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Bennie Maupin: Miles Beyond
BySento di essere ad un punto della mia vita in cui, dopo aver maturato una notevole esperienza con grandi musicisti, riesco a filtrare le cose in maniera diversa.
Per quarant'anni Bennie Maupin ha suonato con giganti del jazz come Roy Haynes, Horace Silver, Lee Morgan, McCoy Tyner, and Marion Brown. Ha fatto parte del gruppo di Miles che registrò alcuni dei suoi album più innovativi, come Bitches Brew, Big Fun, Jack Johnson e On the Corner.
Il suono del suo clarino basso si muove sui registri gravi come un barracuda in cerca di preda. Dopo aver lavorato a vari progetti con Herbie Hancock, compresa una lunga collaborazione negli Headhunters, Maupin ha lasciato New York per spostarsi a Los Angeles. Ad una brillante carriera di musicista si contrappone però una sfortunata serie di progetti in qualità di leader. Il classico Jewel In the Lotus (ECM, 1974) non è mai stato ristampato su CD, e Manfred Eicher da allora non l'ha più richiamato. I suoi due progetti della fine anni settanta sono scomparsi a seguito dell'impressionnante numero di fusioni commerciali che hanno riguardato la Mercury. Basti dire che una copia dei suoi vinili, Slow Traffic Move Right, è attualmente all'asta su ebay per centosettantacinque dollari. Per non parlare poi di Driving While Black, scomparso insieme alla casa discografica che lo produsse.
Di recente, nel tentativo di invertire la rotta, la Cryptogramophone di Jeff Gauthier ha realizzato Penumbra, un magnifico album che ci introduce nell'attuale mondo musicale di Maupin, un quartetto acustico seducente e convincente che ci rassicura sul futuro di uno dei giganti del jazz attuale.
All About Jazz: Come hai iniziato a suonare?
Bennie Maupin: A sette-otto anni suonavo il pianoforte ad orecchio. Dei tizi avevano lasciato un pianoforte a casa nostra perché, essendo partiti per il sud, non avevano un magazzino dove metterlo. I miei genitori avevano una casa abbastanza grande e gli chiesero se potevano lasciare il piano da noi. Così ho imparato in qualche modo a suonarlo, tutto ad orecchio, e mi piaceva molto. Era uno di quei vecchi pianoforti in cui mettevi un rullo e poi azionavi i pedali. Questa è stata la prima cosa che ho fatto. Dopo un pò ero in grado di suonare delle cose che sentivo alla radio. Poi si ripresero il piano, e nel periodo tra la fine della scuola media e l'inizio delle superiori ho iniziato con il clarinetto. Subito dopo ho cambiato perché pensavo di suonare il sax. In realtà il clarinetto rispondeva meglio alle mie esigenze. Solo in seguito ho realizzato che alcuni dei più grandi sassofonisti avevano suonato il clarinetto.
AAJ: Quando hai adottato il clarinetto basso?
B.M.: Non prima di essermi trasferito a New York. L'ho suonato per un certo periodo ma poi sono tornato ai miei studi sul sassofono. Sentivo di aver accumulato più del necessario. Avevo bisogno di rifinire alcune delle cose che avevo imparato da Larry Teal, ed è quello che iniziai a fare. È lui che mi ha introdotto al flauto e questo mi ha aiutato enormemente a incanalare le energie in uno strumento diverso.
Come mi è capitato di dire, Yusef Lateef ha avuto una grande influenza nella formazione della mia mentalità multi-strumentale. Quando alla fine ho deciso di suonare il flauto, mi ha aiutato a trasporre alcune cose dal sax al flauto. Inoltre sono andato al Detroit Institute of Musical Art per studiare pianoforte, armonia, e tutto ciò che mi aiutasse a capire la composizione. Il clarino basso è arrivato non prima del '65-'66, dato che al tempo di Bitches Brew lo suonavo solo da due o tre anni. Ci lavoravo tutto il tempo. Avevo già sentito Eric Dolphy, e avevo avuto l'occasione di incontrarlo quando lui e Coltrane vennero a Detroit. Ho avuto l'opportunità di passare del tempo assieme e ascoltarli suonare. Quando sei giovane non hai bisogno di rimanere lungo tempo a contatto con qualcosa per poter assimilarla, e parlo di qualità, non di quantità.
