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Dimitri Grechi Espinoza: la tranquillità interiore per suonare gli standard

Dimitri Grechi Espinoza: la tranquillità interiore per suonare gli standard

Courtesy Antonio Bartalozzi

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La proiezione di un suono in uno spazio inizia da dentro di sé; riascoltarlo significa ascoltare qualcosa di sé stessi, però in una forma diversa che gli è stata data dalla struttura dell'ambiente che ha attraversato
Senza volerlo, le nostre interviste a Dimitri Grechi Espinoza hanno una curiosa cadenza decennale: la prima fu nel 2003, quando il sassofonista russo-livornese stava facendo crescere il suo Dinamitri Jazz Folklore; la seconda nel 2014, quando il Dinamitri suonava con Amiri Baraka e il musicista aveva attivo un eccellente duo con Tito Mangialajo Rantzer; siamo di nuovo con lui oggi, nel 2023, per parlare dell'ultimo capitolo del progetto che stava iniziando proprio allora, nel quale sviluppa la pratica del solo in ambienti dotati di naturali particolarità acustiche e per il quale, con la preziosa collaborazione di Ponderosa, è giunto al quarto disco. Stavolta, però, invece di brevi composizioni pensate appositamente per questo esercizio, Espinoza sorprende, suonando in prevalenza standard.

All About Jazz: Il disco da poco uscito, Love Is a Losing Game, sembra un'evoluzione del tuo progetto "sacro," OREB, al quale hai dedicato ben tre dischi negli ultimi anni: Angel's Blows, ReCreatio e The Spiritual Way. Stavolta, però, sei tornato alle composizioni della tradizione jazzistica.

Dimitri Grechi Espinoza: È stato un passaggio abbastanza naturale usare questo linguaggio per affrontare standards del repertorio jazz, che ho comunque praticato, nel corso degli anni, con varie formazioni. Nel mio progetto in sax solo, durante le esibizioni live e alle prove, ho spesso suonato qualcuno degli standards che più amavo e l'anno passato mi sono reso conto che avevo maturato un numero sufficiente per presentarli in una raccolta a sé stante e così ho colto l'occasione per registrarli.

AAJ: Dove li hai registrati?

DGE: Nella cisterna romana di Volterra, dove mi avevano invitato per far conoscere il luogo con una performance musicale; durante quell'evento abbiamo registrato del materiale, che ha poi subito un remissaggio in studio.

AAJ: Continui dunque l'esplorazione di spazi sonori, dopo il Battistero di Pisa, il Cisternino di Livorno e tante chiese sparse per l'Italia —io stesso, diversi anni fa, ti ho ascoltato nella suggestiva cornice della cripta di S. Miniato al Monte di Firenze. Com'è la cisterna di Volterra, rispetto ad altri luoghi dove hai suonato?

DGE: È uno spazio abbastanza piccolo e circoscritto, con un riverbero bello e sufficiente, come durata, per il mio progetto, ma anche meglio gestibile rispetto per esempio a quello del Cisternino, che è enorme e ha più sale. La cisterna è in larga parte ricostruita, però ha un suono molto bello e la singolarità di conservare sempre un po' d'acqua, tanto che sono stato costretto a suonare con i piedi a mollo. In generale le cisterne sono luoghi particolarmente adatti per questo genere di musica, oltre che estremamente belli: recentemente sono stato a presentare il disco alla Piscina Mirabilis dei Campi Flegrei. Hanno anche un'importantissima particolarità: per conoscerli non basta guardare o toccare, è necessario ascoltare. Una cosa, questa, che attualizza un aspetto dell'essere umano che nel mondo moderno tendiamo a trascurare, cioè che è attraverso l'ascolto che riusciamo a cogliere l'essenza dei fenomeni e delle cose che ci circondano. Finché di un "essere" non hai ascoltato la sua voce, ne avrai sempre una conoscenza molto superficiale; infatti, nelle culture tradizionali arcaiche il principale organo di conoscenza è l'udito, non la vista, come si ritiene oggi, né gli altri sensi. Aver riscoperto e rimesso a fuoco tale aspetto in questo lavoro mi ha fatto capire perché mi sono gettato, anima e orecchie, in questo tipo di ricerca, anni or sono.

AAJ: Della dimenticata priorità dell'udito sugli altri sensi parlavamo durante un seminario di improvvisazione che ho seguito qualche tempo fa. Certo in questo caso l'utilizzo conoscitivo dell'udito ha una modalità particolarmente suggestiva, perché tu esplori gli spazi attraverso la tua voce, la voce del tuo sax, che conosci bene e che lo spazio ti restituisce in una forma diversa.

