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Torniamo a Schönberg! Un dialogo con Mauro Ottolini e Alfonso Santimone
Forte è stata dunque la curiosità di interrogare sulla singolare coincidenza gli autori dei due dischi - che peraltro si conoscono piuttosto bene e hanno avuto varie occasioni di collaborare, ma che hanno scoperto dei rispettivi lavori solo dopo che essi erano già stati realizzati.
All About Jazz: Vi siete entrambi trovati a lavorare, pressoché contemporaneamente e ignari di quanto faceva l'altro, sulla medesima opera di un autore come Arnold Schönberg, che non certo considerato un classico riferimento per i jazzisti. Per saperne di più su questa circostanza piuttosto curiosa cominciamo con due domande: perché avete scelto Schönberg, e perché proprio i suoi Sechs Kleine Klavierstücke?
Alfonso Santimone: Inizierei con una nota sui tempi dei nostri due lavori, dicendo che io - un po' perché pigro, un po' perché impegnato su molti fronti e su lavori di altri, e perciò sempre con poco tempo - questo lavoro su Schönberg l'ho scritto quattro anni fa e l'ho registrato nel 2008; quindi, pur essendo uscito contemporaneamente al disco di Mauro, i tempi di lavorazione sono stati diversi.
Detto questo e tornando alla tua prima domanda, il mio interesse verso Schönberg è dovuto al fatto che si tratta di un autore importantissimo per la mia crescita musicale. La mia formazione è sostanzialmente da autodidatta, sebbene abbia frequentato numerosi maestri in periodi diversi della mia vita; soprattutto è autodidatta la mia formazione "accademica". Ebbene, anche Schönberg cominciò da autodidatta e io ho incontrato le sue opere, anche didattiche, prestissimo: ho letto il suo Manuale di armonia che non avevo ancora vent'anni e molto presto ho letto Stile e idea; poi, sempre da solo, ho affrontato i suoi studi di contrappunto e armonia funzionale. Insomma, Schönberg è stata una figura tra le più importanti nella mia formazione.
Inoltre, Schönberg è una delle personalità paradigmatiche della musica del novecento anche quanto a esigenze creative, un ambito nel quale sento molta affinità con il compositore austriaco, che ha sempre tentato in qualche modo di "nascondere la forma" nelle sue opere compositive: la apparente complessità della sua scrittura in realtà serve a conferirle un'impronta quasi organica, a rendere in musica la complessità dell'esistenza. Paradossalmente, la sua può sembrare una musica molto difficile, ma in realtà non lo è: ha molto a che fare con l'espressione ed è per questo che la trovo assai affine al mio modo di procedere, sia come compositore che come improvvisatore e pensatore di musica. Leggendo anche le sue idee non relative alla musica mi sono sentito sempre molto in sintonia. Di conseguenza, confrontarmi con lui è stato un po' come confrontarmi con un maestro che, per ragioni anagrafiche e geografiche, non ho avuto la possibilità di frequentare personalmente, ma con cui sono stato costantemente in relazione come lettore, ascoltatore, appassionato e studioso di musica.
Mauro Ottolini: Qualche tempo fa, leggendo il trattato di armonia di Schönberg, mi sono imbattuto in una frase che mi ha colpito molto: "grandi saranno quei compositori che riusciranno a scrivere utilizzando la timbrica degli strumenti come un parametro fondamentale della composizione". Io credo che, anche oggi, la ricerca più profonda in tutti gli ambiti della musica sia quella sul suono e sul timbro. E io stesso ho sempre lavorato molto su questo piano - anche perché, con i miei strumenti, uso una moltitudine di sordine, wah wah e aggeggi vari, che servono proprio a intervenire sul timbro. Ma quella frase mi ha sollecitato a prendere proprio un'opera di Schönberg a spunto di un lavoro, come quello del mio CD I Separatisti Bassi, che ruota principalmente attorno proprio al tema della ricerca timbrica.