Ho incontrato Eric una volta sola, e mi diede una lezione di flauto. Loro erano a Detroit per una settimana e io andavo a sentirli ogni notte. Cercavo di racimolare i soldi in qualche modo per poter essere lì ogni sera, perché volevo sentire la loro musica. Altri ragazzi andavano a vedere le partite di basket, ma io avrei fatto di tutto per riuscire ad esser lì, trovare un posto, un succo di mela, e sentire quella musica. Era tutto quello che mi importava.
AAJ: Che tipo era Dolphy?
B.M.: Con me è stato splendido. Ogni volta racconto questa storia: loro suonavano la musica migliore che ci poteva essere, e la prima sera per me è stato uno shock emotivo. Mi esaltò così tanto che quando tornai a casa non riuscii a dormire fino al sorgere del sole. Ero nella mia camera e continuavo a sentire la loro musica. Quello che successe quella sera lasciò un segno nella mia vita, non avevo mai sentito qualcosa del genere prima di allora. Non avevo mai conosciuto persone che suonassero con quel tipo di energia, e non mi era mai capitato di essere nello stesso posto dove questo accadeva. Questa cosa cambiò la mia concezione di ciò che può accadere.
Una notte, alla fine della serata, John e Eric parlavano con alcune persone, dato che c'erano sempre un sacco di musicisti che venivano a sentirli. Incontrai John e suonai con lui, all'età di diciotto anni. Venne a Detroit, si era preso una sorta di pausa da quello che stava facendo. Come ben sai, aveva lasciato Miles e aveva un suo gruppo. Frequentava alcuni tizi di Detroit che conoscevo. Erano tutti più grandi di me, e alcuni di essi avevano degli spazi a disposizione dove fare delle jam session alle quali partecipavo anch'io, e alle quali veniva anche John appena era libero. Veniva a sorseggiare una tisana con noi e partecipava alle jam session.
Una sera, c'erano John Coltrane, Joe Henderson e, credo, Charles McPherson, e io me la stavo facendo sotto dalla paura. Ma poi è andato tutto a meraviglia, c'era spirito di cameratismo, nessuna competizione in corso, tutti stavano semplicemente suonando qualcosa. Coltrane suonava il sax soprano e mi disse: "Sto cercando di sviluppare delle idee sul soprano, mi piace come strumento ma è veramente difficile da suonare". E io mi sono detto che dopo tutto quello che gli avevo sentito suonare, mi diceva che è difficile! Questo genere di cose mi hanno consentito di avere un rapporto paritario con molti grandi musicisti.
Quella sera anche Eric faceva parte del gruppo. Era sceso dal palco e stava parlando con alcune persone. Parlava della sua musica, qualcuno gli faceva delle domande, e sembrava che tutti si conoscessero o che avessero delle amicizie in comune. Io mi sono avvicinato, gli ho stretto la mano e ho esclamato: "Hey Mr. Dolphy". Mi sono presentato e gli ho detto che suonavo il sax e che avevo iniziato a prendere lezioni di flauto. Lui aveva in mano il suo flauto, me lo porge e mi chiede di suonare qualcosa per lui. Io lo presi solo in mano. Lo suonavo solo da qualche mese e avevo appena imparato le cose essenziali. Mi diede una lezione di flauto per trenta-quaranta minuti: mi mostrò come tenerlo, come soffiarci dentro, mi fece prendere coscienza di molte cose, fu straordinario.
È stata la persona più paziente e generosa che ci potesse essere. Lui e John erano fatti così, non è mai capitato che John non rispondesse ad una mia domanda. Se non era in grado di rispondere mi indirizzava in un'altra direzione in modo che trovassi da solo la risposta. Era una persona molto analitica. Aveva sempre una risposta, sia per le domande di ambito musicale che di quello spirituale. Era profondamente coinvolto in parecchie cose serie, che riguardavano lo sviluppo della propria spiritualità.
L'evoluzione di tutto ciò portò ovviamente a A Love Supreme e a tutte le cose incredibili che fanno parte della sua eredità musicale. Fu una serata meravigliosa, poter incontrare Eric in quella maniera. Suonarono per tutta la settimana, e in seguito mi capitò di incontrarlo ancora quando mi trasferii a New York.
Andai all'Half Note, che al tempo era un locale molto famoso. I proprietari facevano suonare Sonny Rollins e John Coltrane ogni volta che volevano. Se John voleva venire e proporre la sua musica per un paio di settimane non c'era problema, dato che lo adoravano. E la gente sarebbe venuta ogni notte, sarebbe stato sempre strapieno.
