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Intervista a Fabio Morgera
ByNei giorni del festival di Saalfelden lo abbiamo intervistato per i lettori italiani di All About Jazz.
All About Jazz: Rispetto ai tuoi ultimi dischi, ad esempio The Voice Within, il tuo nuovo lavoro Need For Peace ha un taglio piuttosto diverso: molti momenti lirici e un organico quasi del tutto acustico. Come mai?
Fabio Morgera: Il progetto Need For Peace nasce come riflessione post-11 settembre sulla fondamentale necessità di pace, sia interiore che fra gli uomini, e della facoltà che ha la musica di esprimerla. Si tratta di jazzsongs piuttosto sofisticate, pacate ballads e un paio di bossanove spensierate, ma anche qualche brano jazz più "tosto", imprescindibile data la mia influenza newyorkese per le sonorità più forti.
AAJ: Da qualche tempo suoni stabilmente nell'orchestra di Butch Morris che s'esibisce al Nublu di New York ogni lunedì sera. Com'è nata questa collaborazione?
F.M.: Specialmente dopo l'11 settembre l'unico locale che ospitava le cose un po' nuove era il Nublu. Io l'ho frequentato dall'inizio perché Ilhan Ersahin (sassofonista e proprietario del club) è mio amico di vecchia data. Sapevo certamente chi era Butch ma è lì che l'ho ascoltato veramente a capo della sua orchestra e sono rimasto estasiato.
Ho capito quanto era grande quest'uomo. Aver creato un modo di comporre improvvisando è una cosa eccezionale. La band funziona perché si muove trasversalmente a vari generi e riesce a integrare tutti i tipi di jazz, funk, classica... Tutto è iniziato circa due anni fa. Ero con J.D. Allen e andammo una sera a sentire l'orchestra. Nell'intervallo andammo a salutare Butch e lui ci disse: "Volete suonare nel secondo set? Avete con voi gli strumenti?". Io non ce l'avevo ma risposi "No. Ma lo vado a prendere subito" e scappai di corsa a casa in taxi. La collaborazione è iniziata così...
AAJ: Era la prima volta che suonavi con lui?
F.M.: Si. Era la prima volta e da allora ho continuato in modo regolare. Al Nublu l'aggregazione è alquanto libera e chiunque sappia suonare, specialmente se presentato da un altro musicista può aggiungersi. Ovviamente deve avere orecchie per capire e seguire attentamente le sue spiegazioni, prima della serata. Butch rispiega infatti il significato dei suoi gesti prima d'iniziare ogni esibizione.
AAJ: E' una grammatica ormai codificata?
F.M.: Si certo. Addirittura ha inviato a me e agli altri componenti dell'orchestra un'e-mail con tutti i segni spiegati a parole. I segni sono quelli ma ovviamente la sua presenza è insostituibile. Basta un suo sguardo e già capisci cosa devi fare. Non puoi perdere mai l'attenzione e devi sempre guardarlo... se ti trova che non lo guardi ti fa un cazziatone che ti mette quasi paura...
AAJ: Questo controllo rigoroso porta però ad una musica fatta di leggerezza e grande libertà...
F:M.: Le note le scegliamo noi. A volte Butch canticchia una melodia ma non pretende che si eseguano le sue note ma piuttosto il ritmo...
AAJ: A proposito di ritmo torniamo a te. Mi sembra che a differenza di molti jazzisti bianchi privilegi particolarmente l'aspetto ritmico della musica. La cultura napoletana ha avuto una qualche influenza in questo?
F.M.: Le figurazioni afro no, quelle si apprendono solo suonando con i batteristi ed i percussionisti neri. Per noi che veniamo da una cultura diversa c'è bisogno di un certo apprendimento formale. Bisogna studiare la grammatica, non si può assimilare solo con l'imitazione. La prima volta che un europeo sente la musica afrocubana (ad esempio) non riesce a individuare il battere perché gli accenti sono tutti spostati. È quindi importante assorbire e poi sviluppare un fraseggio che si accordi con queste figurazioni. Tornando alla tua domanda credo che però mi sia tornato utile suonare la tarantella, almeno per quanto riguarda la precisione del ritmo e direi anche per la grinta.
AAJ: Com'è entrato il jazz nella tua vita?
F.M.: La prima volta che vidi in televisione "Jazzband", il film di Pupi Avati che raccontava la storia di un gruppetto di appassionati bolognesi di jazz tradizionale. Poi ancora in televisione un filmato di Louis Armstrong che mi colpì molto. Avevo circa 14 anni ed ero ancora infarcito di musica rock inglese. Avendo perso la mano sinistra da bambino, suonavo il basso elettrico con un aggeggio che avevo costruito per superare il mio handicap: avevo messo un polsino da tennis sul braccio che fissava un pezzo di compensato con un plettro. Ero piuttosto bravo ma non sarei potuto arrivare lontano e non lo capivo. Il mio maestro di basso, Raf Palumbo, me lo fece notare e mi consigliò di passare alla tromba. Così mi decisi a cambiare strumento. Mi bocciarono due volte all'esame d'ammissione al conservatorio sempre a causa del mio handicap, motivando che la mano sinistra ha la funzione di muovere le pompe che intonano le note stonate ed è quindi indispensabile. Io cercai di spiegare che avrei trovato una soluzione ma non ci fu niente da fare.
