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The Necks a Firenze per A Jazz Supreme

The Necks a Firenze per A Jazz Supreme

Courtesy Pietro Signorini

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The Necks
Sala Vanni
A Jazz Supreme—Musicus Concentus
Firenze
8 novembre 2024

Per la prima volta a Firenze, all'interno della rassegna A Jazz Supreme del Musicus Concentus, venerdì 8 novembre sono saliti sul palco della Sala Vanni The Necks, notissimo piano trio australiano di lungo corso (si sono formati nel 1987 e i suoi membri hanno tutti passato la sessantina), dalla cifra decisamente originale.

Tenendo fede alla loro abituale modalità di esibirsi dal vivo, i tre anche a Firenze hanno proposto una singola, lunga improvvisazione —circa quaranta minuti senza vere interruzioni —scaturita da un piccola cella tematica, che è stata sviluppata nel corso della performance attraverso reiterazioni caratterizzate da ancor più piccole e progressive variazioni tematiche, dinamiche, timbriche e di velocità, giocando ora sugli effetti ipnotici, ora sulle pause, ora sui passaggi di testimone che avvenivano tra il pianista Chris Abrahams e il contrabbassista Lloyd Swanton.

Il pianoforte è stato infatti a lungo protagonista della scena, monopolizzando l'attenzione con la sua ripetitività dinamicamente incrementale, ma anche con la sorprendente capacità di Abrahams di far risuonare la tastiera in modo da far crescere la massa sonora come una valanga e di farla sembrare a momenti persino un piano elettrico; da un certo punto in poi, però, il pianista si è messo al servizio di Swanton, fornendogli un tappeto fisso e soffuso sul quale le corde del contrabbasso producevano variazioni ritmiche e dinamiche. Più defilato e meno significativo, per tutta la durata del concerto, il batterista Tony Buck, che è parso limitarsi a completare il suono della formazione, senza offrire molto alla sua struttura.

Il tutto ha avuto momenti di indubbio fascino —sicuramente i passaggi più intensi dell'ampiamento dinamico del piano e quelli in cui il contrabbasso interveniva con ondate di accelerazioni per modulare la pulsazione della tastiera —e complessivamente quella del trio australiano è parsa una proposta originale, del tutto lontana da qualsiasi altra interpretazione di un organico che, nel jazz, è un classico difficile da innovare. Tuttavia, già all'interno di un singolo concerto la loro è sembrata anche una proposta statica e a momenti ridondante, oltre che oggi un po' datata: alla fin fine, si aveva l'impressione di riascoltare, arrangiata per piano trio, la Music in Twelve Parts di Philip Glass, ovvero una proposta artistica che non può avere oggi l'appeal e il senso di cinquant'anni fa.

Luci e ombre, dunque, che infatti serpeggiavano per la sala anche alla conclusione del concerto, con il pubblico tanto stimolato e sorpreso, quanto allo stesso tempo un po' deluso e annoiato. Così che alla fine non erano molti i giudizi netti, sia in positivo che in negativo, e nessuno si è lamentato della brevità dello spettacolo e dell'assenza di un bis (peraltro impossibile, visto il tipo di performance), forse per il sospetto che aggiungere altro avrebbe fatto definitivamente pendere la bilancia dal lato della criticità.

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