Una sera in particolare, c'era John con Elvin, McCoy e Jimmy Garrison, e poi arrivò Eric. Mi dissi: "Eh si, stanotte sarà davvero qualcosa di speciale", e così è stato, proprio magnifico. Quando vidi come si guardavano l'un l'altro, dato che erano molto amici, fu come se dicessero: "Wow, capita proprio a proposito". E quella sera ci dettero dentro, suonarono così tanto che la gente non riusciva a star ferma, applaudiva e gridava. C'era dell'elettricità nell'aria.
Poco tempo dopo Eric andò in Europa e poi, si sa, passò a miglior vita. Per questo quei momenti sono stati preziosi per me, perché ho avuto la possibilità di vedere due persone eccezionali e due musicisti unici che avevano ben in mente cosa dovesse essere la musica e si mettevano costantemente alla prova per portare alla luce quello che sentivano. Questa esperienza cambiò la mia visione delle cose, non solo riguardo alla musica, ma anche alla vita. È bello essere nato al momento giusto.
AAJ: Cosa puoi dirmi della session di registrazione di Afternoon of a Georgia Faun di Marion Brown (ECM, 1970)?
B.M.: La prima la realizzammo per l'etichetta ESP. C'è un brano in cui suono, intitolato "Exhibition", che circa un anno fa hanno ripubblicato nel CD Marion Brown Quartet. Lavorare con Marion alle sue composizioni è stato appagante, e devo dire che il suo incoraggiamento a quello che facevo mi ha aiutato ad imboccare una strada completamente differente. Non avevo mai suonato della musica come quella, e neanche altri tipi di forme libere senza nessun cambio di accordi. Lavoravamo attorno ad certo motivo ritmico, ad un'idea melodica, e poi sviluppavamo una sorta di tema, di variazioni e improvvisazioni.
Sono molto orgoglioso delle mie prime incisioni. Mi consentirono di liberarmi della tirannia degli accordi. Più tardi realizzammo Afternoon of a Georgia Faun con Chick Corea e tutti gli altri che parteciparono al disco. È uno dei dischi più belli in cui abbia suonato. Durante la realizzazione pensavo che fosse davvero speciale.
Prima di tutto ero eccitato all'idea di essere in studio con così tanti amici, che Marion aveva voluto. Al tempo in cui ci lavorammo non avevo nessuna idea che la musica poteva anche essere così. In seguito ne registrammo un altro, dal titolo Juba-Lee (Fontana, 1966), con Dave Burrell, Beaver Harris, Alan Shorter, Reggie Johnson. In alcuni brani Alan suona in maniera incredibile, lo considero un talento veramente unico. Alan suonava il corno e la tromba, mi ricordo una volta che su un brano doveva suonare con la sordina ma in quel momento non l'aveva e allora si è messo a suonare dentro una scatola di fazzoletti. Suonò lì dentro, cambiando completamente il timbro dello strumento. Ero confuso e stupefatto da quello che stava facendo e dal suono che ne ricavava, perchè aveva completamente alterato il suono del suo corno.
AAJ: Come hai incontrato Miles?
B.M.: L'ho conosciuto attraverso Jack DeJohnette. Per un paio d'anni ho suonato molto con McCoy Tyner, e capitava che Miles ogni tanto facesse un salto da Slug's, il locale in cui suonavamo. A volte passava, rimaneva tre o quattro minuti - il tempo di salutare - e poi andava via, lasciando tutti in soggezione, dato che era vestito così bene e lasciava la sua Ferrari in mezzo alla strada. Mi sentì suonare in quel locale, mi sentì suonare il clarino basso per l'esattezza, dato che avevo iniziato a farlo proprio con McCoy. Jack venne con Chick [Corea] e Dave [Holland] e tutti gli altri che in quel momento lavoravano con Miles.
La cosa iniziò a prendere piede, e poi ricevetti una chiamata da Miles. Io naturalmente volevo suonare il sax, ma le cose dovevano andare diversamente, dato che non ho mai suonato il sax con Miles, ma solo il clarino basso. Questa fu una delle cose migliori che potesse capitarmi, perchè mi mise in una posizione diversa da tutti gli altri sassofonisti. Molta gente non mi considera neanche un sassofonista, ma pensano subito al clarino.
