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Il rinascimento del trombone jazz

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Questa monografia sul rinascimento del trombonismo jazz negli anni Ottanta è stata commissionata all'autore dal festival Bergamo Jazz 1995 e pubblicata nel fascicolo "I quaderni dello spettacolo" a cura di Roberto Valentino

Il trombone non è uno strumento di secondo piano nel jazz ma è evidente la sua posizione subalterna nei confronti di tromba e sassofoni: a differenza di questi ultimi, per esempio, non ha mai contribuito, in modo decisivo, alle rivoluzioni stilistiche succedutesi nella musica afroamericana.

A prima vista, l'unica eccezione sembra riguardare il jazz arcaico ma anche allora l'immagine pubblica dello strumento, la sua collocazione ben evidente nella front line, non corrispondeva a una funzione musicale da protagonista. Per molti anni il trombone jazz è stato usato prevalentemente nel suo ruolo timbrico, coloristico, sfruttando la relativa facilità tecnica con cui si possono ottenere vari e suggestivi effetti glissati.

Anche se negli anni Venti emergono già musicisti di tecnica e valore artistico (il primo, ricordiamolo, fu Miff Mole, seguito da Jack Teagarden e Jimmy Harrison), la tendenza a enfatizzare gli effetti coloristici del trombone non è mai venuta meno e la ritroviamo, pur in una differente prospettiva, anche nel free jazz.

Non abbiamo citato le vere e proprie clownerie applicate allo strumento che continuarono fino alla metà degli anni Trenta: dal raglio dell'asino ottenuto da Eddie Edwards dell'Original Dixieland Jazz Band in "Livery Stable Blues" (1917) si arriva a "The Music Goes 'Round" (1936), altro grosso successo di vendite, nato da una scenetta all'Onyx Club in cui Mike Riley fingeva di aver problemi con la coulisse.

Nei novant'anni di storia musicale afroamericana il trombone non ha quindi svolto una funzione di leadership ma non ha neppure condiviso la progressiva caduta di status del clarinetto, l'altro dei tre strumenti guida, accanto alla tromba, nei primi organici del jazz. E se il clarinetto ha trovato recentemente con Don Byron l'occasione di un riscatto, il trombone sta vivendo da oltre vent'anni una stagione fulgida, al punto che non è azzardato parlare di nuovo rinascimento strumentale. L'ultima aggregazione significativa di trombonisti si è avuta negli anni Settanta, nell'ambito della musica improvvisata europea. Ma già dall'inizio del nuovo decennio emerge negli Stati Uniti una generazione di solisti con chiare doti di leadership. Introduciamo i protagonisti e i loro primi lavori discografici.

Dopo un lungo apprendistato in differenti organici tra cui quelli di Anthony Braxton e di Barry Altschul, Ray Anderson incontra nel 1980 il chitarrista Allan Jaffe e dopo una prova in quartetto (Harrisburg Half Life, su Moers Music) forma il gruppo avant-funk Slickaphonics; nel 1984/85 traccia un ponte con la tradizione pre-boppistica registrando gli esuberanti Right Down Your Alley (Soul Note) e Old Bottles New Wine (Enja), con Kenny Barron, Cecil McBee e Dannie Richmond.

La sintesi tra aspetti arcaici e contemporanei si fa eclettica e avventurosa nella seconda metà del decennio in opere come Blues Bred in the Bone (Enja, 1988) e Wishbone (Gramavision, 1990).

Negli stessi anni il quasi coetaneo Steve Turre compie variegate esperienze suonando a lungo con Roland Kirk e con Woody Shaw, nel World Trombone Ensemble di Slide Hampton, in vari gruppi latini (tra cui quello di Manny Oquendo, dove la sezione di tromboni ha avuto grande peso) e alla guida di propri organici. Deve però attendere il 1987 per pubblicare il suo primo album da leader, l'eccellente Viewpoint (Stash) a cui segue, l'anno dopo, Fire and Ice (Stash) una prova di piena maturità, dove il suono del trombone si sposa felicemente con quello del quartetto d'archi.

Ancora nel 1988 esce Different Perspectives (JMT), prima opera di Robin Eubanks, un altro talentoso trombonista, fattosi conoscere quale esponente della cooperativa musicale M-Base. Anche Robin Eubanks ha percorso trasversalmente gli anni Ottanta portando il suo strumento in differenti ambiti espressivi: dal gruppo di Steve Coleman (World Expansion, JMT; Sine Die, Pangaea) a quelli di Branford Marsalis (Scenes in the City, Columbia), Dave Holland (The Razor's Edge, ECM) ed anche nei Jazz Messengers di Art Blakey (Not Yet, Soul Note).