DGE: Infatti la relazione del mio suono con lo spazio mi offre due tipi di informazione: la prima è relativa allo spazio, la seconda alla mia stessa interiorità. La proiezione di un suono in uno spazio inizia da dentro di sé; riascoltarlo significa ascoltare qualcosa di sé stessi, però in una forma diversa che gli è stata data dalla struttura dell'ambiente che ha attraversato. Si tratta di una relazione intima tra la dimensione interiore dell'individuo che emette il suono, lo spazio in cui lo emette e ciò che, al ritorno del suono, egli riconosce di sé.

AAJ: Che rapporto c'è tra l'interpretazione tradizionale degli standard—quella per intendersi incentrata sui fraseggi e le variazioni—e questa che fai giocando con le sonorità ambientali? Che cosa cambia?

DGE: Cambia soprattutto il fatto che le variazioni non vengono sviluppate successivamente, ma sono espressioni del rapporto che la melodia ha con sé stessa. Io lavoro su variazioni di suono e di linea melodica, non sulla creazione di cellule o variazioni di accordi. Anche qui, cerco di andare verso l'interno del suono, verso ciò che ha in sé e di proprio, invece che aggiungervi qualcosa di esterno. È un percorso che è stato seguito anche dal jazz, per esempio da Lee Konitz, che per me è un riferimento: lui quella strada l'ha fatta asciugando sempre più le frasi lavorando sul suono. È una strada tuttora aperta e percorribile, anche se va nella direzione opposta rispetto a quel che fa il jazz odierno, che tende ad aggiungere, aumentare, complicare. Konitz in questo è un modello, sebbene le motivazioni che lo spingevano fossero sicuramente diverse dalle mie. Anzi, devo dire che sia quando l'ho conosciuto, sia leggendo interviste nelle quali afferma esplicitamente di aver seguito un'altra strada, è una personalità che mi ha fortemente stimolato ad andare nella direzione in cui sto andando con questi miei lavori: verso l'essenzialità, curando gli aspetti che permettono di valorizzarla. Un lavoro che potremmo definire più "orientale."

AAJ: È qualcosa che diversi anni fa sentii dire anche a Jan Garbarek, che all'inizio della sua carriera suonava molto più torrenziale e "denso" di note, mentre in seguito ripulì progressivamente le frasi per concentrarsi sul suono. Certo, una ricerca anche qui assai lontana dalla tua, ma ancora alla ricerca di un'essenzialità, in contrasto con la costante crescita di informazioni trasmesse dalla tradizione jazzistica prevalente.

DGE: Curiosamente Garbarek l'ho sentito per la prima volta dal vivo alcune settimane fa e sono rimasto davvero colpito: il suo suono e la sua forza comunicativa mi sono piaciuti molto e vi ho riconosciuto qualcosa di quello che faccio anch'io. Penso proprio alla ricerca che è alla base della sua musica, non ai lavori con l'Hilliard Ensemble, dove c'è sì un uso del riverbero e delle sonorità caratteristiche delle chiese, ma è impiegato in modo assai diverso, come ampliamento e non come sottrazione. Invece il suo proprio modo di suonare, pur con le differenze dal mio, va nella mia stessa direzione: ricerca di un suono "puro," poche note, tutte mirate alla ricerca dell'essenza. Un po' come, ancora in altro modo, faceva negli ultimi anni Wayne Shorter. Anche se nei conservatori e nelle scuole di jazz la direzione che si segue è un'altra.

AAJ: Vero, anche se a me sembra che stia crescendo il numero di musicisti che esplorano la timbrica fino a farne il centro focale delle loro opere, anche se non necessariamente nello stesso modo in cui lo fai tu. Che poi, in questo lavoro più che nei tre precedenti, sembri cercare anche una rivitalizzazione dell'aspetto melodico, sebbene in forme molto personali.

