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Un CD in una bottiglia. A dialogo con Giovanni Maier

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Giovanni Maier è musicista che non ha bisogno di presentazioni: tra i maggiori contrabbassisti del nostro paese, membro della Italian Instabile Orchestra, collaboratore dei più importanti musicisti italiani, Maier è improvvisatore attivo in molteplici ambiti del jazz. A proprio nome o come contitolare, Maier pubblica per numerose etichette italiane - ad esempio per Long Song nel recente The Talking Bass con Scott Amendola alla batteria - ma da alcuni anni parte delle sue esperienze e collaborazioni sono documentate da una piccola etichetta, la Palomar Records, da lui stesso realizzata e curata. E proprio alla Palomar - di cui a parte recensiamo Kaca, Sraka In Lev di Cogliandro, Maier e Pascolo, Dark Melodies, di Maier e Parrini, Tageskarte, della Dob Orchestra e The Jazz Hram Suite, di De Mattia, Maier e Kaucic - è dedicata la conversazione che abbiamo intrattenuto con lui.

All About Jazz: Tra le tue molteplici attività musicali, una è particolarmente curiosa e interessante: la tua etichetta Palomar. Quando è nata e con quale spirito?

Giovanni Maier: La Palomar è nata nel 2000, abbastanza per scherzo, con un disco di mie composizioni per pianoforte a quattro mani, scritte per Ugo Boscain (con cui nell'ambito del gruppo Enten Eller collaboravamo) e Maria Silvana Pavan. Dopo la registrazione ci chiedemmo chi l'avrebbe mai pubblicata... e decisi di pensarci io! Facendo, inoltre, tutto da me. Perfino le copertine, per le quali mi feci aiutare da un amico che fa l'incisore.

Con il tempo, mi sono reso conto che una cosa nata per divertimento era in realtà un buon veicolo per promuovere la mia musica, con un controllo su tutte le fasi della sua produzione. Anche alla luce del fatto che il mercato discografico si rivelava via via sempre più problematico, con la distribuzione sempre meno efficace, così che le cose più piccole, di ricerca o legate al territorio dove vivo, alla fine restavano sempre fuori dai negozi.

Chiaramente l'etichetta è una cosa che seguo nei ritagli di tempo, ma comunque con una certa attenzione.

AAJ: C'è una continuità artistica in quel che viene pubblicato?

G.M.: Il filone principale s'è rivelato quello dei duetti. Me ne sono reso conto strada facendo, ma quando ci ho riflettuto ho capito che il duo è una forma nella quale mi trovo molto bene, musicalmente e anche umanamente: non amo molto le tavolate, mi piace più il dialogo diretto. Per questo nel corso degli anni mi sono trovato spesso a registrare in duo assieme persone con le quali mi trovavo bene non solo musicalmente, ma anche umanamente. Di solito la formula è questa: viene qualcuno a casa mia, rimane due o tre giorni, stiamo assieme, mangiamo, beviamo, chiacchieriamo e suoniamo, registrando.

Poi ho fatto anche diversi dischi in solo, perché il confronto diretto con lo strumento è una cosa che mi sta molto a cuore e che preferisco fare in studio. Ultimamente sto anzi riflettendo se continuare a fare concerti in solo o smettere del tutto, perché ho scoperto che la presenza di un altro musicista sul palco mi manca, è importante per mediare il rapporto che ho con me stesso e quello che ho con il pubblico.

AAJ: Vuoi dire che una ricerca sul suono si fa meglio in totale solitudine, in studio, mentre sul palco l'interazione umana con il pubblico la rende più difficile?

G.M.: Sì, perché davanti al pubblico devi fare uno spettacolo, una performance, cosicché - anche se non vorresti - senti il bisogno di garantire una certa "leggibilità," di parlare al pubblico di cose che lo interessano, e questo in qualche modo ti orienta e ti limita. Cosa che non accade in studio.

AAJ: Dove registri?

G.M.: Se posso - ma la tecnologia "casalinga" oggi è talmente evoluta che posso quasi sempre - a casa mia. E realizzo tutto da solo: registro, faccio l'editing, ecc. Devo dire che di solito i risultati sono molto buoni.

AAJ: Recentemente Carlo Alberto Canevali ci diceva, per la sua nBn, di aver volutamente scelto di creare una situazione "da live," con un suono più sporco e meno editabile, però più "reale". Tu come ti poni di fronte a questi temi?