La scelta è poi caduta sull'Op. 19, i Sechs Kleine Klavierstücke, perché si tratta forse della sua prima opera-aforisma: piccole ed essenziali composizioni, nelle quali tutto ciò che è in più viene eliminato. Nell'Op. 16 il compositore viennese accorpa cinque pezzi per orchestra, il terzo dei quali sottotitolato (per mano dell'autore stesso) Farben - "Colori" - proprio perché si concentra fondamentalemente sul timbro. Dopo di lui altri lo hanno fatto: ne nomino uno solo, Gérard Grisey, che ha scritto anche opere di una sola nota, eseguita però di seguito da centinaia di strumenti diversi e il cui susseguirsi crea un vero e proprio tema grazie alla sola variazione timbrica. Ecco, io sono partito da quest'idea della timbrica, seguendo la suggestione della frase di Schönberg e provando a recuperare le molte esperienze personali sul tema - oltre che nel mondo del jazz, ho lavorato in orchestra - per operare sul timbro degli strumenti. Per farlo ho scelto un organico già fortemente caratterizzato timbricamente - solo strumenti bassi che, normalmente, non vengono impiegati né come solisti, né come virtuosi - con i quali ho affrontato brani diversi: accanto all'Op. 19, infatti, si trovano composizioni jazz, un pezzo dai cartoni animati della Disney, improvvisazioni.
AAJ: Mi sembra che già dalle vostre prime risposte emerga una chiara differenza di approccio: uno è attratto dal tentativo di Schönberg di "dare vita" alla musica nascondendo i suoi aspetti formali; l'altro invece è sollecitato dallo Schönberg ricercatore timbrico.
A.S.: Vorrei chiarire, a scanso di equivoci, che i Sechs Kleine Klavierstücke - come molte sue opere di quel periodo, atonale ma non ancora dodecafonico - rispondendo alla sua personale esigenza, esplicitata in una lettera che inviò a Busoni, contengono moltissima forma; solo che essa è così nascosta nel materiale, così organica, che in qualche modo va a costituire la spina dorsale di una musica che appare priva di forma, nonostante che essa ci sia. Proprio da questo punto di vista ho trovato in Schönberg affinità con il mio proprio modo di procedere come compositore e improvvisatore.
M.O.: Sono d'accordo, la prima opera dodecafonica di Schönberg è la Suite per pianoforte Op. 25, che è "organizzata" completamente con la tecnica dodecafonica. La dodecafonia, che vive almeno per Schönberg dei quattro ordini della "serie," si basa su alcuni principi fondamentali, come ad esempio la non ripetizione della stessa nota a diverse altezze. La grandezza di questa e altre sue opere, sta proprio nella rigidità della regola che all'ascolto rimane nascosta.
AAJ: Vorrei chiedere ad Alfonso il perché della scelta proprio dei Sechs Kleine Klavierstücke, opera che da un lato è molto "contratta" e sintetica, dall'altro nasce per pianoforte solo, due suoi caratteri che rendono ancor più curioso che entrambi l'abbiate invece rivisitata con organici ben più larghi e richiedenti maggiori spazi.
A.S.: Per quanto mi riguarda, le motivazioni della scelta sono moltissime e variegate, le più importanti delle quali sono, di nuovo, legate alla mia persona e alla mia sensibilità. Innanzitutto, c'è il fatto che ritengo quell'opera, per il suo carattere "di confine," particolarmente emblematica e soprattutto capace di esplicitare la visione della musica e del mondo del suo autore. Questo ha comportato come una sorta di urgenza di "aprire il giocattolo" per capirne meglio il funzionamento. E mi ha molto interessato anche lavorare su una famosa frase di Schönberg, nella quale egli dice più o meno: "il pubblico non capisce la musica contemporanea perché deve ancora abituarsi alle nuove melodie". Ecco, nelle composizioni dei Sechs kleine klavierstücke c'è un incredibile lavoro motivico sulle melodie e la sintesi che poi la caratterizza è dovuta proprio al lavoro intenso sul motivo, sulle cellule che costituiscono una struttura melodica, che viene "aperta" da Schönberg nella scrittura polifonica pianistica, seguendo anche un evidente urgenza emotiva e filosofica. C'è infatti un riferimento alla varietà di emozioni che l'uomo prova nel suo rapporto con il mondo, superando gli steccati della musica precedente - in particolare di quella del Romanticismo - che le isolava a compartimenti stagni; qui invece il mondo interiore si apre al molteplice, alla rapidità del cambiamento.
Io ho avuto il desiderio di aprire questo giocattolo e stenderlo su una formazione più larga per metterne in evidenza anche gli aspetti melodici. Infatti ho fatto anche delle scelte di arrangiamento che possono apparire strane, come il frequente impiego di tempi di danza - talvolta quasi latini, come nel primo pezzo - in modo da porre il materiale in un contesto diverso, che ci consentisse di lavorare in profondità con l'improvvisazione. Questo lavoro di Schönberg sul motivo è lo stesso che seguo io, a mio modo, nella scrittura, come compositore per ensemble di improvvisatori e come improvvisatore io stesso: ultimamente scrivo musica molto sintetica, con pochissimo materiale al suo interno caratterizzato da una grande "densità" formale, e questo materiale diventa l'occasione e lo spunto tematico da cui parte lo sviluppo degli improvvisatori.
