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The Shape of Italian Jazz to Come? Stefano Risso

Amo sempre di meno la prova del grande solista e apprezzo sempre di più la forma nella musica.
C'è mancato poco che un insegnante di chitarra, con i suoi modi, tenesse lontano Stefano Risso dalla musica per sempre. Poi, lo folgorazione sulla via del jazz. Oggi Risso è un contrabbassista ispirato, compositore attento, arrangiatore fantasioso. Lo abbiamo intervistato per indagare sulla sua ramificata attività di musicista, capace di far colloquiare linguaggi distanti e unire matrici diverse tra loro.

All About Jazz: Raccontaci come è andato il primo incontro con il contrabbasso e con il jazz.

Stefano Risso: Eravamo ragazzini, non ricordo esattamente, direi quindici anni. Ci ritrovavamo a casa di un amico, Guido. Il padre aveva un'ottima collezione di vinili, quelli degli anni '60, belli, spessi e pesanti. Ci trovavamo a casa sua nel pomeriggio, i suoi non c'erano perché lavoravano e noi, un po' di nascosto, fumavamo le prime sigarette e ascoltavamo questi dischi. Me ne ricordo uno in particolare che anni dopo ho scoperto essere un disco di Red Norvo On Dial anche se dalla copertina il disco era a nome di Parker All Stars. Normalmente ascoltavamo musica punk e hardcore, ma quei pomeriggi erano differenti: un po' misteriosi, ci facevano sentire come dei carbonari. Ricordo che in quel disco c'era una versione di "Congo Blues," un pezzo velocissimo, quasi vorticoso. L'ultimo solo non capivamo bene da che strumento fosse suonato: ci sembrava ci fosse anche una voce, ma non riuscivamo a riconoscere nessun suono conosciuto. Solo anni dopo ho scoperto che era Slam Stewart che improvvisava doppiando con la voce il suo contrabbasso suonato con l'arco.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione?

S.R.: Ho avuto un insegnante di chitarra che nel giro di pochissimo mi ha fatto odiare la musica, tanto che a dieci anni ho detto a mia madre che non avrei mai più suonato nulla. Me ne stavo anche ben distante dai dischi di mia sorella: ero convinto che la musica non facesse per me. Poi alla scuola superiore decidemmo di formare un gruppo, ma nessuno suonava nulla. Scelsi il basso perché con quattro corde mi sembrava più facile. Dei componenti di quel gruppo fantasma sono stato poi l'unico a comprarmi lo strumento. Quindi un po' di anni di punk e poi lo studio e il passaggio al contrabbasso. A differenza di tanti musicisti ho iniziato a studiare seriamente molto tardi. Quando ho comprato il primo contrabbasso per sei mesi non mi ci sono dedicato affatto: allora suonavo il basso elettrico e trovavo molto impegnativo sotto tutti gli aspetti, non ultimo quello fisico, passare al contrabbasso. È uno strumento, in effetti, che all'inizio un po' ti respinge. Dopo questo periodo di indecisione, frequentando un seminario, mi è scattato qualche cosa dentro, ho incominciato e mai più smesso con lo strumento panciuto, affrontando in contemporanea il percorso del jazz e quello della classica. In quel momento ho capito che avrei provato a fare il musicista.

AAJ: Quando hai capito di essere diventato musicista a tutti gli effetti?

S.R.: Musicista a tutti gli effetti, a mio parere, non lo si diventa mai. Siccome di natura sono una persona curiosa, e la musica è un percorso di conoscenza infinito, direi che non arriverò mai ed è proprio questo il motivo per cui continuo.

AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?