AAJ: Da quello che ho sentito sul modo che aveva Miles di usare il ritmo e gli attacchi con i musicisti che improvvisavano liberamente, sembra che il lavoro del tuo gruppo con Marion Brown sia abbastanza simile al processo creativo di Bitches Brew.
B.M.: Si, hai ragione, a suo modo è stato qualcosa del genere. Loro volevano la musica, non l'esecuzione corretta ma la sua essenza. E Miles sapeva come ottenerla. Metteva assieme le persone giuste, come si può ben vedere lungo tutta la sua storia. Tutti i gruppi che ha riunito hanno fatto qualcosa di speciale, e così è stato anche con me e tutti gli altri che hanno partecipato a questo progetto. Ci ha riunito, e dopo averci dato la struttura del brano ci ha lasciato completamente liberi di fare quello che volevamo. È andata così.
Voleva creare qualcosa che non era mai stata fatto, e sapeva come arrivarci, lasciandoci liberi di esprimere noi stessi. Non mi ha mai detto niente riguardo a quello che suonavo, a parte una volta: "Non so cosa stai suonando, ma ne voglio ancora un pò". Lui era così, ti incoraggiava. Capitava che dicesse: "Suona ancora un pò", quando magari io stavo per fermarmi. La situazione era questa: io stavo in piedi con lui a fianco e Wayne Shorter dall'altro lato.
Mi trovavo tra questi due tipi e mi dicevo: "Non ci posso credere". Miles mi sussurrava "Vai avanti, suona un pò di quella roba che sai fare", mentre era in corso la registrazione. Mi parlava molto durante la registrazione. Si avvicinava per darmi dei suggerimenti "suona la melodia di nuovo". Era anche un maestro assoluto della comunicazione non verbale, e a volte non era necessario che dicesse niente perchè io sapessi cosa voleva in quel momento. Lo stesso capitava con Wayne, quei due erano come Frick e Frack.
Mentre eravamo in quella situazione, durante la lavorazione, era difficile dire cosa avveniva, perchè succedevano così tante cose. Eravamo tutti entusiasti, sopratutto Miles, e quando uscì il disco la gente andò fuori di testa. C'era chi lo amava, chi lo detestava, altri dicevano che non avrebbero ascoltato mai più Miles. Io ero perplesso. Mi chiedevo: "Accidenti, come è possibile che della musica faccia questo effetto? È solo musica". Un mese dopo registrammo un altro disco, Big Fun, che passò inosservato a causa di tutto il clamore sollevato da Bitches Brew. Creò un sacco di polemiche e critiche, e questo Miles lo sapeva benissimo.
AAJ: È stato Miles a far da tramite per Herbie Hancock?
B.M.: No, è stato Sonny Rollins. Una sera stavo andando all'Half Note, per sentire Sonny. Ero arrivato in anticipo e mi trovavo all'angolo di fronte al club. Guardo alla mia sinistra e vedo arrivare da quella parte Sonny, guardo a destra e vedo Herbie, tutti e due allo stesso tempo. Incredibile, mi raggiunsero entrambi nello stesso momento. Sonny guardò Herbie e disse: "Herbie, conosci Bennie?". Una di quelle situazioni da "posto giusto al momento giusto", perché è in questo modo che ho incontrato un amico, il resto è storia. Più tardi infatti, dopo molte serate a New York e varie esperienze, arrivò l'opportunità. Joe Henderson iniziava a fare i suoi dischi da solista e non era più molto interessato a far parte della band di Herbie. Così Buster Williams disse a Herbie: "Hey, dovresti chiamare Bennie Maupin".
Facemmo la prima serata a Baltimora, in un posto chiamato Left Banke Jazz Society. Baltimora è a circa due o tre ore da New York, e in pratica provammo durante il tragitto. Senza strumenti, Herbie mi spiegò la musica e come voleva che funzionasse. Ero molto concentrato, tanto che memorizzai le musiche prima di arrivare a Baltimora. Poi suonai tutto a memoria, il che mi sorprese, ma forse sorprese di più Herbie. Era la primissima volta che suonavamo assieme, ma non sembrava. Eravamo in compagnia di Johnny Coles, Buster Williams, Garnet Brown e Tootie Heath. Poi il gruppo è cambiato un poco fino a stabilizzarsi con Julian Priester, Eddie Henderson, Billy Hart, oltre a me e Buster, in un sestetto che per me ha rappresentato la migliore avventura musicale che abbia vissuto fino ai tempi recenti. Ora infatti penso che la migliore la stia vivendo adesso.