Conclude infine il decennio con un felicissimo incontro musicale con Steve Turre in Dedication (JMT), un album poco conosciuto che ravviva la memoria della storica collaborazione tra J.J. Johnson e Kay Winding. Dopo aver mosso i primi passi dal 1976 al '78 nell'orchestra di Sun Ra e poi con Dollar Brand, Craig Harris emerge con prepotenza negli anni Ottanta negli organici di Henry Threadgill, David Murray e nell'orchestra di Muhal Richard Abrams; contemporaneamente, nel 1983, incide i primi dischi come leader, Aboriginal Affairs (India Navigation), dove si produce anche con il didjeridoo (lo strumento tipico degli aborigeni australiani), e Black Bone (Soul Note), con accanto il sassofonista George Adams, e forma il gruppo Tailgaters Tales. A capo di questa formazione, comprendente il clarinettista Don Byron, Craig Harris registra nel 1986 l'album Shelter (JMT) e nel 1987 Blackout in the Square Root of Soul (JMT).

Nella seconda metà degli anni Ottanta il valore di questi strumentisti ottiene pieni riconoscimenti dalla critica internazionale, nei referendum di Down Beat: dopo essere stato giudicato miglior talento nel 1986, Ray Anderson vince come miglior trombonista nel 1987 a pari merito con Jimmy Knepper, mentre Steve Turre e Craig Harris ottengono i primi due posti nella sezione degli strumentisti meritevoli di maggior riconoscimento. Nel 1988 Ray Anderson è nuovamente al vertice, mentre i talenti da valorizzare sono rispettivamente Turre, Eubanks e Harris. Negli anni Novanta questi nomi si collocano stabilmente ai primi posti della categoria. Sono loro i migliori nuovi trombonisti del decennio ma la scena strumentale è articolata e ricca di sorprese.

Dai primi anni Ottanta riprende lo strumento con regolarità George Lewis, il miglior nuovo talento americano degli anni Settanta e uno dei massimi trombonisti contemporanei. Lo si rivede operare in Europa, prima con Misha Mengelberg e Steve Lacy nell'omaggio a Herbie Nichols e Thelonious Monk (Change of Season e Dutch Masters, entrambi su Soul Note), a più riprese nell'orchestra di Gil Evans (accanto o al posto di Dave Bargeron e Tom Malone, altri nomi da considerare), e poi nel trio con John Zorn e Bill Frisell (News For Lulu e More News For Lulu, hat ART). Anche Glenn Ferris, come Lewis, vive in Francia in quegli anni e collabora con molti organici, tra cui quelli di Barry Altschul (That's Nice, Soul Note) e Steve Lacy (Anthem, Novus) e viene scritturato nell'Orchestre National de Jazz.

Coetaneo di Lewis e Ferris anche Joseph Bowie è un pregnante trombonista cresciuto nei fermenti creativi degli anni Settanta che opera in più direzioni: dopo la miscela di funk, jazz e rock dei Defunkt, entra negli ultimi anni Ottanta nell'Ethnic Heritage Ensemble di Ed Wilkerson e Kahil El'Zabar ravvivandone la poetica (si vedano Ancestral Song, Silkheart, e Dance With The Ancestors, Chameleon).

Aggiungiamo poi Gary Valente e Fred Wesley. Il primo è un solista che preferisce operare in formazioni medio-grandi come quelle di Carla Bley, Charlie Haden e George Russell. Il secondo, che ha lavorato a lungo con James Brown, ha modo di riemergere nel 1990 in un apprezzabile ruolo di solista jazz a partire dall'album New Friends (Minor Music).

Ma una nuova generazione di trombonisti inizia a farsi conoscere nella metà degli anni Ottanta: ricordiamo Frank Lacy, presente in notevoli opere di Henry Threadgill (You Know the Number e Easily Slip Into Another World, ambedue su RCA Novus); Clifton Anderson, eccellente e un po' sacrificato partner di Sonny Rollins; Art Baron, ottimo trombonista di sezione, ascoltato nei dischi della New York Composer's Orchestra, e infine il francese Yves Robert, originale e ultimo esponente dell'autorevole capitolo strumentale europeo, di cui parleremo tra breve. Questo lungo percorso discografico, limitato al passato decennio per non appesantire la trattazione, rende comunque evidente la diversificazione e l'ampiezza del rinnovamento strumentale. Per numero di solisti, ricchezza di contenuti e produzione discografica un paragone con quanto è avvenuto dagli anni Settanta sulla scena del trombone è possibile solo tornando al decennio 1935-45 o alla metà dei Cinquanta.

