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Viaggio al termine del blues?

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Per Dèjà lu abbiamo recuperato un testo che indaga acutamente sui significati e sull'evoluzione del blues. Ne è autore Riccardo Brazzale, direttore artistico del Vicenza Jazz Festival e curatore dei relativi quaderni, che di anno in anno raccolgono vari contributi su temi mirati. Sul quaderno del 2003 apparve, assieme ad altri, il testo qui riproposto. Si ringrazia l'autore per l'autorizzazione a riprodurre l'articolo.

A chi chiedesse cos'è il blues, il musicista di jazz risponderebbe abbastanza tranquillamente che si tratta di una piccola forma musicale di dodici battute, divisibile in tre archi di quattro battute ciascuno, a loro volta riconducibili tonalmente alla regione della tonica (il primo), della sottodominante (il secondo) e della dominante (il terzo). Salvo, poi, aggiungere che le plurime varianti, talvolta anche complesse (non solo sotto il profilo armonico - e talvolta formale - ma anche ritmico-melodico nell'atto dello sviluppo improvvisato), ne hanno fatto spesso una gabbia solo apparentemente angusta e, piuttosto, capace di liberare forze creative sulla carta impensabili.

In realtà, quasi tutti sanno che il blues è qualcosa di piu' che una mera questione formale, tanto che a chiunque verrebbe da dire che il blues è primariamente una sensazione, un sentimento intimo, un particolare stato d'animo, come fu per quella ragazza nera che nel suo diario del 1862 scriveva "I came home with the blues," giusto per raccogliere in una parola tutta la sua malinconia e la sua tristezza.

Non erano passati molti anni da quando Baudelaire aveva aperto la poesia alla modernità dando la parola allo spleene intanto dall'altra parte del mondo una ragazzetta, parimenti (se pur per diversissimi motivi) disgustata dalla vita, manifestava il suo blues. Il blues diventava così la finestra di un piccolo mondo (personale ma anche collettivo: quello del'universo afroamericano) che si apriva all'esterno per tirar fuori ogni propria remora, ogni tedio e ogni disgusto, ogni disprezzo ma anche ogni speranza.

Come faceva tutto questo a tramutarsi in musica? Intanto - prima che con la forma delle dodici battute - con una strana inflessione (prima vocale, poi nella pronuncia strumentale), dovuta alla cromosomica ancestralià africana (e dunque anomala per le teorie del temperamento equabile euro-colto occidentale), tanto da far sì che le note s'incuneassero fra la serenità del modo maggiore e la tristezza del minore, per dar vita a un inedito sapore d'agrodolce.

Questo sentore ambivalente si sarebbe accresciuto sulla sponda di uno spleen sempre più multiforme specie nei riferimenti del testo (dalle leggende popolari alla quotidianità personale, dalla sfera spirituale a quella sessuale e persino triviale, dalla pensosità filosofica allo humour molto ruspante) grazie anche a una scala musicale ancora una volta resa inimitabile da una piccola nota che univa le ataviche pentatoniche al moderno cromatismo: la scala blues e la sua quinta diminuita.

A traghettare il blues di là del Mississippi, sulla sponda del villaggio globale, ci pensarono le conquiste del mondo moderno: il mercato del disco e delle edizioni a stampa. Quando nel 1917 uscì il primo disco riconducibile alla parola "jass," l'Original Dixieland Jass Band suonava il suo "Livery Stable Blues," ma già da qualche anno erano apparsi gli spartiti dei primi blues di un compositore-editore, William Christopher Handy; si chiamavano "Memphis blues" (1912) e "St. Louis Blues" (1914).

Da allora, lungo l'accidentata via del jazz che da Bessie Smith porta a Ornette Coleman, passando per "West End Blues" di Armstrong, "Black & Tan Fantasy" di Duke Ellington, "In the Mood" secondo Glenn Miller, "Misterioso" di Monk, "Blues for Alice" di Parker, "Requiem" di Lennie Tristano, "All Blues" di Miles, "Blues March" di Golson, "Blue Seven" di Rollins, "Goodbye Pork Pie hat" di Mingus, "Israel" di John Carisi, "Mister P.C." di Coltrane, "Blues Ra" dell'ineffabile Sun o "Footprints" di Shorter, da allora, appunto, cosa e quanto è cambiato del blues?

Molto, per certi versi, ma anche pochissimo, se si vuole.

E' cambiato molto sotto l'aspetto armonico e, in vari casi, anche sotto l'aspetto formale.