DGE: Per chi suona jazz, anche lo sviluppo degli standard e dei loro aspetti melodici è un'evoluzione naturale; poi, però, c'è da tener conto del fatto che le melodie sono un po' passate di moda, probabilmente perché, non avendo in loro stesse grandi tensioni, non rappresentano più le persone che vivono oggi, in un'epoca che viceversa ha tensioni fortissime. È per questo che oggi anche i musicisti, che quelle tensioni le vivono, cercano di rappresentarle o addirittura di moltiplicarle e rafforzarle. Le melodie spesso vorrebbero rappresentare un mondo ideale, permeato di sentimento e nel quale le tensioni sono allontanate, o portate verso l'alto. Per suonarle bene bisogna farlo non solo e non tanto perché sono belle, ma perché si porta dentro di noi qualcosa di quell'ideale. Insomma, per suonare le melodie è necessario avere una certa tranquillità interiore.

AAJ: E tu ci sei arrivato grazie a quel percorso di meditazione interiore attraverso il suono, che hai fatto con OREB.

DGE: Sì, grazie a quello e grazie all'intenzione di rappresentare solo la forma essenziale delle melodie, la loro purezza e liricità, magari togliendo il sentimentalismo, che serve solo a emozionare l'ascoltatore. Un po' come Garbarek e Konitz, come dicevamo prima.

AAJ: Come si riallaccia questo tipo di lavoro, che contiene senz'altro anche un messaggio interiore, con quello che facevi ai tempi della nostra prima intervista, quando lavoravi con il musicista-curatore africano Goma Parfait Ludovic?

DGE: Non è altro che lo sviluppo della ricerca che facevo allora. In quel periodo ero andato a cercare in Africa come il suono, la musica e i musicisti si ponevano in relazione alla guarigione, una strada che ritenevo percorribile, ma che seguivo senza averla in mente in modo molto chiaro. Anche allora, comunque, pensavo alla guarigione non dal punto di vista fisico, ma come ricentramento dell'individuo, del suo "spazio sacro," uno spazio interiore dal quale scaturisce la molteplicità di aspetti che lo compongono ed entro il quale trovano la loro sintesi. Questo percorso di "guarigione" col tempo mi si è sempre più chiarito, e ho iniziato a svilupparlo —prima con il Dinamitri, poi col mio lavoro in solo.

AAJ: Tornando al disco, se i brani sono perlopiù standard, ci sono anche alcune tue composizioni, mentre quello che intitola l'album è di Amy Whinehouse: come l'hai scelto?

DGE: Il brano della Whinehouse mi è venuto in mente guardando un documentario su di lei. Mi è piaciuto come lo cantava, mi è piaciuto il titolo, per cui sono tornato ad ascoltarlo è mi è sembrato che anche la linea melodica si adattasse al tipo di progetto che stavo sviluppano. Anche se vorrei che fosse chiaro che quel titolo non lo intendo come probabilmente faceva lei, cioè che l'amore è una cosa solo dolorosa, bensì nel senso che in amore bisogna dare, fino a spogliarsi di tutto.

AAJ: I brani tuoi sono scritti per quest'occasione?

DGE: "Holy Ayler" era un'idea piuttosto antica, che tuttavia avevo riesumato recentemente in occasione di una serata celebrativa di Albert Ayler e che mi aveva riportato alla mente come anche lui appartenesse alla categoria dei musicisti che lavoravano sul suono, in modo quasi mistico, per cui l'ho rielaborata appositamente per questo disco. "Coltrane Soul" in fondo non è che una coda a "Naima," che la precede, inserita come riconoscimento dell'importanza che John Coltrane ha avuto e continua ad avere per me e per la mia ricerca. Infine "Cecilia" è dedicato alla mia compagna.

AAJ: Oltre il tuo lavoro in solo, cos'altro stai facendo? Il Dinamitri gode ancora di buona salute?

DGE: Sì, gode di buona salute perché ci vogliamo bene, anche se non riusciamo a trovare una data per suonare assieme; ma entro la fine della stagione estiva qualcosa la faremo senz'altro. A parte questo, Toscana Produzioni Musiche mi ha commissionato un progetto dedicato al Mali e al blues, una cosa che mi interessa molto perché mi permette di tornare a suonare il contralto e a occuparmi della musica dei tuareg, alla quale mi ero già dedicato con il Dinamitri. In questo caso i miei compagni sono Gabrio Baldacci e Andrea Beninati, con i quali abbiamo già fatto una prima data in dicembre, ma il progetto andrà ancora avanti, abbiamo alcune date in estate. E poi, comunque, continuerò con la sperimentazione del solo, grazie anche a Ponderosa che da dieci anni—il primo disco è del 2015, ma lo sviluppo è precedente—mi sostiene con entusiasmo, a dispetto del fatto che un progetto come questo non possa che essere economicamente è fallimentare...

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