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Benny Green
Una soporifera cascata di note. Si potrebbe definire così il concerto palermitano di Benny Green, alla testa di un trio coeso ma poco incisivo sul piano della creatività. Tanta la tecnica, ma poca la fantasia nel coniugare linguaggio del bop e sfumature swinganti.
Peccato che a Green manchi un’adeguata dose di tocco personale, quando rilegge con buona padronanza i grandi modelli del jazz. Una lacuna che non gli consente di entrare nell’olimpo dei pianisti, a dispetto di una ragguardevole tecnica individuale.
In lui prevale la colta citazione filologica sulla destrutturazione degli standard proposti, senza oltrepassare la soglia della gradevolezza. Un compito svolto con ordine ma senza spiccate qualità inventive, all’insegna del deja vù e di una pratica musicale asettica ed un po’ stucchevole, che guarda più al nitore formale del mondo classico che non all’improvvisazione jazzistica. Non una nota fuori posto, ma poco brio e disposizione al rischio, quasi fosse un’onta improvvisare.
Si è avuta pure l’impressione che le sue innumerevoli risorse timbriche potrebbero essere valorizzate da scansioni più multiformi, se solo il Nostro avesse la voglia di osare di più. Intanto godiamoci la sua brillante tecnica.
Il che, a seconda dei gusti del pubblico, potrebbe risultare tanto o molto poco.
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