G.M.: Anch'io ci tengo che i risultati siano "genuini". D'altronde, una certa "crudezza" del suono mi appartiene, non sono mai stato un narcisista del suono fine a se stesso. Anche se poi crudezza non deve voler dire volgarità.

AAJ: In effetti alcuni dei duetti che hai registrato per Palomar hanno una "matericità" del suono che è ben lontana dalla levigatezza di studio...

G.M.: ...che a me non interessa, perché è un altro approccio. Un po' come fare un documentario piuttosto che un film kolossal: io preferisco occuparmi del primo, con le sue imperfezioni. D'altronde, questa è un'altra cosa su cui negli ultimi anni ho riflettuto molto: l'accettazione di se stessi, con le proprie imperfezioni. È proprio nelle imperfezioni che sta la propria vera essenza: non nell'apparire perfetti, ma nell'essere in questo modo imperfetti. Proprio in questi giorni leggevo una bellissima frase dal Diario di un genio di Dalì sull'importanza di fare proprio l'errore, invece che correggerlo.

Questa è una cosa che emerge in modo forte nelle performance in solo, perché lì rischi di trovarti in un vicolo cieco e nessuno può tirarti fuori - mentre in due l'altro ti tende una mano e ti aiuta... E allora l'unica possibilità è accettarsi nella propria fallibilità, condizione per poter andare avanti, per proseguire un discorso anche quando non è venuto perfettamente. È per questo che il solo, secondo me, è un po' un'operazione psicoanalitica...

AAJ: Che cadenza di uscite ha l'etichetta?

G.M.: Inizialmente facevo un titolo all'anno, poi ci ho preso gusto e ho iniziato a farne di più. Attualmente sono arrivato a trentasette titoli in catalogo.

AAJ: Sei sempre presente in tutti gli album?

G.M.: No, perché alcuni amici mi hanno chiesto di pubblicare alcuni loro master e l'ho fatto volentieri. Anche se l'etichetta rimane una cosa legata principalmente alla mia musica. Non voglio diventare un produttore. Soprattutto perché, anche così, è un lavoro grosso: a parte quello musicale, c'è il lavoro di ascolto, la scelta delle takes migliori, curare le copertine, scrivere i testi, seguire le pratiche SIAE... Insomma, un bel po' di tempo, che io - fortunatamente, perché vuol dire che lavoro! - non ho.

AAJ: Cosa puoi dire della musica che caratterizza l'etichetta? Spesso si tratta di musica di ricerca.

G.M.: Sì, soprattutto, perché l'etichetta nasce proprio per documentare i lati meno commerciali della mia musica, già a cominciare dal primo disco per pianoforte a quattro mani. E poi perché la ricerca è per me sempre stata una parte molto importante, anche se credo che la mia musica sia sempre leggibile, mai di "rottura" ma invece d'"incontro". Anche se sono un improvvisatore, non mi considero un "radicale".

AAJ: Come definiresti il tuo essere improvvisatore?

G.M.: Per me suonare vuol dire improvvisare e questo non perché pensi che l'improvvisazione sia la forma musicale "migliore," ma solo perché personalmente credo di dare il massimo quando improvviso. Non mi piace seguire percorsi già stabiliti: per esprimermi ho bisogno di far scattare delle molle che muovano la mia creatività.

Ciò detto, aggiungerei che per me suonare improvvisando significa raccontare la mia storia. Solo questo. Non a caso i musicisti che più apprezzo sono quelli che travalicano il ruolo del loro strumento, che fanno cose che non sono "già previste" dal loro ruolo. Anch'io talvolta sono vittima del "ruolo," perché mi capita che mi chiami qualche musicista per suonare "il contrabbasso," dicendomi cosa devo fare e cosa non devo fare, senza preoccuparsi di chi sono io e di qual è la mia storia: ecco, in questi casi mi trovo sempre un po' stretto, in imbarazzo. Situazioni come la Palomar, invece, sono ideali.

AAJ: E la ricerca improvvisata, questa avventura artistica tanto impegnativa, quanto poco remunerativa dal punto del riconoscimento del pubblico, come la vedi e come la vivi?

