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Andrea Centazzo: musica come metafora della vita
ByGli anni '70: una stagione straordinaria. Sono felice di esserne stato parte attiva. Vivevamo in un mondo in cui ancora c'erano utopie e sogni ancorati alla storia, alla societa' e alla cultura e fortunatamente non alla televisione.
Allaboutjazz: Lei vive ormai da anni in California. Cosa l’ha spinta a lasciare l’Italia? Motivi di natura personale o legati alla musica?
Andrea Centazzo: Faccio un passo indietro rispetto al 1991 anno di mio trasferimento a Los Angeles per far capire come la decisione è la somma di diversi fattori. La mia stagione nell’ambito jazz si era conclusa, mio malgrado, nel 1984. Un ambiente quello italiano connotato da una eccessiva esterofilia. La fatica per lavorare e trovare spazi ed avere i riconoscimenti che all’estero già erano cosa consolidata fiaccò le mie energie. Non ne potevo più della tiritera in voga allora “gli americani hanno una marcia in più (ma anche gli olandesi, i belgi, gli sloveni e i bantu!!)” e delle telefonate a vuoto per reperire i concerti, unica fonte allora di sostentamento. A questo si aggiungeva la mia curiosità di artista a tutto campo per nuovi mezzi espressivi quali la pittura, le performance multimediali e la regia video. Quindi decisi di saltare il fosso e di non cercare più nessuno. E infatti, come volevasi dimostrare, in un anno caddi nel totale oblìo.
A quel punto mi dedicai al video e con il mio primo lavoro “Tiare” (stupefacentemente per me) vinsi tutti i festival internazionali e per un paio di anni continuai a lavorare come regista. Ogni tanto quando voglio farmi una risata tiro fuori il primo premio del Festival del cinema indipendente Italiano vinto ex-equo con Silvio Soldini. Poi dall’incontro fortuito con Luca Barbareschi passai a scrivere colonne sonore per il teatro e il cinema. Li mi notò la Warner Chappell che mi mise sotto contratto in esclusiva. Dopo difficili vicende personali come un divorzio e un grave incidente cercavo di ripartire con qualcosa di diverso e la Warner mi offrì la possibilità di lavorare a Los Angeles, occasione che presi al balzo, decidendo di non suonare più le percussioni e di dedicarmi solo alla composizione e direzione d’orchestra.
AAJ: È stato difficile inserirsi nell’ambiente o è una cosa che è venuta naturale?
A.C.: L’inserimento non ha presentato difficoltà a livello personale e di vita quotidiana avendo comunque io frequentato gli USA fin dal 1976 (è del '78 il mio tour americano con Zorn, Cora, Chadbourne, Kondo, Kaiser, ecc.). Difficile invece è stato l’appproccio con la realtà di Hollywwod, un mondo di cartone dove tutto va per formule; la mia musica per quanto edulcorata e di sapore New Age era comunque di taglio troppo avanzato per piacere a registi insicuri anche del catering... Rileggevo proprio giorni fa la biografia di Edgar Varese (amato musicista soggetto delle mia tesi di laurea in musicologia) e ritrovavo nei suoi sterili tentativi di diventare un musicista hollywoodiano un po’ di me stesso.
Ho fatto quindi pochissimi film e invece mi sono concentrato sulla composizione, cosa che mi ha poi portato nel '94 a scrivere "A Bosnian Requiem" per orchestra sinfonica (lavoro che ho diretto a Los Angeles con la American Youth Symphonic Orchestra) e quindi il mio lavoro più noto l’opera lirica Tina dedicata a Tina Modotti diretta e messa in scena da me con Ottavia Piccolo in Italia e Lumi Cavazos (protagonista di “Come l’acqua per il cioccolato”) a Los Angeles. Nel frattempo a piccoli passi, spinto soprattutto da Remo Belli, mi riavvicinavo alla musica da strumentista con concerti in solo e session d’improvvisazione.
