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Una ricerca che continua sempre: intervista ad Ares Tavolazzi

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. Il bagaglio maggiore è il non preoccuparsi di cosa uscirà dallo strumento, ma suonare con l'istinto, con la ragione, con il pensiero, in maniera serena.
Parte dal Conservatorio di Ferrara la storia in musica di Ares Tavolazzi. In seguito, dopo aver fatto un po' di gavetta in ambito beat, approda agli Area, inizialmente per rimpiazzare la figura di Patrick Djivas - a suo volta passato nelle fila della Premiata Forneria Marconi -, ma poi per diventare una delle colonne portanti della seminale band. Con loro scriverà pagine decisive di un repertorio che oggi, con i compagni di viaggio di una volta, sta ripercorrendo ed allargando. Non si tratta di una semplice operazione di revival, come di solito accade ai gruppi che tornano a suonare insieme dopo molti anni, ma di una nuova fase espressiva, nella quale Tavolazzi riversa gran parte dell'esperienza acquisita negli ultimi decenni, soprattutto nel contesto jazzsitico.

All About Jazz Italia: Nel suo Storie elettriche Patrizio Fariselli racconta della prima volta che ti sei unito agli Area per suonare. Ti fu promesso uno stipendio che però il gruppo, in realtà, non poteva garantirti, ma ormai eri dentro e la storia andò avanti. Cosa ricordi di quei primi giorni con loro?

Ares Tavolazzi: Ero un po' in confusione, perché era un contesto completamente nuovo per me. Inizialmente ero in difficoltà, perché facevano un tipo di musica che non conoscevo, con tempi dispari e trovate di vario genere. Al tempo stesso era un'occasione per imparare qualcosa di nuovo e interessante. Ricordo questi marziani che suonavano delle cose che io non capivo.

AAJ: Quando avete optato per la reunion quali sono state le controindicazioni che avevate preventivato?

A.T.: Nessuna in particolare. C'era l'intenzione di fare delle cose nuove che coinvolgessero l'esperienza di questi trenta anni di ognuno di noi, ed è quello che sta accadendo. D'altra parte ci siamo anche preoccupati di suonare e riappropiarci di brani famosi, perché ci sembrava giusto dal momento che gli Area sono anche questo. Ma ci consideriamo un gruppo in movimento, non ci basta fare quello che facevamo in passato, cerchiamo di affrontare il nuovo. Siamo al lavoro in tal senso.

AAJ: Durante i concerti del reunion Tour 2011/2012 i vostri brani storici hanno subito un restyling.

A.T.: Sì, alcuni per forza di cose. Non essendoci una voce ci siamo dovuti adeguare, ma a dir la verità neanche più di tanto. Se c'è una caratteristca nuova è sicuramente lo spazio maggiore lasciato all'improvvisazione. Sono brani dove non puoi cambiare molto il tema, mentre nelle parti centrali c'è l'opportunità di spaziare.

AAJ: Perché la scelta nell'album di inediti è caduta su brani in solo o in duo?

A.T.: È la prima cosa che abbiamo fatto nelle prime uscite in teatro. Ci siamo chiesti cosa potevamo fare per intraprendere un nuovo percorso. La prima parte dello spettacolo era acustica, con pianoforte, contrabbasso, santoor e tricanta; abbiamo fatto duetti, soli e cose del genere. È stato un approccio a un nuovo mondo, a una nuova conoscenza, perché dopo trenta anni avevamo bisogno di conoscerci in maniera diversa.

AAJ: Il lavoro si chiude con un tuo pezzo in solo dal titolo "Aten". Ce ne vuoi parlare?

A.T.: È un brano che cambio ogni volta dal vivo, per me è un'occasione per sperimentare. Nello specifico sono due contrabbassi sovrapposti, di cui uno preregistrato, dove lavoro sulla struttura di "Nefertiti" di Wayne Shorter, un brano per me magico, che mi ha sempre interessato. Naturalmente è un brano che affronto a modo mio, cercando di fare una sorta di armonia, per creare dei punti d'appoggio per improvvisare con il contrabbasso dal vivo.

AAJ: Quella del solo è una dimensione che ti affascina?

A.T.: Non l'ho mai praticato molto, perché suonando jazz mi trovo a suonare con trii e altre formazioni dovo la funzione del contrabbasso solo è relegata al ruolo dell'assolo, ma sempre nel contesto di interplay e di gruppo. Il solo è una cosa che inizia a interessarmi ora, soprattutto con la possibilità di registare delle parti per poi suonarci sopra.

AAJ: Che rapporto hai con l'improvvisazione e con l'incertezza in genere?

A.T.: Si tratta di un miscuglio di cose molto interessanti. In realtà il jazz, e dunque l'improvvisazione, ha delle regole ben precise, di armonia e di struttura, quindi la cosa che mi attrae è tutto quello che puoi fare all'interno di questa struttura. Da ciò parte una fase di ricerca e di studio, sugli accordi, sulle scale, e di cosa fare su un determinato brano. La cosa che più mi affascina è che un secondo prima di improvvisare non sai mai cosa suonerai. È istantaneo, è una libertà assoluta.

AAJ: Mentre il tuo dialogo con Fariselli in "Skindapsos" è di natura squisitamente jazzistica, quasi mainstream.