G.M.: La vedo un po' come mettere un messaggio in una bottiglia, senza sapere chi la raccoglierà... Il mercato discografico è in crisi, un po' tutto il mondo della musica è in crisi, ma io i miei messaggi al mondo li mando lo stesso, lavorandoci bene, mettendoli nelle bottiglie e cercando anche di far 'sì che siano quelle giuste e che non si arenino subito.... E devo dire che ogni tanto qualcuno che le raccoglie c'è, perfino dove non te lo aspetteresti: ad esempio, c'è un tedesco che ha acquistato tutti i dischi Palomar e che ogni volta che vado in Germania si fa anche centinaia di chilometri per venire a sentirmi dal vivo! Non capisco neppure bene come persone come lui apprendano dell'esistenza dell'etichetta, visto che io non posso certo fare più di tanto, quanto a propaganda. Però, evidentemente, le notizie circolano...

AAJ: Pensi che Palomar possa essere un tassello di una rete di iniziative simili? Potrebbe essere un modo per non lasciare che le bottiglie galleggino in modo occasionale.

G.M.: Beh, certo se fossimo in tanti e ciascuno mettesse in mare tipi diversi di bottiglie, forse qualcosa di più potrebbe essere raccolto. Da tutti, perché, diventando tante, tutte le bottiglie sarebbero più visibili.

AAJ: Sì, sarebbe forse un modo per rendere gli improvvisatori meno isolati e più visibili... Al pubblico più ampio essi sembrano dei pazzi autoreferenti e incomprensibili, degli eremiti della musica.

G.M.: Comunque oggi qualcosa del genere c'è già, grazie a Internet, ma anche grazie al fatto che tra musicisti siamo in contatto, ci frequentiamo, collaboriamo. Anzi, c'è anche sempre forte curiosità di conoscere musicisti prima mai incontrati, di scambiarsi opinioni ed esperienze. Anche se forse è il mondo di oggi che porta all'isolamento: io mi sono ormai abituato a essere un po' ai margini di questa società, nella quale mi riconosco piuttosto poco. Quello che per me è importantissimo, per la massa non solo non è importante: non esiste proprio!

AAJ: Uno dei piaceri nel frequentare i concerti jazz sta proprio nell'incontrare i musicisti, i quali - a parte le loro qualità artistiche - sono in genere belle persone, assai diverse dalla media di quelle che incontri in altri ambienti. E ciò non è un caso, ma dipende secondo me dal fatto che hanno fatto una scelta decisamente atipica e anacronistica per una società e una cultura imperniate sul paradigma economico: hanno scelto di impegnarsi intensamente in un lavoro sapendo già che non restituirà loro, dal punto di vista economico, quel che hanno investito in energie.

G.M.: È un po' come il contadino che fa i prodotti in un certo modo e li vende a casa propria, insomma quel che avviene nelle mie amate "frasche" friulane: chi produce il vino e lo vende nelle "frasche" non vincerà mai premi alle manifestazioni enologiche, né farà mai soldi a palate; ma questo perché si muove volutamente su un altro piano, privilegia le relazioni umane, il rapporto diretto e a misura d'uomo con le cose che fa... Certo, questo è un po' fuori dai tempi... In effetti anche per me, come per molti amici musicisti, avviene qualcosa di analogo: spesso mi sento un pesce fuor d'acqua, ma questa consapevolezza non la vivo male, mi dà anche forza - sono contento che sia così! D'altronde, mi ci sono abituato, perché fin da piccolo mi piacevano cose che ai miei amici non piacevano, dunque per seguire la mia vera essenza era inevitabile che mi trovassi un po' fuori dal tempo.

AAJ: Che poi non vuol dire necessariamente isolarsi. Piuttosto, significa cercare un altro tipo di riconoscimento, offrendo agli altri cose diverse. Anche se poi, nel tipo di società massificata in cui viviamo, offrire cose diverse vuol dire quasi necessariamente ricevere riconoscimenti quantitativamente minori...

G.M.: In pochi sapranno trovare la bottiglia...

AAJ: Per farla trovare meglio, recentemente hai però aperto il nuovo sito della Palomar, www.giovannimaier.it/palomarrecords/Palomar_Records.html. Che aspettative hai?

G.M.: Una maggiore visibilità, perché l'etichetta non ha alcun interesse commerciale: serve solo a promuovere la musica. In fondo trovo che sia anche bello fare cose non mercantili. È un'attività che mi diverte e che promuove la mia musica, e questo mi basta.

AAJ: La tua musica, ma non solo. So che sul tuo territorio lavori anche alla formazione di giovani musicisti e alla promozione della musica in quanto tale. Quanto conta quest'aspetto per te?