Il disco di Laser Pigs è infatti strutturato così: si parte da un brano dei Sechs Kleine Klavierstücke, interamente riscritto e reinventato per l'organico che impiego - un combo d'impianto sostanzialmente jazzistico - a cui segue un pezzo mio, che con la composizione di Schönberg non ha nulla a che fare dal punto di vista del materiale, su su fino ad abbracciare undici pezzi. Undici e non dodici, perché questo indica simbolicamente che l'Op. 19 non è ancora dodecafonica - è un po' un mio divertissement numerologico.... Del resto anche il titolo, Ecce Combo, rinvia simbolicamente ai legami di parentela che ci sono tra Schönberg e Nanni Moretti, la cui ex moglie, Silvia Nono, è infatti figlia di Luigi Nono e di Nuria Schönberg, figlia di Arnold.... In Ecce Bombo di Moretti la apparente calma piatta che anima le sedute di autocoscienza dei protagonisti nasconde l'analisi di un'epoca, o meglio della sua fine, così come la forma tende a nascondersi sotto un materiale apparentemente ondivago nelle mie composizioni. "Hide the form to eat the worm" è una piccola sentenza che ho appuntato nelle note del disco: il "verme" è una sorta di porta sciamanica per un percorso emotivo che è contemporaneamente dentro e oltre la forma.
Così, nei Sechs Kleine Klavierstücke, come a mio avviso in molte altre opere di Schönberg, la massa apparentemente informe di... informazioni rivela invece una grande quantità di episodi che, ascoltati con giusta attenzione e profondità anche emotiva, danno molto.
AAJ: Otto, a questo punto ti chiederei un'ulteriore precisazione riguardo la tua scelta dei Sechs Kleine Klavierstücke e poi qualcosa in merito al tipo di uso che ne hai fatto, visto che anche tu, come Alfonso, hai inserito le suggestioni di Schönberg in un contesto ben più largo, affiancandovi brani tuoi e dei tuoi compagni.
M.O.: Diversamente da Alfonso, io sono partito dall'idea di costruire una suite di diciassette brani, Paesi Bassi, basata al suo interno su un'idea di un brano del compositore olandese Louis Andriessen, del 1975. I brani sono di vario tipo: alcuni, come il brano iniziale, è composto di soli elementi ritmici, dove gli esecutori devono seguire indicazioni di tipo dinamico, fraseologico e agogico da me segnati in partitura, senza l'ausilio di nessuna figura musicale: si indica se andare su o giù, se usare effetti armonici, se usare frequenze molto basse, creando così anche degli ordinamenti timbrici tra i diversi strumenti. All'interno della suite si aprono alcuni momenti di improvvisazione e altri di composizioni scritte con soli simboli. Ad esempio, c'è un brano scritto da Giovanni Maier nel quale i simboli indicano i momenti di improvvisazione o di modifica timbrica dei suoni, detta anche alea controllata. A un certo momento entra in scena Schönberg, che - come dicevo - ho coinvolto perché mi ha fornito lo spunto della creazione incentrata sugli elementi timbrici. Su Schönberg ho lavorato assieme a Franz Bazzani, vecchio amico e compagno di studi che ha poi frequentato prevalentemente la musica classica, il quale suona anche il piano nel disco. Mantenendo alcuni pezzi così com'erano nella partitura per pianoforte, abbiamo realizzato un'armonizzazione che è almeno due ottave sotto l'originale, aprendo inoltre qua e la dei piccoli spazi di improvvisazione per questo o quello strumento. Alcuni brani si prestavano tuttavia a giocare con delle piccole cellule; lì abbiamo inserito anche delle cose nostre, che magari Schönberg aveva solo accennato, sviluppando il brano in modo originale.
Tutto questo, mantenendo però l'aspetto fondamentale dell'opera del Maestro: L'Essenza. Che, si badi, non ha nulla a che fare con il minimalismo: per quest'ultimo, si tratta di fare poco creativamente - piccole composizioni - per poi dilatarle il più possibile; per Schönberg è tutto il contrario, perché si tratta di fare il meno possibile - meno note possibile - pur riuscendo ad esprimere il massimo possibile in termini di creatività.
