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Aaron Parks Trio al Teatro Manzoni, Milano

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Aperitivo in concerto
Teatro Manzoni
10.11.2013

Da Paul Bley a Keith Jarrett, passando attraverso Misha Alperin e Bobo Stenson, fino ai nostri Stefano Battaglia e Stefano Bollani... Non c'è dubbio che Manfred Eicher, deus ex machina della casa discografica ECM, abbia buon fiuto per i pianisti.

L'ultimo arrivato nella scuderia dell'etichetta bavarese è Aaron Parks, pianista di Seattle con all'attivo collaborazioni importanti (Terence Blanchard, Joshua Redman), un debutto discografico da leader per la Blue Note (Invisible Cinema), e un album in solo (Arborescence) recentemente uscito appunto per l'ECM.

Pur non folgorato dalle prove discografiche di Parks, mi sono dunque avvicinato a questo concerto con curiosità e vivo interesse. Il pianista era qui accompagnato da Anders Christensen, ennesimo ottimo contrabbassista di scuola scandinava, e dal batterista RJ Miller, sempre molto delicato e musicale.

Dopo un avvio caratterizzato da atmosfere riflessive e ritmiche piuttosto trattenute, il concerto ha preso una piega più schiettamente jazzistica, tra brani di Horace Silver e composizioni originali che hanno evidenziato come Parks abbia una conoscenza enciclopedica della storia del jazz. Conoscenza che tuttavia non sfocia in una sintesi autenticamente personale, ma resta marcatamente derivativa.

Gli ingredienti, intendiamoci, sono di prim'ordine. Abbiamo Paul Bley, da cui Parks mutua un certo amore per la libertà melodica. C'è Keith Jarrett, con tanto di orribile vezzo, ormai comune a molti pianisti, di doppiare con la voce quanto eseguito sulla tastiera (piccolo sfogo personale: cari pianisti, fatevene una ragione! Non siete sul palco grazie alle vostre virtù vocali. Sentirvi mugolare—spesso fuori intonazione—quanto state suonando al pianoforte, è fastidioso e sgradevole). Di Horace Silver troviamo il linguaggio hard-bop, sebbene privo di quello humour e di quei colori funk che gli erano propri. Di Brad Mehldau, la passione per i Radiohead ed il gusto per sofisticate armonizzazioni su ostinate sequenze accordali (la conclusione di "I Love Everything" è stata la cosa migliore ascoltata nel corso di questo concerto).

Il tutto, per carità, molto ben eseguito, sia pure nei limiti di un trio eccessivamente gerarchizzato nei ruoli e poco incline alla propulsione ritmica. Ma la ricerca, l'innovazione, il guizzo creativo, non abitano da queste parti.

Rassicurante.

Foto (di repertorio)
Arkady Mitnik

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