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Francesca Remigi: impegno sociale, innovazione e crescita

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Il primo disco della batterista e compositrice Francesca Remigi, Il labirinto dei topi, realizzato insieme al gruppo Archipélagos è un progetto complesso e importante, in cui si osserva la società e si esprimono le sue profonde contraddizioni. La batterista di Bergamo ci fa ascoltare il deterioramento delle logiche capitalistiche, lo sfaldamento del sistema sociale e culturale e instilla nella mente, goccia dopo goccia, l'urgenza della riflessione che diviene poi un'occasione conoscitiva. La Remigi richiama il pensiero di scrittori, filosofi, storici (Noam Chomsky, Zygmunt Bauman, Roberto Saviano, Samuel Huntington, William McNeill), e lo trasforma in contenuto extra-musicale, in narrazione verbale e sonora, avvicinandosi progressivamente all'ascoltatore. Il labirinto è fatto di ostacoli, di compromessi, di reiterazioni di errori, ma anche di liberazioni da griglie costrittive. Francesca Remigi e il suo gruppo sperimentano influenze diverse, inglobano strutture ritmiche razionali in momenti di musica carnatica indiana e alimentano costantemente il confronto tra il jazz contemporaneo, il free, l'elettronica. La musica svela le difficoltà di una società disfunzionale, logorata da se stessa, ma lo fa attraverso un messaggio di coesione. "Il labirinto dei topi" è di sicuro uno degli esordi più interessanti degli ultimi tempi.

All About Jazz: Com'è nata la tua passione per la musica, e per il jazz in particolare?

Francesca Remigi: Ho avuto la fortuna di essere nata in una famiglia di musicisti, quindi ho sempre vissuto in un ambiente dove la musica accompagnava tutte le mie giornate. Mio padre è un chitarrista classico, mia madre ha studiato pianoforte, mio nonno suonava la tromba per la sinfonica della Rai. Ho subìto sempre il loro fascino. Ricordo che da piccola ascoltavo mio padre fare le prove in casa con il suo quartetto, o con la big band, ed è stato lui ad introdurmi al jazz. Durante una vacanza in Puglia, avevo quattro o cinque anni, ho assistito al mio primo concerto jazz: Pat Metheny, mi piacque tantissimo. Venendo quindi da un ambiente musicale classico, a tre anni ho iniziato a prendere lezioni di chitarra da mio padre, anche se studiare uno strumento con i propri genitori non è mai un'ottima idea. Così dopo poco ho deciso che non avrei suonato la chitarra e accompagnando mio padre ai concerti con il suo quartetto mi sono concentrata sulla batteria. Osservavo Stefano Bartoli che poi sarebbe diventato il mio insegnante e mi sembrava si divertisse tanto, così all'età di 5 anni decisi che avrei suonato la batteria. In realtà il mio rapporto con la musica è sempre stato un po' luci ed ombre, soprattutto da piccola, lo sentivo come un obbligo, anche crescendo ci ho messo un po' a capire se veramente lo facessi per me stessa o per la mia famiglia. Col tempo, soprattutto dopo il distacco dall'ambiente musicale familiare, ho capito che mi piaceva. I miei genitori però desideravano che entrassi in conservatorio. All'inizio non mi interessava, poi a 17 anni sono stata ammessa al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e ho studiato con Stefano Bagnoli come insegnante di batteria.

AAJ: Oggi che cos'è la musica per te?

FR: Per me il jazz è una forma di interpretazione libera di ciò che ognuno di noi ha dentro di sé. La musica improvvisata, la composizione le vedo come un'espressione di me stessa.

AAJ: Sei la bandleader degli Archipélagos, un sestetto internazionale composto da Claire Parsons, Federico Calcagno, Niran Dasika, Simon Groppe e Ramon van Merkenstein. Dove vi siete conosciuti, com'è nato il progetto?

