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The Rock That Cracks and Pops!
È come addentrarsi in un bosco in una giornata di vento e fuoco muoversi nel mondo del rock indipendente: sperimentale o cantautoriale, rigoroso o sorridente al pop, iniettato di elettronica o ripiegato sotto un lembo acustico, ci sorprende con scoppi improvvisi, brezze gelide, scintille che spezzano i rami, irresistibili danze a pestare le foglie con i piedi.
Con l'arrivo della primavera si svegliano mille forze, mille suoni, echi dell'inverno rimangono, si spalancano le pianure americane e i tralicci delle città... noi, curiosi come al solito siamo andati proprio in mezzo al bosco, a trovare il cuore di questo rock that cracks and pops!
Califone
Roots & Crowns
Thrill Jockey
(2007 - distr. Self)
Un nome certamente consolidato della scena che si muove tra radici e avanguardia è quello dei Califone di Tim Rutili, di cui avevamo già apprezzato gli ottimi Heron King Blues e Quicksand/Cradlesnakes di alcuni anni fa.
Il nuovo lavoro, Roots & Crowns prosegue quell'esplorazione negli affascinanti territori di obliquo cantautorato in cui la band si è sempre mossa, tentando di sciogliere alcuni nodi, di illuminare certe ombrosità.
Ne viene fuori un disco leggermente sbilanciato, con momenti di grande suggestione [che puntano su alienità sonore che infliggono ferite al corpo della canzone] e altri in cui lo sguardo verso le radici sembra più appagato e per questo meno vivo. Tra le cose migliori ci sono certamente il brano d'apertura, "Pink & Sour", la scartavetrante "A Chinese Actor" e la bella cover di "The Orchids" degli Psychic TV, riletta con accenti folk bruniti. Comunque un buon disco.
Bobby Conn
King for a Day
Thrill Jockey
(2007 - distr. Self)
Per l'etichetta chicagoana torna anche Bobby Conn con il suo stile particolarissimo e eclettico, in cui echi progressivi e barocchi convivono con una tensione glam-hard dentro a scenari fortemente teatrali. Il nuovo King for a Day è infatti un'ulteriore tappa di questo delirante affresco autarchico e megalomane, sempre in bilico fra genialità e cialtroneria.
Una produzione che enfatizza anche troppo gli aspetti strumentali, lo schizofrenico balletto tra i generi - si passa dall'heavy fricchettone dell'iniziale "Vanitas" all'improbabile pop-soul vanigliato di "When The Money's Gone", così come, con analoga leggerezza, dalla cabarettistica "Love Let Me Down" ai turgori soft-jazz eighties di "Twenty-One" - può provocare grande divertimento come una nausea abbastanza repentina. A parziale scusante resta da dire che anche nella vivacissima scena di Chicago alcuni minestroni del rock europeo non sono così metabolizzati [ricordo anni fa un artista curioso e colto come Rob Mazurek confidarmi come avesse scoperto con i Tortoise le "meraviglie" del canterbury sound per loro totalmente nuovo!], ma non ce la sentiamo di suggerire a lettori che non siano davvero convinti del gioco di gettarsi a capofitto nel "regno" fatato di re Conn!
Deerhoof
Friend Opportunity
Thrill Jockey
(2007 - distr. Audioglobe)
Un gruppo invece che sta crescendo di anno in anno e che sembra sempre più consapevole dei propri mezzi è quello dei Deerhoof, trio di San Francisco tra i più originali della scena indipendente che giunge con Friend Opportunity al suo nono disco. Con una irresistibile miscela di rock, elettronica, stranezze varie, grazie anche alla voce eterea di Satomi Matsuzaki e a una capacità di condensare idee e tempi [il disco dura nemmeno quaranta minuti], i Deerhoof trovano una dimensione felicissima e tutto sommato originale nel saturo panorama odierno.
Partenza a bomba con "The Perfect Me" e quando temi che la cartuccia migliore sia stata sparata all'inizio è piacevolissimo scoprire che il livello non scende: con un cantato infantile che ricorda - mutatis mutandis - quello di Solex o di una versione allucinata e drogata degli Stereolab, il trio è grumoso a sufficienza nei bassi, sottilmente pronto a virare dentro nubi malinconiche ["Whither The Invisible Birds"] o nello spasmo punk, elastico come un essere alieno che abbia succhiato il meglio del rock alternativo degli ultimi trent'anni e ce lo restituisse in un fiotto di dati. Li attendiamo dal vivo, intanto il disco è tutto da ascoltare, splendido!
