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The Shape of Italian Jazz to Come? Nicola Zambello
Sono, in un certo senso, una persona abbastanza impressionabile, più o meno come una pellicola fotografica, ma ciò che ricevo sottoforma di immagine lo restituisco trasformato in suono.
All About Jazz: Raccontaci come è andato il primo incontro con la chitarra e con il jazz.
Nicola Zambello: Ho iniziato a suonare a undici anni. Il calcio e le iniziative parrocchiali mi interessavano poco o niente, così, il più delle volte, gli scambi interpersonali con i miei coetanei si risolvevano in un modo abbastanza faticoso. Ero troppo grande per provare a integrarmi e non avevo voglia di mostrarmi per chi non ero, così chiesi a mio padre, che possedeva un'Ibanez acustica, di insegnarmi qualche accordo. Suonare era proprio la cosa di cui avevo bisogno, mi faceva stare bene e mi appassionava. L'interesse per la musica portò ad alcuni rovesci scolastici e mi avvicinò a ragazzi più grandi che suonavano da tempo, dai quali imparai a cavarmela con i primi soli.
A venti anni decisi di rivolgermi a un insegnante, il chitarrista padovano Ruggero Robin, il quale mi fece conoscere il Jazz, introducendomi a ciò che già allora sentivo più affine alle mie vere esigenze espressive.
AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione?
N.Z.: Dopo aver ascoltato per molto tempo i grandi del rock - da Iggy Pop a Hendrix - Ruggero Robin mi fece conoscere, oltre alle tecniche legate all'improvvisazione, soprattutto l'aspetto espressivo del Jazz. Mi diceva sempre: «Ricordati che sia i temi che i soli, perché funzionino, devono essere cantabili. Le frasi devono avere respiro, proprio come se le cantassi».
In seguito ho frequentato i seminari sull'improvvisazione di Tomaso Lama, ed è stato lui a suggerirmi i corsi sperimentali di Jazz al Conservatorio di Bologna, e lì ho studiato anche con Stefano Zenni, Paolo Morgante, Paolo Birro e altri bravissimi insegnanti. Dopo il triennio a Bologna mi sono iscritto al biennio specialistico di Jazz al Conservatorio di Rovigo, coordinato da Marco Tamburini. Il mio insegnante di chitarra è stato Sandro Gibellini, ed altri, come Ambrogio DePalma, Stefano Bellon e Marcello Tonolo, mi hanno dato la possibilità di allargare le mie conoscenze anche in settori come l'arrangiamento e la composizione.
Sono state belle esperienze, ma sento però di dire che lo studio del Jazz nei Conservatori, in Italia, non è ancora adeguatamente sostenuto da un giusto impiego di mezzi e di tempo didattico. Nelle scuole europee e americane, ad esempio, si investe di più sulla formazione dei musicisti, ma spero che in futuro possa essere così anche da noi. Al di là di tutto, però, credo che la formazione più importante sia quella che si fa a casa, da soli, direttamente sul proprio strumento e a tu per tu con i dischi dei grandi musicisti.
AAJ: Quando hai capito di essere diventato un musicista a tutti gli effetti?
N.Z.: Forse quando ho capito che fare musica non era un hobby, ma una necessità, dal momento che se non suono sto male! Ciò che mi spinge non è la ricerca del successo o altro, ma un'esigenza quasi fisica. Il suonare o il comporre non sono soltanto un piacere. Sono la canalizzazione di qualcosa di interiore che è bene non bloccare. A un certo punto ho focalizzato tutto ciò condensandolo nella figura professionale del musicista, ma la cosa nasce ovviamente ben prima, e trova sede in ciò che non voglio e non posso essere. C'erano le rappresaglie di mia madre: mi tagliava le corde della chitarra perché non studiavo, e a ogni corda spacciata sapevo che non sarei stato ingegnere, avvocato o medico come mio padre.
Per mantenermi agli studi ho fatto diversi lavori occasionali e poi, pian piano, ho cominciato a vivere con la musica. Quanto all'essere un musicista a tutti gli effetti, non credo lo si possa essere mai del tutto. C'è sempre la consapevolezza di una perfettibilità che a ogni nuovo passo compiuto, scivola in avanti come un miraggio. Un "quasi, ma non ancora," che non mi permetterà mai di considerarmi arrivato e, almeno per un pezzo, nemmeno tanto bravo.
AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?
N.Z.: Sto preparando il mio secondo disco, che sento come evoluzione del primo, non solo in senso stilistico. Avrà una venatura più notturna, ma ciò rimane da definire e potrebbe cambiare fino all'ultimo momento. Nel cassetto, poi, ho vari progetti d'altro tipo, che in futuro vorrei sviluppare, tra cui un album British Pop. In genere lavoro a più cose contemporaneamente, e a volte, quando compongo, i brani escono in uno stile o in un altro senza che io l'abbia deciso prima.