FR: Il progetto è nato a Bruxelles dove ho vissuto per tre anni. Nel 2020 ho terminato il Master in batteria jazz e durante questi anni ho avuto l'opportunità di conoscere tanti musicisti della scena belga, ma non solo. Il Belgio è un po' il melting pot di influenze e culture diverse. Con molti musicisti ci siamo conosciuti in conservatorio, durante le jam sessions, o ai concerti. Appena sono arrivata a Bruxelles, quindi già dal 2017, ho iniziato a collaborare con il contrabbassista Ramon van Merkenstein e il pianista Simon Groppe. Nel tempo ho deciso di affiancare alla sezione ritmica Federico Calcagno al clarinetto basso, la cantante si è unita a noi successivamente. Invece nell'estate 2019 mi hanno preso alla Banff Jazz Residency, presso il Banff Center for the Arts and Creativity. Sono stata in Canada un mese, la residenza artistica era diretta da Vijay Iyer e Tyshawn Sorey, due delle mie principali influenze. Proprio lì ho conosciuto il trombettista australiano Niran Dasika e dato che sarebbe venuto in Europa per qualche mese, ho colto la palla al balzo e ho organizzato un tour di una quindicina di date tra Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Successivamente e in seguito alla sfida del contest "All You Have to Do Is Playing," lanciato dall'etichetta Emme Record, avremmo dovuto registrare il mio disco a marzo, tutti insieme al Tube Recording Studio di Roma, poi a causa della pandemia abbiamo dovuto posporre le registrazioni. Alla fine ce l'abbiamo fatta e abbiamo organizzato tutto per luglio, ma il trombettista è dovuto tornare in Australia data l'emergenza, quindi lui ha registrato in remoto dopo di noi. Sono molto soddisfatta del risultato finale.

AAJ: Perché avete deciso di chiamarvi così?

FR: Ho scoperto che il termine Archipelagos è sia spagnolo che greco, io l'ho pensato in spagnolo. Significa ovviamente arcipelaghi e indica un insieme di isole, ciascuna isola rappresenta la singola individualità di ogni musicista e tramite l'aggregazione, attraverso questo arcipelago di isole, si costruisce un messaggio collettivo, delle sonorità di gruppo che si esprimono tramite la declinazione identitaria dei musicisti.

AAJ: Torniamo alla tua esperienza all'estero. Com'è stata e quali differenze hai trovato rispetto al contesto italiano?

FR: Ho vissuto quattro anni all'estero e spero di farne ancora tanti. Sono sempre stata una persona che ama viaggiare e confrontarsi con contesti culturali diversi e sin da piccola volevo studiare negli Stati Uniti. Inizialmente sono stata fuori un anno, a Maastricht col progetto Erasmus. Poi sono andata a Bruxelles, un'esperienza formidabile, iniziata in realtà un po' per caso. Durante il mio secondo anno di conservatorio frequentavo anche un corso universitario di interpretariato e traduzione, poiché entrambi procedevano di pari passo sentivo la necessità di decidere. Facevo fatica a scegliere, quindi ho preso l'opportunità dell'Erasmus per concentrarmi sulla musica al 100%. Alla fine sono partita e mi sono immersa nella musica. È stata una rivelazione, perché ho capito che volevo essere una musicista e credo di essere stata anche influenzata dal sistema didattico. Ho incontrato degli insegnanti di batteria aperti alle contaminazioni di genere: il jazz non era visto solo come swing, Philly Joe Jones, Max Roach. All'estero ho scoperto una visione del jazz diversa, si spaziava dal modern jazz, alle sperimentazioni elettroniche, alla musica afrocubana: mi si è aperto un mondo, per cui l'idea del jazz legato alla tradizione si è completamente rivoluzionata. Ho trovato maggiore apertura. Il Conservatorio di Milano mi ha insegnato tanto, quando sono entrata a 17 anni venivo dal rock progressivo, per cui mi è servito conoscere bene la tradizione, anche se forse ho sempre avuto la sensazione che non si andasse oltre un determinato periodo e ci si limitasse agli anni '60 e '70. In Italia forse ho trovato poca possibilità di costruzione di un percorso personale rispetto all'estero, dove mi sembrava incredibile poter scegliere cosa studiare, o presentare mie composizioni. In Italia abbiamo la concezione del self made man, quindi del self made musician. Ho avuto delle difficoltà a imparare in conservatorio, perché c'è la concezione del musicista che deve farsi da solo, mentre all'estero ho trovato più attenzione alla didattica. Inoltre per me, una ragazza batterista di 17 anni, l'ingresso in conservatorio non è stato facile, però non dappertutto è così. Anche se in base alla mia esperienza credo di poter dire che siamo veramente indietro.

