere le arti ed insegnare ai giovani - c'era quella della Pan Afrikan Peoples Arkestra.

Originariamente la band si chiamava Community Cultural Arkestra e ne facevano parte tra gli altri il trombonista Lester Robinson, la cantante Linda Hill, Arthur Blythe, Jimmie Woods e Guido Sinclair ai sassofoni, Everett Brown oppure Leroy Brooks alla batteria. Provavamo le sere dei giorni feriali e ci esibivamo soprattutto nei fine settimana perché tutti avevano altre attività da svolgere come il lavoro o la scuola.

AAJ: È stato lei a trovare quel nome?

H.T.: In realtà era la gente che ci chiamava col termine underground perché la nostra musica non usciva dal sottosuolo (del quartiere).

AAJ: Dove suonavate?

H.T.: In posti diversi. Per le prove c'era la casa di Linda Hill e la gente dello stabile divenne così abituata alla musica che non chiamavano la polizia se ci capitava di far tardi la notte. Anzi venivano a vederci e quando ci accadeva di saltare una prova qualcuno poi ci diceva: "Hey cos'è successo alla nostra band? Dove siete finiti?". Negli anni seguenti ci siamo trasferiti a provare nella chiesa Immanuel United Church of Christ e lì siamo rimasti per quasi un decennio suonando anche durante le funzioni domenicali.

AAJ: Avete inciso dei dischi con l'Arkerstra?

H.T.: Gli unici li abbiamo registrati grazie all'interessamento di Tom Albach, il proprietario della Nimbus, un americano di origine tedesca, grande e grosso, che veniva spesso nel ghetto ad ascoltarci. È stato l'unico che ci ha proposto d'incidere, ci ha supportato e ha svolto un ruolo significativo nella nostra comunità, l'unico bianco a farlo. Con lui abbiamo realizzato varie altre cose nel corso degli anni.

AAJ: Lei è una delle figure eminenti della scena musicale californiana ma i media non le danno l'attenzione che merita. Come spiega questo fatto?

H.T.: Per essere menzionati dai media bisogna fare certe cose in ambito musicale e sono proprio quelle cose che io non voglio fare: noi abbiamo scelto di privilegiare la relazione entro la comunità, dare un contributo alla conservazione dell'arte afro-americana. Ora le cose vanno un po' meglio e, rispetto al passato, la stampa di Los Angeles mostra qualche interesse verso le nostre attività. Comunque, la mia, la nostra musica è contributiva piuttosto che competitiva e la stampa non ha interesse a scrivere di qualcosa che è rivolto essenzialmente alla comunità nera. Comunque proprio ora che la tecnologia sta cambiando rapidamente il volto della musica, la scelta essenziale resta quella di operare nella comunità e produrre musica restando ancorati alle radici.

AAJ: Negli ultimi 20 anni le politiche dell'industria musicale connesse agli sviluppi tecnologici hanno prodotto grossi mutamenti sul volto della musica afro-americana. Gli effetti sono piuttosto terribili...

H.T.: Da un punto di vista generale lo sviluppo tecnologico è qualcosa di positivo ma se viene usato per confezionare direttamente prodotti musicali è un passo indietro perché non dà spazio alla rappresentazione dei sentimenti umani. Io continuo a credere nella vera essenza della musica che diventa espressione dei sentimenti collettivi e quindi è fondamentale che i musicisti entrino in contatto diretto con la gente, suonando musica dal vivo ed evitando che i giovani siano esposti solo all'azione del mercato discografico.

AAJ: So che è molto amico di Phineas Newborn. Ha sue notizie?

H.T.: Phineas vive nella sua casa d Memphis, Tennessee. Ha avuto un rallentamento della sua attività ma sta bene anche se non dà quasi più concerti, però si esercita sempre. È stato un pianista fantastico ed anche un magnifico sassofonista.

Foto di Angelo Leonardi (la seconda e la terza) e Anita Zycka (la prima e la quarta)

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