Nel 99 mi si è offerta finalmente l’occasione di “avere una marcia in più” e sono diventato cittadino americano... volevo anche cambiare nome in qualcosa di più esotico, ma poi visto che ho comunque 2 cittadinanze ho deciso di rimanere con il nome da... ”marcia in meno”. Ovviamente sto scherzando, la cittadinanza americana l’ho presa soprattutto per mandare a casa Bush... ma non mi è riuscito! E così sono rimasto con una nome da marcia in meno e un presidente idiota in più.
Trovo comunque che pur con tutte le sua contraddizioni, il mio nuovo paese rimanga stimolante e imprevedibilmente pieno di opportunità.
AAJ: La Bay area e tutta la scena downtown è davvero un’isola felice oggi per l’avanguardia?
A.C.: Non esistono isole felici nella musica e soprattutto non esiste più l’avanguardia. Se per avanguardia si intende la storicizzazione mal fatta di quello che facevamo 30 anni fa, eviterei di chiamarla tale. Proporrei un nome tipo proto-avanguardia postuma.
AAJ: Ha ragione, dovremmo dire musica improvvisata...
A.C.: Direi che anche il termine “improvvisata” certe volte diventa un po’ utopistico. Ne parlavo sabato scorso a cena con Eugene Chedbourne a Los Angeles per un concerto. Non ci vedevamo dal 2000 e quindi abbiamo discosso del più e meno su quello che avevamo fatto e che eventualmente faremo.
Ogni musicista ha un repertorio di “licks” che sfodera puntualmente ad ogni performance. Se il medesimo non si rinnova tecnicamente e culturalmente finisce per riproporre anche in un linguaggio aperto come la musica improvvisata un repertorio trito che diventa accademia… e purtroppo pochi sono quelli che cercano un rinnovamento perché spesso il medesimo porta l’interprete fuori dai canoni che il pubblico e la critica si aspetta da lui.
Ci sono dei dischi odierni di alcuni musicisti che suonano esattamente come quelli di 30 anni fa dei medesimi musicisti... ovviamente nel jazz classico questo diventa la norma: sembra quasi che il pubblico si aspetti quello come si aspetta “Satisfaction” dai Rolling Stones dopo 40 anni...
Comunque, sembra che il mio ritorno sulla scena abbia proprio interessato per questo motivo: la musica che oggi presento ingloba gli elementi delle mie ricerche negli anni passati lontano dalla scena della musica improvvisata/jazz e quindi ha indubbiamente una trasversalità che la differenzia. Mi piace qui citare Liz Horton su “The Soul in the Mist” del mio nuovo trio Centazzo/Robinson/Stowe: lascio a voi la traduzione: “Every now and then a recording comes out which renews the realization of how richly creative improvised music can be. What is intriguing is the idea of the well of introspection that must trigger the musicians’ process. The answer to the question “What comes next?” keeps the listener glued to the music. In the Ictus release, The Soul in the Mist… render the anticipation of “What comes next?” easy to accept. The concept of this recording is built on the careful traveling through an alluring, appealing and mysterious atmosphere to a place of surprse… This recording might be interpreted as metaphor for living: how we wander with our eyes open to the vastness of what is ahead until something unexpected confuses us and causes us to stop, literally eradicating our wonder." Lyn Horton (www.jazzreview.com, Luglio 2007)
AAJ: “Una musica che potrebbe essere interpretata come metafora della vita...”. Ci si ritrova?
A.C.: Si, l’immagine mi è molto piaciuta perché in fondo quando scrivo o interpreto o creo improvvisando ricerco sempre dei sentieri che mi leghino a un percorso vitale: nascita, innamoramento, malattia, furore, morte… la musica non è (per me) un mestiere ma una forma di vita con tutti i suoi aspetti devastanti, invitanti, esaltanti, deprimenti...
AAJ: È rimasto in contatto con l’Italia? Segue la scena attuale?
A.C.: No non ho la minima idea di cosa stia succedendo in Italia; quando ci vengo per ragioni familiari sono visite affrettate e se lavoro per lo più faccio concerti solo o scrivo per ensembles non jazzistici. Ovviamente nessuno dell’ambito jazz ha la minima idea di cosa stia succedendo ad Andrea Centazzo, sorprendentemente neanche quando L’American Jazz Critic Association proclama il Box Set ICTUS del trentennale, Box Set of 2006. Anni fa in Italia si leggevano le riviste americane con una certa curiosità... Evidentemente l’Italia ormai è all’autarchia jazzistica. La Francia dove per altro non ho quasi mai suonato mi ha dedicato una pagina su Liberation e adesso la rivista Improjazz esce con un numero monografico ICTUS...