G.M.: Anche se smentisco un po' quel che ho detto prima circa il mio scarso feeling per le tavolate, direi che qui inseguo una sorta di utopia: riuscire a circondarmi di persone che la pensano come me mi fa sentire un po' meno solo. Ed è anche per questo che iniziative collettive ne ho portate avanti parecchie: l'orchestra Phophonix - che formalmente esiste ancora, anche se è "in letargo," ma della quale non faccio più parte - nasceva con questo spirito, ma prima ancora ce n'erano state altre. Anche se l'avventura organizzativa di gruppi numerosi è molto dispendiosa in termini di tempo ed energie, e non sempre va a buon fine, perché ti accorgi solo dopo che il musicista con cui ti sembrava di trovarti bene era in realtà mosso da altre motivazioni. Ma col tempo ho imparato a riconoscere in fretta chi è adatto e chi no.

Oggi a Dobbia, vicino a dove vivo, c'è un bel gruppo di musicisti con i quali abbiamo deciso di dar vita a un collettivo, che si chiama Dob Orchestra. L'abbiamo documentata sul venticinquesimo disco Palomar, Tageskarte. Ecco, la Dob Orchestra riprende quello spirito utopico di cui facevo cenno, uno spirito che vale sempre la pena di valorizzare perché, sebbene il cammino di ciascuno sia e rimanga solitario (anche perché la società in cui viviamo, individualista, non aiuta), è anche gratificante, ogni tanto, trovarsi in molti e confrontarsi, condividere idee, parti di percorsi, esperienze.

AAJ: Però forse non è solo la società - che sicuramente ci mette del suo - a spingere verso l'individualismo: forse è nei cromosomi di un certo tipo di ricerca che prima ci si debba mettere alla prova in modo autonomo e solo dopo si possa condividere e sviluppare forme aggregative.

G.M.: Certo, del resto prima ho detto che per me suonare e improvvisare è raccontare me stesso: quando suoni in gruppi numerosi devi sacrificare un po' di questo aspetto essenziale del fare musica, per metterti al servizio della collettività. È un po' una metafora di quello che potrebbe essere una società ideale: ognuno è realizzato personalmente, ma trova la chiave per entrare in contatto con altri individui a loro volta realizzati autonomamente, che però per certi periodi di tempo hanno il desiderio e la volontà di creare una sinergia e realizzare qualcosa di diverso da quel che può essere l'espressione del singolo. Sì, trovo che l'improvvisazione in gruppi numerosi sia proprio un esercizio di coscienza sociale: bisogna saper rinunciare alla propria individualità, ma con equilibrio, altrimenti non ti riconosci più nei processi; bisogna avere fiducia negli altri; è necessario saper sentire che gli altri hanno fiducia in te...

AAJ: Documentare queste esperienze su disco è impegnativo?

G.M.: È difficile, sì, perché è difficile programmare delle live performance con gruppi ampi di improvvisatori. Entrano in gioco un sacco di meccanismi che in gruppi ristretti non esistono: banalmente, quindici persone che parlano contemporaneamente possono creare un bel po' di caos... Ecco, siamo al problema della tavolata: se non c'è forte affiatamento e grande disciplina da parte di tutti, c'è il rischio di essere in tanti ma di limitarsi a duettare con il vicino. E allora era in inutile essere in tanti... Perché un orchestra di improvvisatori non è un'orchestra sinfonica che suona Beethoven: lì ognuno ha il suo ruolo, basta rispettarlo e diventa una macchina. Qui no, ognuno il proprio ruolo lo deve creare assieme agli altri, bisogna lavorarci sopra individualmente e in gruppo. Le regole del gioco devono essere reinventate e condivise, seguite con elasticità, magari anche trasgredite, ma con la consapevolezza delle buone ragioni della trasgressione. Ultimamente mi sto interessando di matematica e teoria dei giochi: forse lì posso trovare spunti e ispirazioni per questa "organizzazione libera".

Comunque, vale sempre la pena di provare, perché se riesci a trovare il sistema per creare una sinergia, allora riesci a far circolare l'energia di ciascuno. E, spesso, ciascun musicisti di energia ne ha tanta!

Foto di Claudio Casanova (le prime sei), Luca D'Agostino (le successive due) e Roberto Cifarelli (l'ultima).


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