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Antonio Sanchez & Migration al Roma Jazz Festival

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Antonio Sanchez & Migration
Auditorium Parco della Musica
Roma Jazz Festival
4.11.2019

"Alcune persone sognano mondi di fantasia, io sogno muri." (Jean René, in arte JR)

Per Kikito non esistono regole quando si parla di barriere, di confini protettivi. Sette anni, di Tecate (Messico) è il protagonista dell'installazione mobile dell'artista francese JR: un bimbo gigante posto sul muro che divide il Messico dagli Stati Uniti, al confine con la contea di San Diego. Le sue grandi mani si appoggiano al muro, mentre i suoi occhi cercano di osservare quello che c'è al di là del muro. L'immagine di una separazione, oltre la quale è impossibile andare, si frantuma di fronte al suo sguardo. Quando nascono i muri, evidentemente, gli occhi dei bambini tendono ad oltrepassarli, a renderli invisibili, come se non esistessero.

"Traversia Intro" è il brano che apre l'energica performance di Antonio Sanchez & Migration, all'Auditorium Parco della Musica, il 4 novembre, in occasione del Roma Jazz Festival, che quest'anno sceglie il tema No Borders. È anche un collage di parole impressionanti, che evocano il caos, di pianti angoscianti, rumore di manette che bloccano il respiro. Voci di donne, di uomini, di bambini, che scorrono sul palco e ci sconvolgono. Sono registrazioni della protesta contro Donald Trump, al confine tra Messico e Stati Uniti, con dialoghi disumani, orecchie sorde alla chiamata dell'umanità, del rispetto e della dignità. La traccia fa parte dell'ultimo disco del batterista messicano-americano Antonio Sanchez e del suo quartetto, dal titolo Lines in the Sand (CAM Jazz, 2018). Una musica di protesta, una "musica sociale," così la definisce Sánchez. La ascoltiamo, dall'inizio alla fine, come se ci trovassimo davvero di fronte all'immagine di una traversata, affascinati dalla danza di una bambina (come nella cover del disco), che guarda la scomparsa del muro nell'oceano.

Il progetto discografico del batterista visionario ed eclettico, membro stabile del gruppo di Pat Metheny, che negli anni ha accompagnato tra gli altri Chick Corea, Gary Burton, Charlie Haden, Michael Brecker, prosegue per quasi due ore. Onde prepotenti, vigorose s'infrangono contro i nostri corpi impreparati a sorreggere un carico così potente, intervallate da momenti confidenziali, più pacati e intimi.

Sul palco insieme al batterista, Thana Alexa, cantante di origine croata, David Baird al sax tenore e EWI (Electronic Wind Instrument), John Escreet al pianoforte e Rhodes, Orlando le Fleming al contrabbasso e basso elettrico. Il lavoro di Sánchez e dei Migration è una prosecuzione fedele di Bad Hombre (CAM Jazz, 2017), ovvero di un discorso musicale impegnato, sul piano sociale e umano, di una dichiarata opposizione alle politiche anti-immigrazione del Presidente Trump, ma più in generale a tutti i muri del mondo. Il filo non si interrompe e si accorda perfettamente a quest'ultimo disco e alla traccia "Bad Hombres Y Mujeres," connotata da un inizio travolgente, da pochi battiti interrotti della batteria, prima di aprirsi alla voce duttile e potentissima di Alexa, o agli interventi ripidi del sassofono.

Uno sviluppo elettrico a metà del brano apre uno scenario fatto di discese cromatiche furiose, di inseguimenti tra Rhodes e sassofono, picchiettati dall'insistenza della batteria di Sánchez, in perenne stato di allerta. Tana Alexa è inoltre autrice dei testi dei tre brani ("Long Road," "Bad Hombres Y Mujeres" e "Home"), incastonati tra due suite di più di venti minuti ciascuna, rispettivamente "Traversia (part 1 to 3)" e "Lines in the Sand (part 1 and 3)." La sua voce sembra attingere forza dalla Natura, raggiunge altezze lontane, dialoga con tutti gli strumenti, sprigionando particelle rigeneranti. Siamo dentro una sperimentazione in cui il jazz, le improvvisazioni, la melodia che regge il pensiero musicale, le influenze prog-rock, i ritmi accelerati e rabbiosi della batteria, si adattano alla superficie di un unico grande mondo, fatto anche di rumori e del loro perfetto incastro con i suoni. Un tremore scorre tra i musicisti sulla scena, quando intonano la poesia "Home," perché in fondo siamo tutti migranti, clandestini, abitanti di case e luoghi diversi, nei quali abbiamo comunque le nostre radici. Improvvisamente la musica si addolcisce, si modella sulle parole di Alexa, sui suoi vocalizzi autentici. Il riverbero della sua voce rimarca i concetti fondamentali dell'intero album. C'è una spinta nel suono, come se la musica con la sua incredibile forza stesse scavando in profondità, per far crollare definitivamente quel muro.

Il live è frutto di dicotomie oscure, è il disegno di quelle contraddizioni umane che si manifestano in un modo di suonare "scandaloso." L'amore di Antonio Sánchez per la batteria supera il corpo, arriva da una mente palpitante. Nei panni di un grande uccello umano, in preda a un raptus improvviso, Sánchez si lancia in un assolo che va oltre le regole del suono e durante il bis (fa eco la sua musica composta per "Birdman" di Alejandro González Iñárritu), esprime una relazione quasi fisica con lo strumento. Abbraccia il rullante, come se potesse ascoltare i suoi dolori, graffia lentamente i piatti, incidendo tagli al suo animo già tormentato, si lancia in una danza tribale che gli permette di ritornare alle sue origini, dosando perfettamente il colpo, con potente espressività.

Foto: Adriano Bellucci.

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