AAJ: Aggiungerei a quello che dice che oggi molti musicisti delle nuove generazioni non sanno nemmeno chi sia Andrea Centazzo. Un problema secondo me legato all’inesistente presa di coscienza della propria storia. Ma oggi lei che bilancio fa di quella stagione che l’ha vista tra i più importanti protagonisti, quella degli anni ’70?
A.C.: Mi permetto umilmente di dire che non è una mancanza di presa di coscienza, ma una mancanza di 20 euro per comprare una Garzantina della musica o una storia del Jazz europeo...! Comunque “euri” a parte, so che la mia carriera ondivaga ha fatto dimenticare comodamente il mio nome a molti che avrebbero duvuto fare i conti con il mio lavoro e con effetto domino da quei molti a moltissimi delle nuove generazioni il passo è stato breve.
Gli anni 70... È stata una stagione straordinaria e sono veramente felice di esserne stato parte attiva. Vivevamo in un mondo in cui ancora c’erano utopie e sogni ancorati alla storia, alla società e alla cultura e fortunatamente non alla televisione. Ho odiato il berlusconismo ben prima del suo trasformarsi in politica: la televisione commerciale ha ucciso molte delle speranza che noi avevamo faticosamente contribuito a creare per una nuova generazione di persone pensanti e non tele-pilotate. Quando oggi penso che il sogno della maggioranza dei giovani inclusi laureati è quello di partecipare al Grande Fratello o diventare Velina... be’ devo dire che "Il Grande Fratello" di Orwell scritto negli anni ’30 era una previsione ottimistica… Ciò non toglie che oggi ci siano persone di grande valore e determinate a portare avanti le istanze della nostra generazione.
AAJ: Parliamo della Ictus. Lei è stato uno dei primi a fondare un’etichetta indipendente per produrre la propria musica. Mi viene da pensare che oggi in fondo non è cambiato nulla rispetto a 30 anni fa, visto che molti musicisti (e penso ad esperienze tipo “El Gallo Rojo” nel nord-est dell’Italia) sono costretti ad autoprodurre i propri dischi...
A.C.: Devo dire che nessuno costringe i musicisti a produrre dischi; anzi se se ne producessero di meno forse sarebbe meglio... A me, nessuno mi ha mai costretto. Semplicemente volevo gestire la mia musica in maniera differente. E le etichette dell’epoca non mi davano certe possibiltà. Anche se a dire il vero alla PDU facevo veramente quel che volevo... All’epoca comunque eravamo in pochissimi e quindi i dischi avevano visibilità cosa oggi impossibile.
La verità è che i dischi sono destinati a morire come medium. Non sono neanche più necessari come auto promozione: se infatti un organizzatore o giornalista vuole ascoltare un gruppo va sulla pagina del gruppo su myspace.com o simili siti e fa lo streaming in tempo reale... All’epoca gli LP erano un mezzo importante di trasmissione della musica e l’autoproduzione mi permetteva la totale libertà espressiva. C’era anche un mercato che permetteva un recupero delle spese e una continuità nella produzione. Oggi visto il moltiplicarsi delle etichette e la concorrenza dei downloads è sempre più difficile. Direi impossibile.
Ho resuscitato la ICTUS per riorganizzare tutte le mie esperienze musicali in un corpus organico. Sono felice dell’accoglienza che sta avendo e del fatto che anche le cose più vecchie possano oggi risplendere di nuova luce grazie alle tecnologie di restauro ed editing digitale.
AAJ: Scorrendo il catalogo Ictus si rimane impressionati dai musicisti con i quali ha suonato: Steve Lacy, Evan Parker, Tom Cora, Alvin Curran, il Rova Saxophone Quartet... Qual è la collaborazione che l’ha stimolata di più o il disco che sente più suo?
