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Gent Jazz Festival 2010 - Il diario pt. 3: biciclette - 9 lug.

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Le biciclette. Anzi, i ciclisti. Non quelli del Tour de France (in Belgio è passato tra il 5 e 6 luglio), ma quelli che circolano a grande velocità nelle strade del centro e della periferia di Gent. Hanno corsie preferenziali e sembrano privilegiati rispetto agli stessi pedoni. Guai a invadere quelle corsie: si viene subito redarguiti a colpi di campanellate.

Se mai gli abitanti della cittadina si affacciassero in una delle città più caotiche d'Italia (a scelta: tra Roma, Napoli e Bari) avrebbero subito una visione infernale. Da noi, preferibilmente, i ciclisti li investiamo. Da noi, preferibilmente, si utilizzano macchine e scooter (qui non se ne vedono proprio) anche per andare a prendere una tazza di caffè. Così è se vi pare.

All'ingresso del Bijloke non troviamo immensi parcheggi di macchine. Tutt'altro. Come è prevedibile gli abitanti interessati al Gent Jazz Festival arrivano in questa mega struttura o a piedi o in bici o col tram. Gli unici a utilizzare le macchine sono i VIP. Oltre ad avere un punto di ristoro riservato e una tribuna inaccessibile, hanno un servizio taxi su misura.

Continua a fare caldo. Oggi, venerdì 9 luglio si sono raggiunti i 35 gradi all'ombra. Tutto ribolle e i belgi non sembrano molto abituati a questa insolita calura. Durante i concerti abbiamo appuntato almeno un paio di mancamenti di spettatori esausti e con la pressione un po' bassa, svenuti non certo per la musica, ma per il gran caldo.

Inizia la terza giornata il Cristian Mendoza Group, artefice di un concetto di latin jazz "exotic" sbilenco e dinoccolato dai sapori cameristici e decostruzionismo free. I cinque musicisti sono tutti capaci di procedere per proprio conto, ma senza perdersi mai di vista.

Vijay Iyer si presenta sul palco con giacca e cravatta. Fedele ai canoni dell'eleganza non si toglierà la giacca per tutto il concerto. Come avrà fatto (ci saranno ad occhio e croce una 40 di gradi sotto i fari) resterà un mistero. Di certo il concerto rappresentato con Stephen Crump al basso e la meraviglia di Marcus Gilmore alla batteria è il più interessante visto fino ad ora.

Progressive jazz, M-Base: il jazz di matrice statunitense irrompe nel festival come una inaspettata ventata di freschezza. Il pianismo di Iyer straborda di lirismo e tecnica sopraffina. Riesce a reinterpretare anche Stevie Wonder ("Big Brother") e soprattutto Michael Jackson ("Human Nature"): anche se suscita qualche sorriso tra il pubblico (lui non capisce il perché e dice che anche Miles Davis era innamorato del brano) riesce a renderla ancora più ricca e interessante dell'originale. Il jazz, quello vero, torna a casa. Ed è un po' come il basket: si gioca in tutto il mondo, ma quello americano è tutta un'altra storia. Crump sembra in trance e canta ogni singola nota che suona al contrabbasso. Poi la gestione dei tempi è fantasiosa e ricca di sorprese. L'interplay tra le mani di Vijay raggiunge vette elevate, mentre Gilmore suona la batteria come se palleggiasse con Maradona o la nazionale brasiliana. Il suo è un drumming poliritmico tra i più brillanti che ci sia capitato di ascoltare negli ultimi anni.

Il fatto singolare è che tra non molto si esibirà la Freedom Band di Chick Corea. Alla batteria c'è Roy Haynes, suo nonno.

È lui, più che il pianista, la vera attrazione della serata. Perché? Semplice: 85 anni e circa mezzo secolo passato a interpretare il ruolo di uno dei più grandi batterista della storia del jazz. Il quintetto di Charlie Parker, Thelonius Monk, Bud Powell, Sarah Vaughan, John Coltrane, Miles Davis e Dizzy Gillespie: si farebbe prima a dire con chi non ha suonato questo energico vecchietto.

Quello della Freedom Band è semplicemente un saggio di bravura senza tempo. Il sax alto di Kenny Garrett è come un tornado d'aria, il contrabbasso di Christian McBride è un portento come la sua stazza. E poi c'è l'impareggiabile Haynes. Il drumming bop è intatto in tutta la sua integrità stilistica. Jazz d'annata di primissima scelta da gustare come un buon whisky stagionato.

Foto di Jos L. Knaepen


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