Dopodiché, ho scritto una composizione dedicata a Luigi Nono - per le stesse ragioni indicate da Alfonso, cioè per la parentela tra Nono e Schönberg - ho inserito momenti d'improvvisazione, di rock psichedelico, e altro ancora, fino alla conclusione quasi alla Guerre stellari, dove - come in Schönberg - sono stati usati dei clusters armonici comprendenti tutte le dodici note - una sorta di omaggio alla nascita della dodecafonia.
AAJ: Alfonso, a fronte di queste parole di Otto vorrei sapere cosa pensi della differenza dei due "risultati finali" e, in particolare, del fatto che - diversamente da te - Mauro ha conservato la sinteticità originale dei Sechs Kleine Klavierstücke.
A.S.: La prima cosa che mi ha colpito ascoltando I Separatisti Bassi è stata la radicale diversità rispetto al mio approccio: era subito evidente che le motivazioni che ci avevano portato a lavorare su quel materiale, le nostre urgenze espressive, erano totalmente diverse! E questo significa in primo luogo una cosa: che in quella musica c'è una enorme quantità di possibili tracce di sviluppo, che aspettano ancor oggi - a cento anni esatti dalla sua presentazione, che risale al 1911 (ancora il ricorrere del numero 11!) - una loro esplicitazione.
M.O.: A me aveva colpito molto anche il fatto che Schönberg i movimenti del pianoforte, uno per uno e addirittura le singole voci, sono delle splendide melodie.
A.S.: Questo è tanto vero che, a un certo punto, aveva inventato un modo di indicare perfino nella partitura le linee primarie e quelle secondarie, per facilitare il compito degli esecutori.
Riprendendo però quel che dicevo prima, io non riesco a pensare al mio lavoro su Schönberg come a un "arrangiamento," perché ho reinventato, forse perfino violentato l'opera di Schönberg, talvolta stravolgendo la sequenza degli eventi per piegarla brutalmente alle mie esigenze. Ma sono convinto che lui avrebbe apprezzato questo genere di "esercizio," rispetto al quale egli rimane il compositore di quelle opere, sebbene io - combinando il materiale in modo diverso - le abbia praticamente riscritte.
Il lavoro di Otto, invece, mi sembra più prossimo all'arrangiamento, proprio perché rimane più aderente alla scrittura originale, sviluppandoci sopra una ricerca timbrica che io - nonostante sia interessantissimo a questo tipo di lavoro, al punto da invitare spesso i musicisti con cui lavoro a esplorare sonorità e tecniche meno convenzionali - in questo caso ho messo in secondo piano.
Proprio per questa mia esigenza di esprimere cose mie e anche per le esigenze del gruppo con il quale lavoravo, formazione per certi versi squisitamente jazzistica, non ho potuto tener fede di fatto a quella essenzialità alla quale, tuttavia, di principio ho mantenuto l'ispirazione. Ho infatti aperto spazi anche lunghi di improvvisazione che provenivano dal materiale di Schönberg - il quale, va ricordato, è solo una parte del disco, diciamo poco più del cinquanta per cento.
AAJ: L'ultima domanda, forse un po' banale, riguarda la vostra opinione sul fatto che un autore come Schönberg sia stato oggetto dell'attenzione e del lavoro di due musicisti che, come voi, sono tra i più interessanti, creativi e di "ricerca" del panorama italiano contemporaneo.
M.O.: Noi siamo solo gli ultimi a interessarsi a Schönberg, visto che un musicista come Eric Dolphy è stato persino suo allievo! Più in generale, Schönberg è stato un punto di riferimento per un'infinità di musicisti. Per esempio, di Gershwin, che gli chiese anche di studiare con lui e si sentì rispondere da Schönberg: "sono io che dovrei venire a studiare da te, visto che con la musica hai fatto un sacco di soldi, mentre io sono ancora un poveraccio...".