S.R.: È uscito da poco per l'etichetta svizzera Brambus Un fratino al mar del gruppo italo-svizzero Spelterini, con Christoph Irniger, Franz Hellmuller e Donato Stolfi. In marzo abbiamo fatto un tour di presentazione in Italia e Francia e in autunno saremo in Svizzera e Germania. Poi, sto concludendo un lavoro discografico che mi ha preso molte energie, un lavoro su più anni che mi ha visto pensare e scrivere tre repertori differenti: un mio personale omaggio al blues. È un po' come se ogni anno sentissi l'esigenza di scriverne un nuovo capitolo. Il progetto Les Diables Bleus è costituito da due trii differenti: il primo "espression" (con Guido Canavese e Jean Luc Danna) piano, basso e batteria, è più jazzistico e suona un repertorio costituito da brani originali e materiale che va da Mingus a Hendrix passando per Tom Waits; l'altro, "impression" (con Alberto Varaldo e Paolo Botti) è un trio armonica, banjo/dobro e contrabbasso che ha il timbro del blues più rurale del delta del Mississippi, ma che suona musica totalmente improvvisata o mie piccole composizioni. Negli ultimi sei mesi ho deciso di aggiungere un nuovo capitolo. Su basi elettroniche che attingono dal materiale audio della registrazione di "impression" Paolo Bonfanti e Michele Di Mauro canteranno e reciteranno il testo di una canzone di Paolo. Inoltre, in autunno, suoneremo con Stefano's Barber Mouse (con Fabrizio Rat e Mattia Barbieri), gruppo che suona solo brani dei Subsonica a MiTo. Il loro sviluppo è in continuo fermento, ci sono buone novità e in più stiamo già lavorando al nuovo repertorio. Per T.R.E (con Alessandro Giachero e Marco Zanoli) in estate dovrebbe uscire quello che è il nostro quarto disco. Un doppio dedicato alla canzone composto da un disco di originali e uno di standard, in alcuni casi invasivamente rimaneggiati. Il CD conterrà anche un video di Paolo Giagheddu costituito da un montaggio fotografico che ho poi musicato.

AAJ: Con Vocifero vol.2 - Composizioni, secondo capitolo di una trilogia ispirata all'universo delle voci femminili, stai portando avanti un lavoro importante. Rispetto alle tue aspettative, a che punto del cammino pensi di essere?

S.R.: È passato un po' di tempo dalla registrazione delle prime due parti di Vocifero eppure quei due dischi mi rappresentano ancora molto. Abbiamo provato e siamo entrati in studio con 22 brani da registrare. Per scelta non avevo specificato sulle parti se i brani fossero mie composizioni originali o i brani delle cantanti. Quindi, tranne Andrea Ayace Ayassot che aveva le versioni cantate per cercare di catturare qualche piccola sfumatura delle differenti voci, sia Stefano Battaglia che Marco Zanoli hanno trattato il materiale nello stesso modo, senza farsi influenzare dall'origine del materiale stesso. Questo secondo me è uno dei motivi per cui la musica continua ad essere fresca. Per ciò che riguarda la conclusione della trilogia però mi ci vorrà del tempo. Sono già in contatto con alcune delle cantanti che penso di coinvolgere, ma non ho ancora bene individuato l'organico; tempo fa avevo un'idea chiara in testa poi Gabriele Rampino, il direttore artistico di Dodicilune, mi ha dato dei suggerimenti interessanti che mi hanno costretto a rimettere tutto in gioco. Rimane il fatto che il lavoro è veramente grosso e gli investimenti economici, soprattutto se si vogliono coinvolgere alcune voci che ho in mente, avranno un certo peso.

AAJ: Un disco composto da brani autografi. Qual è il tuo modo con cui ti avvicini alla composizione?

S.R.: Negli anni mi considero sempre più compositore che strumentista. Ho sempre scritto molta musica, ma nell'ultimo periodo ho incrementato. Sto cercando di scrivere un brano al giorno così a seconda di dove sono e di che strumento ho a disposizione provo a usare metodologie diverse per comporre. Non penso che ci sia una sostanziale differenza fra il lavoro di composizione e quello di arrangiamento. Anzi alcuni arrangiamenti del volume 1 di Vocifero mi hanno richiesto più tempo che scrivere composizioni mie. Arrangiare è come comporre, ma con un vincolo gigante già presente: la melodia. Comunque, scrivendo, a me i vincoli sono sempre piaciuti. Senza mi trovo un po' spaesato, mi sembra che valga tutto e, allo stesso tempo, nulla abbia valore.