A.C.: È una domanda dalla risposta impossibile! Ogni CD uscito (e quelli inediti di quel periodo che stanno uscendo) sono un frammento della mia vita umana ed artistica e testimonianza di incontri straordinari. Difficile dire quale sia il preferito. Comunque se facessimo il solito quiz di cosa portare su un’isola deserta io opterei chiaramente per i miei lavori orchestrali The Shadow and the Silence, The Heart of Wax, Tina, Cjant, A Bosnian Requiem (ma andrebbe ri-registrato) e il box set di 6 dischi della Mitteleuropa. Se no dovrei dire tutti! Come decidere tra un duo con Lacy e uno con Bailey? Tra il sestetto con Zorn e Cora (per altro da lui prodotto!) e il trio con Parker e Curran? Troppi musicisti eccelsi (e uomini di grande caratura umana) per poter scegliere...
AAJ: Un rapporto privilegiato è stato quello con Steve Lacy. Chi era Lacy come uomo e come musicista?
A.C.: Posso solo dire che Lacy è stato quello che ha squarciato il velo, come si suole dire, quando alla prima prova ad un giovane percussionista preoccupato di come rapportarsi con il suo idolo disse “play what you feel”! In ogni caso un uomo chiuso in quegli anni, ma con una generosità artistica sorprendente.
AAJ: Se dovesse dare una sua definizione di improvvisazione?
A.C.: Tuffarsi da una scogliera senza sapere quanto è profonda l’acqua in quel punto.
AAJ: Un ruolo importante ha avuto per lei Gaslini, negli anni ’70. Cosa ci può dire di quella esperienza?
A.C.: Giorgio secondo me è stato uno dei piu’ importanti innovatori del linguaggio jazzistico; se fosse nato a New York (o avesse avuto il coraggio di andarci come fece Zawinul) con la sua idea geniale di trasportare la dodecafonia nel jazz avrebbe rivoluzionato più di Ornette Coleman. I suoi esperimenti più tardi non avevano la forza di quella prima geniale idea anche se sempre contraddistinti da un nitiore artistico difficile da trovare in quegli anni. Per me è stato un maestro nell’insegnare il rigore nel lavoro del musicista e un generoso mentore nel prendere uno sconosciuto percussionista da una terra di desertificazione culturale e farlo debuttare alla Piccola Scala a Milano. Devo dire che poi alla fin fine l’esplorare tutti i campi della musica mi è diventato abituale, come lo fu per Giorgio.
Credo che quella curiosita’ intellettuale sia stato forse il suo insegnamento piu’ prezioso: a lui, a Steve Lacy e a Franco Fayenz che per primo credette in me, devo la mia intera carriera. Come diceva Paul degli altri 3 Beatles “without them, without me”.
AAJ: Parliamo di questo sconosciuto percussionista che veniva da Udine. Qual’era il suo background, quali erano i suoi sogni?
A.C.: In quegli anni la rozza provincia friulana era un deserto musicale: non c’era a Udine Conservatorio, un teatro, un’orchestra. Il jazz era appannaggio di un ristretto gruppo di alto borghesi che lo consideravano alla stregua di una macchina di lusso da esibire con gli amici più sfigati. Ciononostante questo gruppo fu il mio primo contatto con la musica che doveva poi diventare il mio primo affacciarmi sul mondo reale.
Se avessi potuto scegliere dove nascere non avrei scelto certamente quella città né quella famiglia borghese... ma come si sa genitori e luogo di nascita sono le uniche cose che non si possono scegliere... Studiavo legge per entrare nello studio di famiglia, ma nel frattempo cercavo di iniziare un percorso tecnico e culturale come musicista, avversato ovviamente da mio padre e dal mio ambiente. Ma siccome sono persona caparbia, eccomi qui non avvocato, ma appunto musicista. Avevo un sogno e l’ho realizzato a dispetto di quella città, di quella famiglia e di quell’ambiente. È stato un percorso difficile e durissimo, ma oggi dopo aver suonato con i più grandi, aver scritto e diretto le mie opere e sinfonie, fatto i miei film e registrato i miei dischi, posso dire ce l’ho fatta.