Comunque, è vero che io - che ho vissuto nella musica classica a lungo, suonando in un'orchestra sinfonica per dodici anni - mi sto appassionando alla musica contemporanea proprio adesso che, invece, mi muovo nel mondo del jazz. Questa cosa è curiosa e anch'io mi domando spesso come sia possibile. Proprio in questi giorni stavo studiando un altro grande della musica del Novecento, Stravinski, ascoltandolo partiture alla mano. Un musicista che, sebbene non appartenga alla tradizione dodecafonica, è vicino a Schönberg per molti aspetti, basti pensare al modo in cui tratta l'Histoire du soldat. Si tratta di una composizione per la quale - per ragioni economiche - non aveva la possibilità di utilizzare più di un musicista per strumento e che, proprio per questo, è uno dei capolavori della musica moderna: Stravinski è infatti stato capace di lavorare creativamente sulle combinazioni timbriche, così che l'effetto conclusivo è quello di un'orchestra ben più ampia di quella che è in scena. Ciò grazie alla grande conoscenza degli strumenti che oggi, purtroppo, i giovani compositori - abituati a lavorare con i computer - di solito non hanno e che rende loro più difficile il lavoro sulla timbrica.
La butto là ad Alfonso: il prossimo lavoro credo che lo farò su Stravinski; perché non ne fai uno anche tu e l'anno prossimo ci ritroviamo qui di nuovo a parlarne?
A.S.: E perché no? Sarebbe un vero piacere! Per tornare alla domanda, che mi sembra molto interessante, la risposta credo sia nascosta nella parola "ricerca". Perché proprio questa era la molla che ha spinto Schönberg nella composizione. La ricerca tout court, non solo in senso musicale: la ricerca come spinta e urgenza di scoprire cose e il loro funzionamento, la ricerca della creazione di cose nuove, la ricerca di possibili risposte alle domande aperte del mondo che ci circonda, la ricerca della formulazione di nuove domande. E questo spiega perché in tanti - inclusi Eric Dolphy, Otto ed io - si sono rivolti a Schönberg: perché è un po' l'archetipo del musicista di ricerca. Con buona pace di chi, come Boulez - che in preda a un afflato iper-avanguardista (!) nel 1951 scrisse un articolo intitolato Schönberg è morto - possa prendere le distanze da un musicista che aveva anche in parte ritrattato certe scelte, ritornando a momenti precedenti la dodecafonia. Ma questo Schönberg lo faceva proprio per quella inquietudine che lo spingeva a non sostare nella stasi, a porsi costantemente e anche autocriticamente alla ricerca. E spiega anche perché, nel mio caso, la passione per il jazz coincida con quella per la contemporanea, a dispetto del fatto che io non abbia una formazione accademica (sebbene invece venga da una famiglia di musicisti: mio fratello è un eccellente chitarrista e compositore, mio padre un musicista e autore). E infine, per come lo conosco, spiega anche il perché ne sia attratto Mauro, che certo fa della ricerca uno stimolo continuo al proprio lavoro di musicista.
AAJ: Esaurite le mie domande sul tema di Schönberg e dei vostri lavori su di lui, vi chiederei, per concludere, se avete delle domande da farvi l'un l'altro, su questo o su altri argomenti.
A.S.: Io di domande da fare a Otto ne avrei moltissime, ma una in particolare mi sta molto a cuore: qual è la suggestione che ti spinge a fare determinate scelte musicali? Voglio dire: la tua spinta viene solo dalla musica o ci sono invece anche altre motivazioni, influenze, riflessioni?
M.O.: Ogni gruppo che ho messo in piedi aveva delle motivazioni particolari. Questo, in particolare, lo avevo in mente da tempo, ma è stato duro da realizzare perché richiedeva musicisti che avessero una pluralità di competenze specifiche: non solo saper suonare la musica contemporanea, ma anche saper sfruttare le opzioni timbriche dei loro strumenti e saper stare all'interno di un gruppo composto da musicisti che suonano tutti con una personalità ben spiccata. Ciò che mi ha spinto era il desiderio di sperimentare le possibilità di un gruppo di questo genere, composto tutto di strumenti bassi. Perché le possibilità di uno strumento basso sono almeno il doppio di quelle degli altri, visto che accanto ai suoni bassi - che gli altri non hanno - posseggono anche degli armonici sul registro acuto, che esistono, sono sfruttabili e, infatti, alcuni autori contemporanei hanno sfruttato.
La cosa si è poi concretizzata grazie a Franz Bazzani, che citavo prima, ma anche a Flavio Massarutto, che ha ospitato il gruppo al festival di S. Vito al Tagliamento, e a Stefano Amerio, che lo prodotto e registrato - e non era facile, visto che sono - a parte il theremin - tutti strumenti non amplificati,.