Il comune orientamento dei nuovi trombonisti americani è quello di operare una sintesi tra le varie forme della contemporaneità e la tradizione, anche arcaica, dello strumento; una posizione che risente del clima espressivo dominante in questi anni, poco propenso alle sperimentazioni radicali. È una sintesi che ognuno dei protagonisti odierni svolge con atteggiamento eclettico, pur evidenziando precise filiazioni dai grandi maestri del passato. Nello stile esuberante e istrionico di Ray Anderson troviamo molti stilemi dei trombonisti pre-boppistici; l'imprinting che ha avuto da bambino, quando ascoltava i dischi paterni di Kid Ory, Trummy Young e Jack Teagarden, ha indirizzato i suoi percorsi futuri facendogli preferire le sonorità ruggenti dei trombonisti ellingtoniani, ovvero la maestria nell'uso delle sordine di "Tricky Sam" Nanton o la corposa e lussureggiante espressività di Lawrence Brown. Sorretto da una tecnica ricercata, Ray Anderson proietta i modelli della tradizione in un quadro contemporaneo, dove coabitano l'espressionismo astratto di certa avanguardia anni Settanta e la passionale comunicativa del funky. La posizione di Anderson ha alcuni punti di contatto con la poetica di Roswell Rudd, mentre è abbastanza distante da Robin Eubanks e Steve Turre, più vicini alla tradizione del trombonismo bop.

In questi ultimi due protagonisti ritroviamo le caratteristiche salienti dello stile di J.J. Johnson, il massimo trombonista del jazz moderno: la purezza degli attacchi e della dizione, l'estrema cura nell'intonazione, il suono pastoso e vellutato, il fraseggio sempre attento alla scelta delle note anche se pirotecnico; uno stile che usa pochissimo le intonazioni rauche e i portamenti ma privilegia la bellezza melodica. Steve Turre e Robin Eubanks mostrano comunque, sin dai loro primi dischi, di aver assimilato con maturità l'intera storia strumentale, dalle origini al free jazz.

Ma come dicevamo il loro maestro resta J.J. Johnson, al quale si aggiungono Slide Hampton e Curtis Fuller: ed è proprio il ruolo del trombone nel jazz moderno che ha fatto scoppiare, qualche anno fa, una pungente polemica tra i due trombonisti e il loro collega Ray Anderson. In un'intervista a Down Beat dell'agosto 1989, quest'ultimo sosteneva l'incompatibilità tra il trombone e lo stile bebop.

Riportiamo le sue parole: "Il tipo di accuratezza richiesta nel bebop e il modo in cui il bebop fa riferimento a scale e a pattern, fanno del trombone uno strumento incredibilmente difficile da suonare. Il trombone non si piega ai pattern di questa musica. (...) Lo strumento non si presta a cose da argento vivo. Altri stili come il dixieland o il free, sono ben più accessibili. Così, se tu investi tempo ed energia per cercare di apprendere il bebop ti allontani da quello che il trombone dovrebbe essere. È pericoloso lavorare contro lo strumento".

Tre mesi dopo la stessa rivista americana pubblicava una lettera firmata Steve Turre e Robin Eubanks in netta contrapposizione con quelle affermazioni: "Ciò che dice Anderson sembra più una scusa che un concetto! Molti dei maestri, compresi J.J. Johnson, Curtis Fuller, Frank Rosolino, Slide Hampton e Julian Priester hanno padroneggiato il bebop a qualsiasi tempo con una concezione armonica. Bill Watrous, George Lewis e il maestro classico Christian Lindburg possono suonare il trombone a incredibile velocità, veloce quanto qualsiasi altro strumento". La lettera si concludeva con parole molto chiare: "Un uomo ha il diritto di esprimersi come artista in qualsiasi idioma egli senta e la bellezza di quell'espressione resta valida. Ma non si cerchi di negare o di far sembrare insignificanti o inadatti al trombone i contributi di altre epoche (che hanno già dimostrato una loro grandezza storica), per ché il trombone è già stato là. Per favore studiamo la nostra storia e teniamoci in contatto con quel che è il livello dello strumento nel mondo d'oggi! Accettiamo la sfida e apprendiamo, sarà un bene per la nostra musica!".

Anche attraverso le polemiche (che sono comunque un segno di vitalità artistica) la tradizione assume un ruolo vivo nella realtà attuale del trombone jazz. Più sfumato, ma non per questo assente, è il rapporto con il passato prossimo, con la scena del rinnovamento strumentale degli anni Settanta. I nuovi ambiti espressivi toccati dai trombonisti europei hanno finito per influenzare i colleghi americani della nuova generazione: si ascoltino per esempio il brano "Evidently" di Robin Eubanks, registrato nel 1990 nell'album Karma (JMT), alcuni momenti di Blackout in the Square Root of Soul di Craig Harris o, in generale, l'opera di Ray Anderson, che non ha perso i legami con la poetica degli anni Settanta. La sua ultima conferma viene dallo splendido Big Band Record (Gramavision), inciso nel 1994 con la Concert Jazz Band di George Gruntz, mentre la sintesi più recente tra avanguardia e tradizione la offre il quartetto Slideride, formazione senza ritmica che riunisce Ray Anderson, George Lewis, Craig Harris e Gary Valente.