The Shins
Wincing the Night Away
Sub Pop
(2007 - distr. Audioglobe)
Si è parlato molto in questi ultimi mesi dei The Shins, band del New Mexico che approda con Wincing the Night Away al terzo album: la formula è quella dell'indie pop più diretto ed efficace, "perfezionato" progressivamente fino a essere deliziosamente "imperfetto".
Si esce da una nebbia elettronica malinconica con "Sleeping Lessons" e si incomincia il viaggio: un viaggio leggero in "Australia", di inimitabile orecchiabilità [anche un po' british] in "Phantom Limb", via via fino agli apici delle amniotiche "Red Rabbits" e "Black Wave", in cui detriti digitali smerigliano il suono, lo rendono più petroso e quindi pronto a assorbire ogni umore, un po' come la pasta rigata rispetto a quella liscia. È un disco pop, Wincing the Night Away, e come tale contiene pezzi azzeccati e altri che nuotano serenamente in superficie. Ma tra gli ascolti "leggeri" del periodo, è certamente tra i più indicati. Da tenere nell'i-pod o nell'autoradio.
The Eternals
Heavy International
Aesthetics
(2007 - distr. Wide)
Gira e rigira, finisce che si torna poi ancora a Chicago [sarà colpa dei treni o del vento?] dove troviamo The Eternals con il loro nuovo Heavy International: qui siamo dalle parti del rock virato dub, ma le biografie dei tre componenti lasciano intendere come siano ben di più le esperienze che confluiscono nel loro suono. Troviamo ad esempio alla batteria Tim Mulvenna, per anni nei Vandermark 5 e spesso i brani si aprono ad accogliere esperienze "altre".
La stessa pulsione dub è estremamente trasversale e permette alle canzoni di piegarsi in varie direzioni, lasciando così alla ricerca timbrica quel ruolo sovversivo che in altri momenti avrebbe avuto la rabbia esecutiva o la tentazione dance. Forse a mancare sono dei pezzi memorabili in sé, ma l'idea di insieme regge e trova nella coerenza un punto di forza che non mancherà di colpire chi ama queste avventure sonore.
Low
Drums and Guns
Sub Pop
(2007 - distr. Audioglobe)
Ci si addentra in terreni più melmosi e elettrici con Drums and Guns, il nuovo lavoro dei Low, il trio di Duluth [Minnesota] formato da Alan Sparhawk, Mimi Parker e Matt Livingston. Attivi sin dalla prima metà degli anni Novanta, i Low si sono mossi dall'ambito slowcore verso la creazione di scheletriche entità canzone, in cui il battito primordiale e cardiaco della batteria, il canto lento e funereo, il friggere delle chitarre contribuissero a tenere coesa un'emozione fragile ma di stordente sincerità.
Come spesso accade, sono proprio le musiche più essenziali quelle che aprono scenari più ampi: qui il trio lavora anche con percussioni sintetiche e loop per spingersi con l'esplorazione più dentro e dunque più "fuori". L'esito è come sempre onesto e mai scontato: certo non è proprio musica che mette una grande allegria, ma abbandonarsi alle tredici tracce del disco come un corpo che galleggia su una palude è esperienza che riapre ferite salate e intriganti ricordi.
Frida Hyvonen
Until Death Comes
Secretly Canadian
(2007 - distr. Wide)
Siamo invece in Svezia e dalla parti del cantautorato femminile piano e voce con Frida Hyvonen. Brevissimo, nemmeno mezz'ora, il suo Until Death Comes. Le note di presentazione del disco "scomodano" il fantasma di Laura Nyro e francamente ci sembra che non sia proprio il caso. Non perché la Hyvonen sia musicista da poco, ma perché manca nelle sue canzoni quell'immediatezza - a volte anche leggermente sgradevole - che animava la sfortunata Nyro.
Otto canzoni quindi, con Frida che fa un po' tutto da sola, che canta con voce limpida e non banale, ma che non riesce a fare fino in fondo breccia nel cuore di chi ascolta. Forse bisogna addentrarsi di più nel suo mondo, qui traspare un po' di noia.
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