Detto questo, però, va aggiunto che in tutti i gruppi che ho realizzato è sempre stato prioritario il feeling con i musicisti. Io spesso mi innamoro al primo ascolto dei musicisti con cui lavoro: è successo ad esempio con Vincenzo Vasi, ma anche con Alfonso, che mi colpì al primo ascolto e a cui chiesi subito un arrangiamento. In generale, questo è dovuto al fatto che ho bisogno di confrontarmi con gli altri, di avere il loro parere e le loro indicazioni, e per questo è fondamentale che con i collaboratori ci sia un rapporto personale.
AAJ: Però è anche vero che, se non in tutti, in gran parte i tuoi lavori ci sono delle suggestioni politiche: restando al recente, ci sono sia in The Sky Above Braddock e ne I Separatisti Bassi, ove la suite di Andriessen è dedicata ai sindacati olandesi...
M.O.: Certo, ci sono, anche se è difficile parlarne, perché oggi non si può più parlare di politica ma solo di miserie... Comunque, l'idea de I Separatisti Bassi, cioè che uno strumento oscuro come ad esempio il sassofono contrabbasso possa prendere la scena, esprimersi liberamente, mostrare la propria individualità e unicità, è in effetti un modo per ironizzare sull'urgenza di emancipazione che comunque ci pervade, e che ha sempre attraversato la musica creativa. Del resto, io questa urgenza l'ho vissuta sulla mia pelle, essendomi licenziato da un'orchestra importante proprio per trovare il mio ambiente espressivo.
AAJ: Per concludere, Otto, hai anche tu una domanda da fare ad Alfonso?
M.O.: Anch'io ne avrei moltissime, ma gliene voglio fare una un po' cattivella: io che ho avuto modo di sentirti suonare, di vederti scrivere, di collaborare con te, e che per questo so che sei un musicista originale con molte cose da dire e ti stimo moltissimo, vorrei sapere se non ti sembra che, a volte, stare dentro un collettivo come El Gallo Rojo - per quanto zeppo di musicisti straordinari - porti fatalmente a crearsi delle barriere musicali che limitano la libertà del singolo, magari involontarie, dovute all'influenza e al giudizio dei molti altri musicisti? Tu, con la tua creatività, non ti senti mai un po' "chiuso" in un contesto del genere?
A.S.: No, non mi sento affatto limitato nella mia libertà stando nel Gallo Rojo. Anzi, direi che il collettivo è fondamentalmente legato all'amicizia tra persone, per cui quando valutiamo delle proposte - comprese le mie e le nostre - e con una votazione democratica alcune vengono escluse dalla produzione, non ci sono particolari problemi. Per il resto non c'è nessuna preclusione: io, così come tutti gli altri, posso esprimermi nel collettivo come preferisco e l'eventuale fatto che la mia opera non incontri i gusti del collettivo non mi impedisce di continuare sulla mia strada. Né mi impedisce di frequentare moltissime altre persone e di collaborare con musicisti che del collettivo non fanno parte e che considero altrettanto amici - uno dei quali sei tu, per esempio. Certo, ci sono molte cose che vorrei realizzare e di cui non riesco a occuparmi, ma ciò è dovuto a mancanza di tempo o di energie, non certo a "legacci" impostimi dal collettivo. No, no, non mi sento proprio limitato: né sul piano linguistico e musicale, né su quello umano. Aggiungerei solo che non è vero che El Gallo Rojo sia una realtà chiusa all'esterno: è semplicemente un gruppo di persone che discute di musica (e non solo), che autoproduce dei dischi - ne abbiamo fatti cinquanta, ormai, e spero ne faremo altri - e che, ovviamente, non produce, né può produrre tutto quel che viene proposto. Molte volte discutiamo e non siamo d'accordo, ci confrontiamo con decisione, senza però limitarci reciprocamente. E non è chiuso anche perché collabora continuamente con esterni e perfino perché si aggiungono via via nuovi membri - recentemente, ad esempio, su sua richiesta s'è aggiunto Giulio Corini, che d'ora in poi parteciperà a oneri, diritti, dolori e gioie del gruppo. E soprattutto all'amicizia, che è lo stigma del collettivo.
AAJ: Devo mettere la parola fine, siamo andati anche troppo lunghi. Spero che riprenderemo presto il discorso da questo punto. Magari dopo un vostro concerto "alla vecchia," come dite voi, e con una bottiglia di "Nero Jazz" di Otto.
Tutte le foto di Ottolini e Santimone sono di Claudio Casanova.
Visita i siti di Alfonso Santimone e Mauro Ottolini.
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