AAJ: Che relazione c'è tra il tuo modo di suonare il contrabbasso e le voci delle tue "muse ispiratrici"?

S.R.: Cerco di ispirarmi a loro sia scrivendo che suonando. Diciamo che con lo strumento grave per eccellenza non è sempre un'impresa facilmente leggibile. I glissandi, i portamenti, l'arco flautato rendono il linguaggio ricco di quella fragilità tipica delle voci che mi colpiscono (almeno nel mio immaginario). In particolare dalla musica folclorica vocale si possono "rubare" un sacco di sfumature e intenzioni veramente uniche.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

S.R.: Mi piace quando la musica ha un colore preciso e le composizioni posseggono una propria identità. Amo sempre di meno la prova del grande solista e apprezzo sempre di più la forma nella musica. Penso ogni composizione come una sorta di viaggio che nel giro di poco mostra differenti paesaggi. Un altro aspetto della musica su cui sto lavorando è di provare a raggiungere una giusta misura fra sperimentazione e fruibilità. Ci sono artisti che ci riescono molto bene, ad esempio Björk e Portishead. Nella loro musica c'è molta più sperimentazione, timbrica e non solo, che in tanti gruppi di jazz contemporaneo e nonostante la sperimentazione che molti pensano sia deleteria a fini commerciali loro vendono un sacco di dischi. Da tempo ho in mente di fare un disco di canzoni mie, con un cantante e con strumenti acustici non amplificati e non effettati, ma preparati in modo da produrre sonorità inaspettate ma acustiche e con un naturale equilibrio fra gli strumenti, batteria compresa e voce. Mi piacerebbe amplificare dal vivo, solamente con un Neumann posto nel centro, in maniera tale da essere costretti ad avere un perfetto controllo dell'equilibrio dinamico. Un po' come suonare del rock come fosse della musica da camera. Lo scorso mese abbiamo iniziato a provare

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

S.R.: Per un lungo periodo ho ascoltato molta musica contemporanea e musica degli inizi del 900. "Il quartetto per la fine dei tempi" di Messiaen è diventato una sorta di ossessione: a ogni ascolto ne scopro aspetti sempre nuovi. In passato tantissimo jazz e negli ultimi periodi tanto swing (le orchestre e quegli stupendi saxofonisti) e tanto delle origini: King Oliver, Earl Hines, Don Redman, Luis Armstrong. Ma quello che trovi sicuramente sempre, se controlli i miei ultimi dieci ascolti, sono le voci e le canzoni. Forse i dischi che ho ascoltato di più, recentemente, sono Ys di Joanna Newsom e Romances di Mike Patton e Erik Kaada e Secondi fini per fare le ore piccole di Nolan, Around Robert Wyatt dell'Orchestre National de Jazz con Daniel Yvinec.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

S.R.: Da sempre mi piace lavorare con la carta: quando ho un semplice scontrino in mano lo piego e lo ripiego cercando delle forme. L'ultima mia passione sono i pop up. Non so se sapete: si trovano spesso nei libri per bambini, dalle pagine escono forme tridimensionali, tutte rigorosamente di carta ripiegata. Ci sono libri pop up che sono delle vere opere d'arte un esempio è "Scia" di David Pelham. Alla fine del 2009 una compagnia teatrale ha chiesto a me e alla mia compagna (Lorena Canottiere, che fa la disegnatrice) di costruire, per una performance, un nostro teatro ipotetico, chiuso dentro una scatola. Abbiamo ideato e realizzato un oggetto con dei ponti levatoi e con pop up che escono e animano fumetti. La musica che proviene dalla scatola in sovrapposizione ai carillon che fanno chiudere i ponti è un montaggio audio di frammenti di Riflessi, il secondo CD di T.R.E. [dopo Passaggi e prima di Viaggio].

Foto di Alberto Ferrero (la prima e seconda), Paolo Giagheddu (la terza e quinta) e Jean Louis Truch (la quarta).

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