AAJ: A proposito di didattica, so che hai insegnato alla Fundación Danilo Pérez (Panama) e all'École Kalleïs a Bruxelles. Cosa ha significato per te quest'esperienza?

FR: L'esperienza alla Fundación Danilo Pérez è stata incredibile! Ho dovuto organizzare tre ore di masterclass e ho deciso di parlare delle influenze della musica carnatica indiana nel jazz che è appunto un argomento che ho studiato negli ultimi quattro anni, da cui prendo anche io spunto per le mie composizioni. L'insegnamento a Bruxelles era diretto ad un pubblico di giovanissimi, avevamo molti bambini di 5-6 anni, talvolta poco motivati, perché magari obbligati dai genitori, quindi non mi ha particolarmente stimolata. Invece quest'anno durante il Master della Berklee di Boston che sto seguendo, ho fatto un corso di pedagogia e didattica musicale che mi ha aperto un mondo. Abbiamo organizzato un video insieme ad altri compagni di corso, in cui spiegavamo cos'è il jazz a dei bambini di 8-9 anni che poi è stato anche distribuito su Spotify, abbiamo svolto attività carine anche da remoto. Ho capito quanto sia importante sperimentare sul campo la didattica musicale.

AAJ: Infatti nel 2020 hai vinto una borsa di studio al Berklee Global Jazz Institute di Boston. Raccontaci...

FR: Dopo la mia esperienza della residenza artistica in Canada ho avuto molti insegnanti che mi hanno spinta ad andare in negli Stati Uniti, sia il batterista Tyshawn Sorey, sia la cantante Jen Shyu durante il Siena Jazz. Personalmente sono sempre stata ispirata da performance contaminate da diversi ambiti, quindi mi sono avvicinata al jazz contemporaneo, improvvisato, che deriva dall'esperienza dell'Art Ensemble Of Chicago e della Association for the Advancement of Creative Musicians. L'idea di andare negli States è sempre stata molto forte, anche per essere vicina ai miei mentori, così Sorey mi ha scritto una lettera di raccomandazioni per andare a Boston. Aggiungo che sin da piccola sono sempre stata fan di Antonio Sanchez e lui aveva studiato lì. Quando ho saputo del programma Berklee Global Jazz in cui prendono dieci musicisti americani e altri dieci provenienti da tutto il mondo, sapevo che sarebbe stato quasi impossibile, invece mi hanno presa. Sarei dovuta partire ad agosto 2020, ma causa covid il campus è stato chiuso, quindi si è spostato tutto online, invece per il secondo semestre ci hanno dato la possibilità di andare a Boston per seguire alcuni corsi, quindi lo finirò in presenza. Da maggio ad agosto sarò lì e di sicuro cercherò di suonare dal vivo con le persone del mio corso.

AAJ: A gennaio è uscito per la Emme Record il tuo disco d'esordio Il labirinto dei topi. Innanzitutto partiamo dal titolo...

FR: Tra le mie letture sono incappata nel libro di Zygmunt Bauman Società sotto assedio. Bauman ha coniato il termine "liquidità" delle relazioni sociali, della realtà sociopolitica, ma anche delle relazioni amorose. Mi sono incuriosita molto perché nel testo il sociologo e filosofo polacco racconta l'esperimento "Il labirinto dei topi" che faceva da studente durante l'università, ideato dallo psicologo comportamentista Tolman. L'esperimento consisteva nel mettere del cibo all'uscita di questo labirinto con i topi dentro e veniva ripetuto più volte, per capire quanto il processo cognitivo dei topi consentisse loro di raggiungere l'uscita del labirinto e di ricordare la strada verso il cibo in maniera sempre più veloce ad ogni ripetizione. Questo esperimento venne fatto per comprendere il processo evolutivo e cognitivo del cervello delle cavie. Bauman stesso sosteneva che fosse un esperimento per conoscere tale processo cognitivo, ma poteva essere anche una metafora della vita umana. Il labirinto può essere emblema di strutture di controllo e di oppressione di massa che dominano la vita di tutti, anche la nostra e quindi come i topi anche gli uomini potrebbero trovarsi intrappolati in schemi sociali prestabiliti, penso ai social media, alle multinazionali. Molto spesso noi guardiamo dei contenuti sui social e non siamo consapevoli che in realtà c'è un algoritmo che ci controlla, tutto è perfettamente studiato, i nostri dati e le nostre informazioni personali sono possedute da questi onnipotenti controllori della società.