AAJ: Avete condiviso un lungo percorso assieme.
B.M.: Si, il sestetto è uno dei migliori gruppi in cui sia stato. Forse dal punto di vista commerciale non è stato un successo, ma, in termini musicali, di creatività, di rispetto reciproco, era sicuramente il massimo. Sono contento di aver fatto alcune registrazioni, ma ho sempre percepito che i dischi non rendevano esattamente la nostra musica. Di solito registravamo e poi sviluppavamo la musica in seguito. Avremmo dovuto fare il contrario, ma le cose sono andate diversamente.
La sera in cui suonammo assieme per la prima volta sentii che stava accadendo qualcosa di magico. Avevamo il concerto a Seattle, non c'era tempo per le prove, così Herbie aveva dato le musiche al trombettista. Eccoci allora, noi tre, in albergo davanti allo spartito, che iniziamo a suonare i brani. Sin da quel preciso istante il suono era perfetto, eravamo fantastici, ogni cosa era al posto giusto. Eravamo in tre, ma sembravamo un'unica persona. Arrivammo al punto di respirare allo stesso tempo. Un affiatamento incredibile, non sapevo più se stavo suonando io o Eddie. Gli altri ci aspettavano al club. Suonammo il primo set, per un'ora e mezza o due, finito il quale la gente era su di giri. Andammo nei camerini e non riuscivamo a dir niente, eravano senza parole da quanto era stato magnifico.
AAJ: Ancora oggi c'è un agguerrita fazione nel mondo del jazz che si sente minacciata dall'uso dell'elettronica. Dai tempi con Miles, fino agli Headhunters e ai tuoi progetti solisti, l'elettronica è stata invece parte del tuo sound. Per te è mai stato un problema suonare con strumentazione elettronica?
B.M.: Quando si tratta di produrre dei suoni non mi preoccupo della fonte, anzi ne sono affascinato. Quando ho incontrato Patrick Gleason ho pensato: "Accidenti, da dove sbuca fuori questo?". Aveva questo strumento, un ARP2600, e non avevo mai visto niente del genere. A volte si sedeva al mio fianco e mi spiegava la differenza fra una saw wave e una sine wave, aprendomi la mente su tutto ciò che riguarda i suoni. È stato l'inizio di una seconda educazione per me. Prima di allora mi ero sempre occupato di note, accordi, scale, non avevo mai considerato che ci sono infiniti altri suoni. Quando l'ho capito, ho pensato che si può creare musica in modo completamente diverso usando i suoni. Possono essere suoni non codificati, oppure suoni che nessuno ha mai sentito. Patrick faceva parte di quel mondo.
Incurante del parere della gente, io pensai: "Dite pure quello che volete". Alcuni espressero dei giudizi molto duri, forse perchè si trattava di qualcosa che non conoscevano e gli era difficile accettare. Molti, di mentalità troppo chiusa, pensavano che avrebbero perso qualcosa. A me è capitato di incontrare coloro che hanno inventato qualcosa di nuovo, persone che pensavano al modo di manipolare i suoni, senza per questo estraniarsi dalla natura. Persone che creavano suoni simili all'oceano, agli uccelli, e altre cosa mai sentite fino ad allora. A me piacevano, e mi davano l'impressione che le cose non sarebbero più state le stesse.
AAJ: Ti sei trasferito a Los Angeles nei primi anni settanta, vero?
B.M.: Si. Io e Herbie, ma anche Wayne Shorter, Joe Zawinul, Freddie Hubbard. C'è stato un esodo da New York, ci siamo tutti trasferiti qui. Alla fine anche Miles si è trasferito a Malibu, anche se aveva detto che non lo avrebbe mai fatto.
AAJ: Come sei arrivato a studiare con Lyle Spud Murphy?
B.M.: Me l'ha presentato un mio amico buddista. Studiava composizione con Murphy e iniziò a parlarmi di lui. Poi ho scoperto che il National Endowment for the Arts prevedeva una borsa di studio per prendere lezioni private, se queste erano legate al jazz o alla composizione. Così ho deciso di studiare composizione con Spud Murphy. È stato il mio mentore, mi ha spiegato il suo metodo e come utilizzarlo, attraverso i suoi esempi scritti e quelli dei suoi studenti. Il legame con Murphy ha cambiato la mia concezione musicale per sempre.