AAJ: Nel tuo ultimo lavoro A Concord Dream si possono apprezzare sia momenti in solo che situazioni dove lasci maggior spazio agli altri musicisti. Ti senti più gregario o attore protagonista?
N.Z.: Dipende dalla situazione. Ho capito che ci sono contesti in cui la chitarra non ha il suono più adatto a enfatizzare una particolare parte di un brano, e che è meglio lasciare spazio agli altri. Sento d'aver molto da dire come chitarrista, ma adoro anche accompagnare altri solisti, facendomi guidare, nel gioco dell'interplay, in nuove situazioni. Ciò che conta è il risultato finale, la storia che si sta raccontando e le emozioni che si vogliono trasmettere.
AAJ: Un album che descrive ambientazioni di grande eleganza e precisione. In che modo sei arrivato ad ottenere questo risultato?
N.Z.: Non ho pianificato nulla. Ho solo seguito il mio istinto e il mio gusto personale, sviluppando anche ciò che più "sentivo" nella musica di determinati artisti. Bill Evans, per esempio, che è il pianista che più amo; le parole "A Concord Dream" sono l'anagramma del titolo di un suo pezzo, "Comrade Conrad," e la struttura armonica e la forma espositiva del mio brano ne sono una riproposta.
Ogni traccia ha un riferimento ispirativo ben preciso e, a parte i brani dedicati ai miei figli e alla mia compagna e la rilettura di "My Funny Valentine," i brani traggono la propria "scintilla vitale" da un fattore soprattutto emozionale: un'immagine, un ricordo, la scena di un film.
"Like Tears in the Rain" attinge in parte al finale di Blade Runner, ma le sue sonorità devono probabilmente più di qualcosa a Largo, il disco di Brad Mehldau, ed è anche dedicato a mia madre morta prematuramente dodici anni fa, e in generale a tutto ciò che c'era e che non fa più parte della mia vita. "Jazz on the Road," invece, è lo scorrere notturno della strada, appena illuminata dai fari della macchina, in Lost Highway di Lynch.
Sono, in un certo senso, una persona abbastanza impressionabile, più o meno come una pellicola fotografica, ma ciò che ricevo sottoforma di immagine lo restituisco trasformato in suono.
AAJ: A volte tecnica ed inventiva non sempre vanno di pari passo. Tu sei un musicista tecnicamente preparato, come ti rapporti con l'improvvisazione?
N.Z.: Credo che lo studio della tecnica, per quanto fondamentale, sia almeno in parte sopravvalutato. Mi spiego meglio. La tecnica non deve essere fine a se stessa, e da sola non è funzionale all'improvvisazione. Poniamo che un aspirante pugile, fisicamente molto allenato, salga sul ring senza mai aver incrociato i guantoni con un altro pugile. Il risultato sarebbe piuttosto prevedibile. La capacità d'improvvisare è qualcosa che si ha o non si ha. Insegno chitarra ormai da anni, e ho visto che non tutti hanno l'inventiva, o anche solo l'urgenza espressiva necessarie. Altri possono naturalmente essere bravi esecutori di parti scritte, e allora sì, la tecnica assolve alla propria prerogativa di solido appoggio. Mi esercito contestualizzando esercizi e frasi a modulazioni o al giro armonico di un brano, e cerco di ricavarne tutte le diverse sfumature e tutte le variazioni possibili. Quando suono, poi, non penso più a niente, e mi concentro solo sul costruire un discorso frase dopo frase, partendo dal tema e basandomi sulle emozioni che devono raccontare "la storia". In questo senso, affidarsi al proprio personale vissuto e alla propria capacità empatica, può essere un buon punto di partenza per familiarizzare con l'improvvisazione, a patto, però, di voler davvero dire qualcosa.
AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?
N.Z.: Beh, l'elenco delle cose che sento di dover migliorare è lungo. Vorrei approfondire le mie conoscenze su composizione e arrangiamento, soprattutto nell'ambito della musica da film, che è un settore che mi attrae molto. Considero un mio punto di forza la facilità di scrittura, nel senso che non sono mai a corto di idee. Credo e spero di saper esprimere un intero brano in modo fluido e ben organizzato, con una buona consequenzialità e compiutezza anche nei soli.
AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?
N.Z.: Ciò che puoi trovare in play è variabile e dipende dai giorni. Mi piace in generale la musica che vuole trasmettere un messaggio e che racconta una storia.
Posso dirti che in questi giorni sto ascoltando Johnny Cash e Chet Baker, due mondi diversi ma per certi versi confinanti.
AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?
N.Z.: Amo trascorrere il tempo con la mia compagna e i nostri figli. È una dimensione rigenerante. Mi piacciono tutto sommato le cose più semplici dello stare insieme, le lunghe chiacchierate davanti a una bottiglia di vino, vedere film, i Simpson, leggere, andare a correre all'alba. Mi piace giocare a tennis, scrivere, e adoro i gatti. Mi piacerebbe, soprattutto, avere più tempo a disposizione.
Foto di Mauro Campobasso.
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