AAJ: Mi ha colpito subito la tua idea di musica, non solo perché veicoli messaggi attuali, ma soprattutto perché c'è anche l'intento di smuovere le coscienze. Com'è nata l'idea di creare un disco affrontando temi sociali, culturali e politici?

FR: Sono sempre stata molto curiosa e durante il corso di diritto internazionale ho conosciuto alcuni autori, ad esempio Huntington, Chomsky, McNeill, Saviano. Ho iniziato così ad approcciarmi a questa realtà e a leggere di problematiche sociopolitiche. Sono sempre stata impegnata dal punto di vista sociale, dalle proteste contro la Gelmini a Lega Ambiente. Questo disco rappresenta il tentativo di mettere in musica i miei interessi extra-musicali che poi sono diventati delle credenze. Mi sono appassionata a quelle forme d'arte che non devono essere necessariamente musica, ma anche pittura, scultura, rappresentazioni artistiche che esprimono qualcosa. Ritengo che in momenti di crisi il compito dell'artista sia anche quello di offrire interpretazioni alternative su tematiche attuali, magari non comunicandole in maniera passionale, ma più istintiva. Sono sempre stata folgorata dal prodotto degli artisti che hanno un messaggio da esprimere, per esempio mi colpiscono molto i quadri di Blu, di Bansky, arte per l'emergenza sociale. Personalmente con il mio disco ho cercato di andare al di là della mera rappresentazione formale, aggiungendo del contenuto. A volte gli ascoltatori hanno delle difficoltà a capire il jazz perché non c'è identificazione. La performance è un esempio di spettacolo inclusivo, anche se l'ascoltatore ha poca conoscenza, perché se gli si presenta un prodotto che è un'esperienza multisensoriale, intellettiva, l'ascoltatore si può immedesimare nelle narrazioni, nelle situazioni ed essere più partecipe, invece che ascoltare un brano complesso tecnicamente e magari non capirne molto.

AAJ: Nell'album si respira anche una certa tensione. Penso in particolare alla traccia "The Shooting," agli intrecci tra diversi linguaggi, alle sperimentazioni ritmiche, o ai richiami alla jazz poetry, alla controcultura afroamericana. Perché hai scelto di raccontare in musica la strage di Las Vegas del 2017?

FR: Ci sono alcuni eventi che ti colpiscono particolarmente. Ho alcuni amici che abitano lì e che mi hanno raccontato l'accaduto, per fortuna loro non erano al concerto, quando quell'uomo ha iniziato a sparare sulla folla, però attraverso il loro racconto mi sono immedesimata nella situazione. A livello più ampio questo brano vuole essere una denuncia a Trump, al fatto che abbia alimentato una serie di episodi di violenza, come quello recente al Campidoglio. Il brano si apre con un audio preso dalle news della BBC, subito dopo iniziamo ad improvvisare e la cantante mima le parole degli spettatori di questo concerto e il momento più poetico è verso la metà del pezzo in cui c'è un'atmosfera più liquida e Claire Parsons recita un testo tratto da Gomorra che ho tradotto io. Mi sembrava potesse riprendere quelle atmosfere lì. Nel libro si riferiva ad un commerciante che non aveva pagato il pizzo e veniva raccontato dal punto di vista di un bambino.

AAJ: Due tracce del disco "To Vijay" e "Tiger Study" sono dedicate a due grandi musicisti, Vijay Iyer e Tigran Hamasyan. Qual è la cosa che apprezzi di più del loro stile compositivo?