La prima e più lampante caratteristica armonica del blues è il ciclico ed esclusivo ricorso ad accordi che l'armonia classica europea definirebbe "di movimento": i cosiddetti accordi di settima di dominante, costruiti su una scala che in sé rimanderebbe ad altro accordo; non ospitando i classici accordi "di stasi," il blues non può trovar pace, se non - come dire - per convenzione, quasi nell'attesa di un altro blues.

Quando in "Blues for Alice" Charlie Parker rinuncia sin dalla prima battuta all'uso dell'accordo di settima di dominante, il grande Bird tratta il blues come una forma-canzone e non, appunto, come una forma-blues, rinunciando di fatto anche a servirsi della scala blues, quella strana serie di sei note formata dai cinque suoni della pentatonica minore (la, do, re, mi, sol) con l'aggiunta intermedia della quinta diminuita (il mi bemolle, sulla scala di la). Parker è stato uno degli artisti più bluesy della storia del jazz e non aveva bisogno della forma-blues per dirlo al mondo: con lui si avverte il blues anche nella forma non-blues ma, quasi paradossalmente, si rischia di sentirlo di meno proprio dove il nostro orecchio vorrebbe appoggiarvisi ad occhi chiusi. Con Parker apprendiamo che tutto il mondo (musicale) può essere blues ma che può anche non esserlo se esso rimanda troppo esplicitamente alla ragazza che, nel 1862, tornava a casa immalinconita a morte.

E' per questo distacco tutto musicale tour-court di Parker e dei primi boppers, che i nuovi (hard) boppers tornano alle origini: "Blues and Roots" predica Charles Mingus, blues e radici.

Ma il jazz (per sua fortuna, altrimenti sarebbe morto sul nascere) aveva perso da tempo la patente di musica folclorica per tentare lo sposalizio con l'arte e, per quanto volesse tornare alle radici, il jazz-blues non si è mai inaridito, perché continuamente spinto a rinnovarsi, cercando appigli nel fuori da sé. Lo aveva capito Bessie Smith quando nel '25 incontra Armstrong in studio di registrazione ma certamente lo ha ben chiaro Mingus quando, nel suo "Goodbye" al cappellaccio di Lester Young, dà un esempio inarrivabile della possibile fusione tra il pathos della vecchia scala blues e l'elaborazione razionale dell'armonia eurocolta: ci avevano provato anche Gershwin nell'Americano a Parigi o Darius Milhaud nella "Création du monde," ma in questi casi era difficile che il pathos dovesse prevalere sullo stupore perché il linguaggio complessivo non era quello autoctono dei madrelingua.

Invece, Thelonious Monk (che in materia era ben ferrato: bastano e avanzano "Blue Monk" e "Straight, No Chaser") col suo "Misterioso" si avvicina alla materia come se si trattasse di uno studio per l'infanzia di Schumann: eppure la malinconia tracima da ogni lato, tanto che neppure l'autore stesso voleva - dopo l'enunciazione tematica - incamminarsi sullo sviluppo improvvisato, preferendo riproporre all'infinito la linea delle prime dodici misure, appena - alla sua maniera - con qualche piccolissima, ma essenziale variante.

Esattamente al polo opposto, Lennie Tristano (richiamatosi al blues arcaico, con una cadenza introduttiva senza tempo, quasi a folate di gregoriano in rubato) suona il "Requiem" in morte di Charlie Parker prendendo a improvvisare sul blues, senza un tema dato (se non quello extramusicale, della scomparsa dello sfortunato amico, musicista incommensurabile), e imponendosi di smettere solo per inanizione (e lasciando in verità l'arduo compito solo alla manopola dello "sfumando" ad libitum a posteriori).

Dunque, poco è cambiato nel blues - a prescindere dal numero delle battute e dal rapporto fra tonica, dominante e sottodominante e poi dal circolo delle quinte - se quella manciata di note riesce ancor oggi a intristirci e parimenti a farci accettare tutto e il contrario di tutto, proprio perché, nella sua semplicità, fin dal nascere esso ha saputo accogliere insieme il minore e il maggiore, il dolore e la gioia, il dramma e la speranza.

Non è più blues nella sostanza ciò che magari potrebbe esserlo nella forma (prendiamo lo Shorter di "Juju" o di "Adam's Apple" o dello stesso "Witch Hunt") ma resta blues magari una semplice scaletta che sa portarti la testa dove vuole lei (prendiamo Gene Hackman che suona il sax da dilettante ne "La conversazione" di Coppola).

Quando il blues cessasse totalmente di essere quel suo indicibile spleen che ne ha da sempre forgiato il temperamento, allora il blues sarebbe davvero alla fine del suo viaggio.

Ma allora forse neppure il jazz sarebbe più se stesso.

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