AAJ: Che anno era?
B.M.: Il 1978, o giù di lì. Da allora, grazie allo studio del suo sistema, ho iniziato a suonare in modi a cui prima non avevo mai pensato. La cosa più gratificante è stata però il contatto diretto, un aspetto che oggi si è un pò perso. Molti giovani non sono a contatto con musicisti più grandi di loro, che hanno maturato una certa esperienza. Di conseguenza non sanno quello che fanno. Pensano di sapere tutto e non sbagliare mai, invece più studi musica e più scopri di saperne poco. Spud mi aprì la mente sulle infinite possibilità del suono. Tutta la sua teoria era basata sulle successioni armoniche, un fenomeno che accade normalmente in natura e nel mondo della fisica. Non è stato solo una guida musicale ma anche spirituale. Lui non era interessato allo stile ma al suono, a cosa funziona in certe situazioni e cosa invece non è adatto. È un grande, per questo voglio che ci si ricordi di lui, ed è per questo che gli ho dedicato il mio CD. Ovunque io vada, lui sarà sempre con me.
AAJ: Ora sei tornato con una band acustica.
B.M.: Vero, sono di nuovo sulla piazza con gruppo completamente acustico. La gente aveva dimenticato come suona una band acustica. Tutto è elettrificato o manipolato con l'elettronica, perciò sentire il suono naturale del contrabasso, del clarinetto, delle percussioni, è una bella sensazione.
AAJ: Penumbra è uscito come se fosse un album di musica da camera.
B.M.: È stata una scelta consapevole da parte mia. Nel 2001 ho ricevuto una borsa in composizione dalla Chamber Music America. Ogni anno organizzano un concorso in composizione per musicisti che si occupano di musica improvvisata, e ogni anno i compositori e i loro gruppi ricevono dei finanziamenti per realizzare concerti, per comporre e suonare la loro musica e presentarla al pubblico. Nel 2004 mi chiamarono a New York per suonare alla loro ventiseiesima conferenza annuale, e ho potuto suonare per due sere allo Sweet Basil, mentre l'ultima sera si è tenuta in una chiesa.
Il fatto di aver suonato in un chiesa mi ha permesso di incontrare chi presentava concerti per musica da camera. Ora sto facendo del mio meglio per propormi come un musicista da camera. Penso veramente che, se c'è un futuro per la musica che sto facendo, sarà in ambienti in cui c'è massima attenzione per la musica. Gli organizzatori di festival sono attenti a quello che faccio, così come la Chamber Music America, che è interessata ad una programmazione più varia. Io sto cercando nuove vie per vendermi, perchè è necessario cambiare il proprio modo di fare se si vuole che ci sia qualcosa di nuovo.
AAJ: L'impressione è quella di un distillato dei tuoi lavori con formazioni allargate. Sembra che tu abbia trovato un modo di trasporli in un ensemble acustico di dimensioni ridotte, senza per questo perdere la tensione o l'energia.
B.M.: È esattamente quello che ho fatto. Perchè a causa della tecnologia, a volte diventava tutto troppo denso, e se si riempiono tutti gli spazi alla fine non rimane niente. Per questo ho ampliato gli spazi, mi sono concentrato sul ritmo, rendendo tutto più limpido. Ho eliminato la chitarra e il pianoforte, a parte nell'ultimo brano. Attraverso la sperimentazione e l'esperienza ho imparato a suggerire la melodia piuttosto che dichiararla apertamente, lasciando comunque un senso di completezza al tutto. Ora sento di essere arrivato ad un punto della mia vita in cui, dopo aver maturato una notevole esperienza con grandi musicisti, riesco a filtrare le cose in maniera diversa. Mi auguro fortemente di presentare questa musica dal vivo con il mio ensemble.
AAJ: Hai dedicato un brano a Walter Bishop Jr.
B.M.: È stato il primo allievo di Spud Murphy che io abbia conosciuto. Con lui ci scambiavamo sempre un sacco di cose. Mi ha aperto le orecchie in molti modi, perciò dovevo assolutamente rendergli omaggio. Un tempo abitava a Larabee. Andavo a trovarlo a casa sua, lui si sedeva al piano e poteva rimanerci delle ore, finchè magari venivano le nostre mogli per dirci di smetterla e venire a tavola. Era un vero maestro.