Il rinnovamento espressivo dato dal trombone alla musica improvvisata europea non è stato poi ancora adeguatamente valutato in sede critica. Qui, almeno qualche riconoscimento è doveroso. La figura certamente più prestigiosa è quella di Albert Mangelsdorff che ha sviluppato e reso popolare la tecnica multifonica (fino a produrre contemporaneamente sette note), esplorato la dimensione solitaria (in esibizioni live e nei dischi MPS Trombirds del 1972 e Tromboneliness del 1976) e offerto la sintesi più autorevole tra libera sperimentazione e struttura. Mangelsdorff non è stato comunque il primo a cercare con decisione nuove libertà per lo strumento: già nel 1965 l'inglese Paul Rutherford aveva iniziato a fondere suoni e tecniche vocali dando vita a risonanze armoniche inusitate mentre ampliava lo spettro timbrico con l'uso originale di sordine e vari accessori. In Europa c'erano comunque trombonisti di livello mondiale come gli svedesi Eje Thelin e Ake Persson che contribuirono alla nuova fioritura strumentale; fioritura che ebbe connotati "mitteleuropei" per la posizione geografica in cui anche musicisti di differente cultura e nazionalità si trovavano ad operare.

Un centro di aggregazione fu la Globe Unity Orchestra del pianista Alex Von Schlippenbach (forte di una sezione di tromboni che comprendeva Mangelsdorff, Rutherford e Gunther Christmann, altro straordinario sperimentatore) ed anche l'etichetta MPS, nel cui catalogo troviamo importanti opere con i tromboni protagonisti (per esempio Trombone Workshop con Mangelsdorff, Slide Hampton, Ake Persson e Jiggs Whigham, oppure Trombone Summit, ancora con Mangelsdorff e Whigham più Kay Winding e Bill Watrous).

Tra i trombonisti europei di quell'intensa stagione di rinnovamento ricordiamo ancora l'austriaco Radu Malfatti, l'italiano Giancarlo Schiaffini e l'olandese Willem Van Manen.

Nella metà degli anni Settanta quando giunse in Europa con Anthony Braxton, George Lewis non conosceva affatto i nuovi trombonisti europei, al cui ascolto venne incitato proprio dal sassofonista. "Fu così che decisi di andare a sentirli" - dichiarò Lewis in un'intervista a Coda rilasciata alla fine del '76 - "ebbene le loro cose mi piacciono, sono belle".

Questo straordinario musicista può essere visto come l'anello di congiunzione tra i due massimi capitoli del trombone jazz contemporaneo. Troviamo infatti Lewis in alcune opere dell'avanguardia europea (Live at Taktlos e The Storming of the Winter di Irene Schweitzer; Intergalactic Blow e 20th Anniversary della Globe Unity, F'rom Art To Mo-(z) - Art e Five Old Songs del Vienna Art Choir, ecc.) e non è un caso che Yves Robert lo citi tra i suoi principali modelli.

Terminiamo con quest'ultimo, che non è il solo trombonista di valore della nuova generazione (il contributo italiano è considerevole, con Danilo Terenzi, Luca Bonvini e Roberto Rossi) ma è forse il più rappresentativo. Il francese si è fatto conoscere collaborando con i connazionali Louis Sclavis, Michel Portal e Marc Ducret ma ha evidenziato precoci doti di leader. I suoi primi album risalgono al 1983 (Trombone solo, Arfi e Anna S. et autres histoires, GRIM) a cui seguono nel 1990 Des satellites avec des traces de plumes, l'anno seguente Tout court, nel 1992 L'extreme ordinaire e nel 1994 Tout de suite.

Robert si muove in un terreno spiccatamente contemporaneo, riuscendo a coniugare la sperimentazione con la tradizione moderna dello strumento. Usa abilmente l'elettronica e le tecniche della sovraincisione: uscendo dai confini strumentali lo potremmo avvicinare a John Zorn, per la disinvoltura che dimostra nell'inglobare materiali disparati.

Foto di Claudio Casanova (Eubanks, Lewis, Schiaffini, Valente), Cees Van de Ven (Anderson), Jean-Pierre Cosset (Yves Robert).

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