A.T.: Sì, è un suo brano che abbiamo scelto di registrare perché anche il duo è una formula molto aperta, e nel quale a volte affrontiamo cose diverse. Certo, ricalca gli standard jazzistici, anche perché è un'esperienza che ci appartiene ed è giusto portarla avanti. Area è sempre stata l'espressione di quello che i musicisti erano in quel determinato momento. Oggi sono passati molti anni e portiamo al pubblico, in libertà assoluta, le nostre esperienze.

AAJ: Qual è il punto di contatto tra gli Area attuali e quelli del passato?

A.T.: La libertà di scelta, il gruppo non ha capi e nessuno decide per gli altri, siamo una struttura democratica, nel vero senso della parola. Ci ascoltiamo tra di noi, ci parliamo e niente viene rifiutato a priori. Poi in seguito decidiamo cosa fare, senza che uno di noi abbia più potere decisionale degli altri. Questa è la nostra "pepita d'oro".

AAJ: Ai concerti avete notato la presenza di nuove leve di appassionati?

A.T.: Sì, tantissimi ragazzi giovani che sono venuti ai concerti con grande curiosità ed entusiasmo. Le informazioni con internet viaggiano a grande velocità, i ragazzi si informano e quando vengono ai concerti ci chiedono come erano i nostri tempi, perché sono molto attratti da certe situazioni. Area non vuole essere un'operazione esclusivamente commerciale, nel senso che quando siamo sul palco e comunichiamo con le persone abbiamo l'atteggiamento che avevamo agli esordi, di estrema disponibilità. A mio avviso il pubblico lo sa e se ne rende conto. Certo, c'è anche un pubblico storico, ma non c'è un'atmosfera nostalgica, vengono a vederci dal vivo proprio per vedere cosa stiamo facendo in questo momento.

AAJ: Se gli Area avessero vissuto la loro parabola artistica in un altro Paese, per esempio l'Inghilterra, avrebbero avuto una maggiore considerazione da parte del pubblico?

A.T.: Probabilmente sì. Purtroppo e per fortuna gli Area avevavo una connotazione politica che un po' ci ha impedito di emanciparci all'estero; eravamo visti male fuori dall'Italia, tranne che in un circuito underground dove giravano i nostri dischi. Non siamo mai stati delle rock star, ma neanche lo abbiamo mai voluto essere. Se avessimo potuto viaggiare di più all'estero e vivere la nostra esperienza in un altro Paese avremmo avuto un altro tipo di seguito. È andata così, le nostre esperienze all'estrero le abbiamo fatte in seguito.

AAJ: Avete avuto sempre uno sguardo rivolto alla cultura orientale. Tu che rapporto hai con la filosofia di vita di popoli culturalemte lontani dal nostro?

A.T.: Sotto questo punto di vista, al giorno d'oggi c'è un po' di confusione. Mi occupo per me stesso di ricerca interiore, ho frequentato e frequento scuole su questo tipo di lavoro. Mi interessa evolvermi e capire perché sono qui. È una ricerca che non finisce mai, è una domanda che uno si pone per tutta la vita. È una ricerca che continua sempre. Ho molti legami con la filosofia orientale.

AAJ: Come musicista, dagli esordi a oggi, in che modo pensi di aver sviluppato il tuo modo di approcciarti alla materia musicale, sia dal punto di vista tecnico che espressivo?

A.T.: A parte l'evoluzione tecnica c'è un'evoluzione legata all'esperienza, al pensiero che si evolve. I primi anni ero preoccupato per il risultato, poi con il passare del tempo ho abbadonato questo pensiero inutile che toglie solo spazio alla creatività. Il bagaglio maggiore è il non preoccuparsi di cosa uscirà dallo strumento, ma suonare con l'istinto, con la ragione, con il pensiero, in maniera serena. Questa serenità è quello che ho raggiunto e che oggi mi ritrovo. È difficile dire quale sia stata la mia evoluzione, anche perché quello fatto ieri non mi interessa più, o mi interessa marginalmente, per me è tutto proiettato in questo attimo e in quello che succederà.

AAJ: Basso elettrico e contrabbasso sono per te due modi di esprimere diverse componenti di te stesso?

A.T.: Questo non saprei dirlo, perché nella vita mi sono ritrovato a fare certe cose, non è che ho scelto di suonare uno strumento o l'altro. Mi sono ritrovato con il contrabbasso al conservatorio, poi con il basso elettrico per tanto tempo e di nuovo con il contrabbasso senza un motivo ben preciso e delineato a priori. Sono due mondi diversi ma non nell'espressività. Sono "macchine" fatte in modo diverso, l'approccio fisico è diverso, ma credo di aver trovato il modo di esprimere le stesse idee con entrambi gli strumenti.

AAJ: Il 2013 segnerà il quarantennale di Arbeit Macht Frei, avete programmi particolari per l'anno prossimo?

A.T.: Abbiamo un po' di concerti in programma da marzo in poi. Non ci sono programmi precisi, tranne dei concerti a Tokyo. È presto per capire cosa accadrà, ma penso che sarà un'estate intensa sotto il punto di vista dell'attività dal vivo.

Foto di Paolo Soriani (la prima), Antonio Baiano (la seconda) e Roberto Cifarelli (la quarta e la quinta).

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