Mi viene in testa Kerouac, di cui sono ovviamente un grande fan, e il suo rapporto devastante con la piccola città dove era nato e la sua geniale frase: “Se Dio dovesse fare un clistere al mondo, infilerebbe la cannula a Lowell...”. Sottoscriverei anche nel mio caso.
AAJ: Analizzando la sua discografia mi ha incuriosito una sua collaborazione con Luigi Grechi, fratello di Francesco De Gregori, cantautore di estrazione folk. Come giunse a quell’esperienza?
A.C.: Si, è stata un cosa curiosa: all’epoca ero sottto contratto con la PDU (di Mina!!!) che aveva aperto una collana di Jazz curata dal mio scopritore Franco Fayenz a cui sono e sarò in eterno debitore per avermi non solo portato alla PDU ma presentato a Gaslini nel momento in cui il medesimo cercava un nuovo percussionista. Ero già in un trip produttivo (i cattivi soggetti si vedono fin da piccoli!!!) e mi piaceva non solo fare musica ma registrarla e mixarla.
Luigi doveva fare il suo primo LP e io avevo appena finito il mio primo solo album Fragmento” (riedito oggi dalla ICTUS nel 2 CD’s Box Set Fragments); ci si incontrò in studio, ci si piacque e da li scaturì la collaborazione dettata anche da vedute politiche molto concordanti. Suonai nel disco e lo produssi come poco dopo mixai e produssi “Concerto della Libertà” di Gaslini sempre per la PDU. Questo nome oggi mi inquieta visto che c’è in giro una Casa delle Libertà... in nome della libertà ne sono state fatte di nefandezze!
AAJ: Penso che ogni musicista debba evere un codice etico. Come si pone lei nei confronti della musica e dell’arte in genere?
A.C.: Mai mentire a te stesso, fai solo quello che senti di dover fare. Ovviamente la libertà di esprimersi senza compromessi e senza condizionamenti di genere e ambiente ha un prezzo abbastanza alto da pagare: la perdita dei circuiti, l’indifferenza dei media, l’isolamento. Ma sono convinto che alla fin fine l’onestà intellettuale con se stessi paga. Senza scomodare Max Weber e la sua “Etica protestante e lo spirito del capitalismo”.
AAJ: Lei è un compositore di musica contemporanea. Non si può non chiederle un pensiero su Stockhausen, scomparso di recente.
A.C.: Un genio, non aggiungerei altro. La musica dopo di lui non è stata più la stessa. Ho capito la sua grandezza quando ho affrontato la partitura di Zyclus per sola percussione... da lì è partita la mia ricerca sul lavoro di un compositore che vedeva sempre 50 anni in avanti. Ma non dimentichiamoci mai che Edgar Varese aveva aperto la strada a quella ricerca già nel 1933!!!! Varese (che poi insegnò a Darmstadt dove ebbe Nono, Manzoni e altri incluso Stockhausen come allievi) fu il primo a deviare il corso della musica verso dimensioni completamente nuove! Quella era la vera unica avanguardia. Come quella di George Antheil... Noi che veniamo 50 anni dopo siamo stati i figli di quelle esperienze.
AAJ: Cinema, teatro, letteratura sono i suoi campi d’azione. Dei film, delle pièce teatrali e dei libri dai quali non può prescindere.
A.C.: Purtroppo visto che non abbiamo a disposizione 3000 pagine, sono costretto ad omettere questa risposta! Troppe sono le influenze e gli stimoli avuti dall’arte e dagli artisti per poterli citare qui tutti. Mi sono nutrito di arte fin dall’adolescenza e onnivoro come sono ho sempre cercato di vedere/ascoltare/contemplare tutto di tutti. E per autostimolarmi culturalmente ho sempre adottato la mia massima ”L’arte che più ami, non è mai la migliore” lasciando sempre aperto uno spazio per quel che non conosco. Non ho preclusioni di sorta nel confrontarmi con tutte le forme d’arte anche le più umili: c’è sempre molto da imparare.
Foto di Claudio Casanova
Altre immagini (tratte dal concerto di Fermo) sono disponibili nella galleria fotografica : Andrea Centazzo "Eternal Traveler"
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