FR: Sicuramente il loro approccio ritmico. Vijay Iyer è uno studioso di musica carnatica indiana e all'interno dei suoi pezzi fa ampio uso di queste tecniche ritmiche compositive. Quando ho ascoltato il suo disco in trio c'erano delle cose incredibili dal punto di vista ritmico. Di Vijay apprezzo molto anche le melodie complesse, spezzettate, spesso appunto anche tendenti al dissonante, con le quinte aumentate. Sicuramente ho preso maggiore ispirazione da Vijay Iyer che da Tigran Hamasyan, ma lo studio che ho fatto su di lui che poi si è trasformato nel brano "Tiger Study" deriva da un precedente studio di un suo brano "The Grid," tratto dal disco "Mockroot." The grid è lo schema, la griglia, in cui ci sono diverse suddivisioni e strati ritmici, per cui ogni musicista suona dei raggruppamenti diversi e alla fine della battuta il calcolo torna. Ci sono delle strutture ritmiche che possono sembrare contrastanti, ma che poi rientrano nel giro di due o tre battute, si ritorna insieme, anche se sembra che i musicisti stiano suonando delle linee opposte, invece alla fine tutto torna.

AAJ: In passato i modelli di riferimento sono stati i vari Charlie Parker, John Coltrane, o più di recente i vari Brad Mehldau o Joshua Redman. Musicisti della tua generazione guardano ad artisti più vicini a loro, oltre a Iyer e Hamasyan, anche altri come Ben Wendel, Aaron Parks, Allison Miller etc. Come percepisci questo: come una naturale evoluzione dei gusti o come un esempio di continuità con quanto è attuale?

FR: Credo che ci sia un tentativo di continuità, è importante studiare la tradizione, ma essere anche consapevoli delle tendenze del presente, cercare di scoprire la storia del jazz facendosi un'idea e apportando qualcosa di più personale alla musica e capire quali sono gli autori che ci ispirano maggiormente. Tuttavia non ritengo sbagliato il fatto di avere grande ammirazione per artisti contemporanei. Ci sono musicisti che ancora si ostinano a suonare standard in concerto piuttosto che sperimentare, per me il jazz è innovazione, sviluppo, crescita, evoluzione. Il jazz è uno stile musicale che dà voce al musicista e offre maggiore possibilità di manipolare il contenuto musicale. Attraverso la sperimentazione si dà voce a se stessi, alle proprie ispirazioni, passioni, ai propri pensieri. È importante rifarsi ad artisti del nostro tempo, spesso sono persone disponibili, quindi magari per qualsiasi dubbio dal punto di vista compositivo sono molto aperti e disponibili a parlare della loro musica, in quel caso allora si può tornare indietro. Non per forza bisogna partire dal passato, ma si può partire anche dal presente e ricostruire il significato ascoltando artisti e autori del passato. La presenza di Monk, per esempio, si sente ancora negli album di Danilo Pérez. Credo non ci debba essere una modalità univoca di approcciarsi alla tradizione, a volte è più sensato per il musicista iniziare dalla musica che gli piace e poi risalire come fosse un albero genealogico. Credo sia importante trovare un canale personale di interpretazione.

AAJ: Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Qual è la prima cosa che farai non appena la pandemia sarà finita?

FR: Ricominciare a suonare tanto dal vivo! Sto registrando a distanza delle cose, ma è un'esperienza diversa, non c'è interazione tra artisti e non c'è l'adrenalina che ti dà il live. Questa è una cosa che mi è mancata molto in questi mesi. Nei piani futuri, a parte gli Stati Uniti, c'è anche il sogno di fare un dottorato di ricerca, per continuare a studiare e fare ricerca, mentre dal punto di vista musicale ho in programma la registrazione di due album con un progetto in trio che ho da 4-5 anni e con un altro progetto sempre in trio, ma di musica improvvisata. La speranza è quella di continuare a registrare e pubblicare musica. Sto lavorando inoltre ad un mio progetto in solo e sto sperimentando il mondo dell'elettronica, anche se è totalmente nuovo. Ah, dimenticavo, vogliamo aprire un'etichetta! C'è una comunità internazionale di musicisti e improvvisatori con cui collaboro, si chiama CI Community Project, in cui ogni artista ha la possibilità di caricare contenuti, lezioni, masterclass, concerti in streaming. Mi hanno tirato dentro, oggi siamo 20 musicisti da tutto il mondo. Facciamo registrazioni in duo, in trio o in solo, suoniamo contemporary jazz e musica improvvisata e l'idea è quella di aprire un'etichetta a nome della community per cercare di costruire una proposta che sia "musician friendly," che non vada a svantaggio dell'artista. Sarà un esperimento di etichetta equa, fatta dai musicisti stessi, economicamente vantaggiosa e magari ecosostenibile.

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