AAJ: Allora?
F.M.: Allora andai alla scuola di musica di Fiesole e lì trovai un maestro, Tolmino Marianini, che amava anche il jazz e mi prese subito dopo avermi sentito suonare "Four" di Miles Davis. Poi iniziai a suonare con l'Orchestra del Cam di Firenze dove conobbi Bruno Tommaso che mi segnalò per un'orchestra delle Marche. Una volta venne a dirigerla Giorgio Gaslini che si accorse di me e mi prese nel suo ottetto, segnalandomi anche per l'Orchestra Giovanile della Cee, di cui divenni un membro stabile.
AAJ: Per quanto riguarda la tromba quali sono stati i tuoi modelli?
F.M.: I primi trombettisti che ho visto dal vivo sono stati Chet e Rava, e fu Enrico a consigliarmi di comprare tutte le incisioni di Miles per la Prestige. Dopo Davis ho preso un'altra "cotta" per Woody Shaw, un musicista così innovativo che il suo linguaggio richiede molto tempo prima di essere assimilato, infatti tuttora dovrei trascriverne un altro po' di assoli prima di potermi definirmi suo seguace... ultimamente infine ho un debole per Kenny Dorham, ma come si possono dimenticare Lee Morgan, Freddie Hubbard, Fats Navarro e, un altro dei miei insegnanti, Donald Byrd?
AAJ: Dopo aver studiato alla Berklee, all'inizio degli anni novanta, ti sei trasferito a New York, il sogno di ogni giovane jazzista europeo. Cosa ricordi di quei primi anni? Che esperienze hai fatto?
F.M.: In quegli anni cercavo di sbarcare il lunario per potermi mantenere a New York; già avevo serate di jazz a mio nome al Birdland e al Visiones con grandi musicisti come Steve Turre e Billy Hart, ma per pagare l'affitto suonavo musica latina, haitiana e dance music con i DJ del party Giant Step, da cui nacquero i Groove Collective.
AAJ: Com'è nata l'idea del "Groove Collective"?
F.M.: Il gruppo è nato nel 1993. Il mio ruolo era far conoscere a quei giovani che amano solo ballare che esiste anche il jazz. Il gruppo aveva pochissimi jazzisti puri anche se poi, come ospiti, hanno collaborato nomi di rilievo quali Tony Williams o Ravi Coltrane. È stata un'esperienza importante, per l'ultimo disco siamo stati anche nominati per un Grammy, ma non ci suono sempre volentieri perché voglio suonare jazz il più possibile, voglio creare cose belle da ascoltare. Non rinnego la dimensione funky ma non amo dover piacere al pubblico a tutti i costi.
AAJ: Tra gli artisti con cui hai collaborato c'è qualcuno che ricordi volentieri?
F.M.: Voglio nominare subito il grandissimo ballerino di tip tap Tamango. Nonostante il suo show con gli UrbanTap sia molto popolare ho appreso moltissimo in termini di ritmo sia da lui che dai percussionisti del gruppo. Quando suoniamo è sempre un grande piacere anche se non è jazz in senso stretto... è un genere più vicino alla world music. Ricordo poi la registrazione di un disco di Alvin Queen oppure i concerti con Steve Turre o in passato Billy Higgins che sono venuti a collaborare nei miei progetti. Diciamo che non ho fatto molta "scuola" con artisti famosi, mi sono più dedicato a progetti miei con i musicisti a me più vicini. Il mio vero grande mentore è in definitiva Butch Morris...
AAJ: Un sogno nel cassetto?
F.M.: Mi piacerebbe portare il mio gruppo americano in Italia senza incorrere nei soliti problemi di budget e organizzativi. Purtroppo non è facile. Mi piacerebbe che si facesse avanti un buon manager/booking agent per potermi dedicare esclusivamente alla musica. Comunque sono riuscito ad organizzare un minitour italiano per la presentazione del nuovo disco Need for Peace, il 13 dicembre alla Cantina Bentivoglio di Bologna, il 14 al Museo Nazionale di Arti e Tradizioni a Roma, il 15 al Pinocchio di Firenze. Sarò accompagnato da un grandissimo vibrafonista ancora poco conosciuto, Christos Rafalides, e da Gianluca Renzi al basso.
Foto di Claudio Casanova
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