AAJ: La nuova versione di "Neophilia" è molto più pop rispetto a quella di Lee Morgan.
B.M.: La suono in un tempo diverso e non faccio la melodia se non alla fine.
AAJ: "One for Dolphy" è improvvisata?
B.M.: Un solo take, solo una volta, tutto qua.
AAJ: La title track ha un fascino quasi esotico.
B.M.: È il risultato del cosiddetto Equal Interval System: piccoli movimenti che creano una melodia, piccoli spostamenti che creano un po' di colore, mantenendo allo stesso tempo una integrità melodica che tu possa seguire.
AAJ: Il flauto contralto ha un suono molto intenso.
B.M.: È proprio per questo che lo uso. Ho studiato sul flauto in do, ma nei concerti live preferisco le basse frequenze. Per anni ho osservato il pubblico e ho notato che quando sentono le frequenze basse di uno strumento tendono a prestare maggiore attenzione. Le alte frequenze colpiscono maggiormente, ma succede che dopo un po' l'orecchio ha la tendenza a terminare l'ascolto. Ho avuto la possibilità di vedere come la gente tende a stancarsi di un ascolto prolungato delle frequenze alte. Il livello di attenzione delle persone non è lo stesso di quando hanno anche uno stimolo visivo. La televisione ha cambiato tutto. La gente ha smesso di ascoltare e ha iniziato a guardare. Quando questo è successo, noi musicisti abbiamo avuto una grossa perdita. Ecco un altro motivo per il quale voglio suonare la mia musica in ambientazioni da concerto o da musica da camera, perché spesso questi ambienti sono anche belli da vedere, il che significa molto. Se ti presenti in un ambiente di per sé attraente, e le persone prestano attenzione a quello che vedono, allora puoi veramente rapirli con la tua musica. Io ho delle suggestioni visive da cui parto, vedo realmente delle immagini con la mia musica, e prima o poi vorrei presentarla in abbinamento con un spettacolo di danza. Mi piacerebbe che la gente facesse questa esperienza, in modo che la musica possa coinvolgerli nel modo più completo.
Discografia selezionata
Bennie Maupin Ensemble, Penumbra (Cryptogramophone, 2006)
Darek Oles, Like a Dream (Cryptogramophone, 2004)
Headhunters, Evolution Revolution (Basin Street, 2003)
George Cables, Shared Secrets (Muse FX, 2002)
Mike Clark, Actual Proof (PGI, 2000)
Bennie Maupin, Driving While Black (Intuition, 1998)
Headhunters, Return of the Headhunters (Verve, 1998)
Meat Beat Manifesto, Actual Sounds + Vocals (Nothing, 1998)
Meshell Ndegeocello, Peace Beyond Passion (Maverick, 1996)
Herbie Hancock, Dis is da Drum (Mercury, 1993)
Herbie Hancock, Feets Don't Fail Me Now (Columbia, 1979)
Bennie Maupin, Moonscapes (Mercury, 1978)
Lennie White, Big City (Nemperor, 1977)
Bennie Maupin, Slow Traffic to the Right (Mercury, 1976)
Headhunters, Survival of the Fittest (Arista, 1975)
Eddie Henderson, Sunburst (Blue Note, 1975)
Sonny Rollins, Nucleus (Milestone, 1975)
Bennie Maupin, The Jewel in the Lotus (ECM, 1974)
Herbie Hancock, Thrust (Columbia/Legacy, 1974)
Miles Davis, Big Fun (Columbia/Legacy, 1974)
Herbie Hancock, Head Hunters (Columbia/Legacy, 1973)
Woody Shaw, Song of Songs (OJC, 1972)
Miles Davis, On the Corner (Columbia/Legacy, 1972)
Herbie Hancock, Sextant (Columbia/Legacy, 1972)
Herbie Hancock, Crossing (Warner Bros., 1971)
Marion Brown, Afternoon of a Georgia Faun (ECM, 1970)
Miles Davis, Bitches Brew (Columbia/Legacy, 1969)
Lee Morgan, Taru (Blue Note, 1968)
McCoy Tyner, Tender Moments (Blue Note, 1967)
Andrew Hill, One for One (Blue Note, 1965)
Traduzione Stefano Sanna
Foto di Ewelina Kowal (prima) e Barbara DuMetz (seconda e terza).
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