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Don Byron Gospel Project

Milano, Blue Note, 09.05.2009 Una buona notizia: dopo un cartellone invernale decisamente incline al jazz commerciale, il Blue Note Milano torna ad ospitare musicisti di altissimo livello.

Una cattiva notizia: l'affluenza di pubblico ai due set del Don Byron Gospel Project è stata modesta. Club mezzo vuoto, che anche il più inguaribile ottimista avrebbe faticato a vedere come mezzo pieno. Riesce difficile comprendere quali siano i meccanismi che regolano il successo o l'insuccesso di iniziative musicali in una città come Milano. La comunicazione? La coerenza della programmazione? Il posizionamento in senso squisitamente marketing? Non abbiamo una risposta. Se ce l'avessimo, faremmo un altro mestiere. Ma certo c'è un po' di delusione, nel vostro cronista, nel vedere che nemmeno un musicista di gran classe, dal percorso integro e coerente come Don Byron, riesce a riempire un jazz club, uno dei pochi rimasti in città, sicuramente quello più importante per nome e storia. E detto questo, si capiscono anche certe programmazioni, a volte discutibili dal punto di vista qualitativo, ma che diventano scelte obbligate (ossimoro rivelatore) per chi a fine mese deve pagare una struttura, il personale, e far quadrare i conti. Ma veniamo alla musica.

In questa serata milanese il clarinettista newyorkese ha presentato il suo ultimo progetto, incentrato sul Gospel. Un progetto che possiamo vedere come la prosecuzione dei lavori di Byron sui vari aspetti della cultura e della storia nero-americana, ivi comprese le pagine più oscure, come la Blaxploitation o i Tuskeegee Experiments. Oppure, prendendo spunto da quanto Byron ha detto - tra il serio e il divertito - durante un suo concerto a New York (ascoltabile sul suo sito), come l'ingresso del clarinettista in quel "periodo religioso" che prima o poi attraversano tutti i compositori. Comunque sia, partendo dall'opera di Thomas A. Dorsey, noto anche come The Father of Gospel Music, Byron rivisita qui alcuni grandi classici del genere, cui affianca composizioni originali scritte secondo i canoni della tradizione.

Sul palco, oltre al leader a clarinetto e sax tenore (strumento che ultimamente Byron imbraccia sempre più spesso anche se con risultati piuttosto modesti), la cantante Dk Dyson, Brad Jones al basso elettrico, Pheeroan Aklaff alla batteria e Frank Wilkins al pianoforte. Al primo impatto, la musica produce nell'ascoltatore un certo spiazzamento. Perchè il Gospel Project ci mostra, indubbiamente, un Don Byron inatteso. Un musicista che, abbandonate le complessità armoniche e i guizzi solistici a lui abituali, si immerge anima e corpo nelle più semplici strutture accordali della tradizione per restituircele con un'esecuzione accorata ed affettuosa. Impeccabile nella forma. Affascinante in certe sottigliezze. Godibilissima e coinvolgente nella sua orecchiabilità. E tuttavia l'impressione è quella di vedere sul palco un enorme ridondanza di talento. Una grandissima potenza di fuoco, pronta ad esplodere in tutta la sua energia al primo cenno del leader, ma tenuta ampiamente e volutamente sotto-traccia. A metà concerto però, in modo altrettanto inatteso, si compie la metamorfosi. Un intervento solistico di Byron diventa l'espediente per compiere una brusca sterzata verso il più torrido free. Non c'è gran coerenza, a ben guardare, ma poco importa. L'energia si è ormai liberata, i musicisti si scatenano, la musica vola alta. E la chiusura del concerto è un autentico gioiello. Armonie complesse che mascherano un giro blues, su cui si innesta una dolcissima melodia circolare. Un brano che ci riporta al Don Byron che conoscevamo, alla musica che ci aspettavamo. E che è, in fondo, la musica che gli riesce meglio.

Foto di Roberto Cifarelli.

Altre immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini.

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